1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il
fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco
di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il
fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo
brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi
tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il
regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un
milione di morti alla fine della carestia.
2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di
nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e
campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias
Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che
vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta
nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto
corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e
nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che
promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di
tutta la nazione.
E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si
chiama Setit.
In questo agosto distratto da conflitti in altre aree
strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da
confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio
dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente
etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva
riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al
cessate il fuoco.
Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente
sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in
particolare le violenze di genere correlate.
Il fiume scorre serafico come sempre. Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine
tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e
diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina. Come
tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è
gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione
settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.
Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di
produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche
volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che
un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a
questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto
corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.
Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano
da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti
alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace
2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può
classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però
sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne
consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che
l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più
consolidata forma di guerra civile, iniziata
nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti
consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato
l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita
bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la
loro con i propri eserciti.
Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo
metterla in folle.
Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa.
Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia” e telegraficamente tramite la sintesi della penna
di Dave Lawler.
Due temi vorrei sottolineare:
1.
se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente
dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non
bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in
campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così,
antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in
Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico
come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di
parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta
dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover
fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto
di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro
volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il
Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.
È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei
moti sotterranei delle vite singole e collettive.
2. «Non so
se si sono accorti che ero una persona»
È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il
titolo del rapporto di Amnesty International e il
contenuto di numerose altre inchieste curate dalla
Reuters e del Georgetown Institute for
Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e
nuovamente “Nigrizia” e…
Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in
piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il
condottiero Giovanni della Bande Nere che
oggi verrebbe definito contractor e in
tempi meno eleganti mercenario.
Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra. Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.
Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma
dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine
continua.
Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle
truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche
della memoria storica di Angelo Del Boca.
https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/
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