Achille Mbembe sulla
decolonizzazione delle arti e dei saperi nell’attuale “tardo eurocentrismo”
Traduzione di Fabio
Cescon
Quando si
considera la storia recente del pensiero critico, due eventi maggiori invitano
alla riflessione. Primo, l’Europa non è più il centro di gravità del mondo.
Come ho scritto nell’introduzione a Critica della ragione nera,
questa è «l’esperienza fondamentale della nostra epoca»1. Questo
cambiamento non significa che l’Europa non ha più alcuna influenza sul
funzionamento del mondo, né che ora dovremmo metterla da parte. Ma l’Europa non
può più nutrire l’illusione di poter dettare il corso del mondo. Questo vale
non solo per l’economia o per il potere militare e tecnologico, ma anche nel
campo della cultura, delle arti e delle idee.
In secondo
luogo, c’è un chiaro pericolo che, in risposta a questa svalutazione storica, a
questa eclissi, alcune persone, dall’estrema destra all’estrema sinistra, siano
state attratte o dal nichilismo o dall’eccesso ideologico (o da entrambi),
ovvero da ciò che chiamo “tardo Eurocentrismo”, un Eurocentrismo che è ancora
più rancido e aggressivo, ancora più sordo, cieco, e vendicativo che nel
passato. Si tratta, in effetti, di una forma di follia.
Cronologicamente,
il tardo Eurocentrismo è l’erede diretto di due manifestazioni precedenti,
ugualmente reazionarie. Originariamente, c’era l’Eurocentrismo primitivo, il
tipo associato alle conquiste imperiali, alle occupazioni militari, e allo
sfruttamento dei territori coloniali2.
Successivamente, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento è sorto un
Eurocentrismo anti-terzomondista, in contrapposizione ai nazionalismi
anticoloniali. Questo ha raggiunto il suo apogeo negli anni Settanta, nella
critica delle teorie della dipendenza e dello sviluppo ineguale e negli sforzi
di stabilire un ordine economico internazionale più giusto3. Tutto ciò
avvenne prima dell’arrivo del neoliberalismo, di cui l’Eurocentrismo tardivo è,
per così dire, la propaggine.
Con l’arrivo
della Cina nel palcoscenico mondiale, l’illusione di supremazia ha dovuto
fronteggiare i suoi limiti4. Ora la
questione è valutare tutte le conseguenze di questa situazione: in primo
luogo occorre creare nuovi percorsi per l’arte e il pensiero; in
secondo luogo, bisogna costruire ponti e vie secondarie per facilitare
gli incontri, così da liberarci delle visioni singolari della storia e
soprattutto della costante tentazione coloniale di gerarchizzare gli esseri e
gli oggetti.
Ciò che il
momento presente richiede è l’accoglienza di altri modi di vivere il tempo e lo
spazio. Nell’era della combustione del pianeta, poiché «una contaminazione
radioattiva sta costantemente crescendo, espandendo i suoi limiti attraverso il
pianeta oltre i confini nazionali», dobbiamo inventare altri modi di abitare la
Terra, considerandolo come un vero rifugio non solamente per alcuni, ma per
tutti – sia umani che non-umani5.
1.
Dato questo
contesto, come possiamo dimenticarci che nel bacino atlantico, dal 1619 in poi,
è stata la razza il più grande ostacolo al progetto di abitazione comune della
Terra?
In origine,
la razza è una realtà del tutto fantastica. Non è mai esistita come fatto
naturale. All’inizio del periodo moderno, forse per la prima volta, si è
scoperto che in quanto realtà spettrale, la razza offre una risorsa
inesauribile, ovvero, una formidabile tecnologia di potere. Per
raggiungere questo effetto, la razza deve essere costantemente riprodotta,
fabbricata, e fatta circolare. Questo processo storico è ciò che
chiamiamo razzializzazione.
La
razzializzazione si riferisce alla presa e al dispiegamento consapevole di un
insieme di tecniche di potere (tecniche giuridiche, strumentali e di
rappresentazione, convenzioni sociali, costumi e abitudini) al fine di produrre
una realtà (la razza) e di naturalizzarla il più rapidamente possibile. Per
raggiungere questo obiettivo, la sua natura posticcia deve
essere mascherata, proprio per rappresentare il risultato come un fatto
naturale, nonostante non lo sia.
Nel
Triangolo Atlantico, questa produzione di realtà secondo i princìpi di
partizione, differenziazione, separazione e gerachizzazione, è operativa dal
XVII secolo6. Inoltre, il
lungo asse che lega l’Europa all’Africa, l’Africa alle Americhe, e le Americhe
all’Europa in quello che viene chiamato Illuminismo, è culminato nella
produzione dei Codici Neri (Codes Noirs). Attraverso questi
Codici Neri, la razza – oramai una categoria fantastica ipostatizzata – è
registrata in vari apparati legali, in particolare nei regimi coloniali e di
schiavitù7
Questi
regimi formarono uno spazio essenzialmente al di fuori del tempo in cui, come
tecnica di potere, il razzismo (in realtà una tecnica di potere storicamente
databile) trovava oramai sia il principio che la fine del suo funzionamento.
In termini
legali, i Codici Neri trasformarono le persone di discendenza africana in
“Neri”, ovvero in materiale grezzo sfruttabile, in materia patrimoniale (the
matter of wealth). Come prodotto di una dinamica di potere e di una
relazione di dominazione, la persona di razza, il “Nero”, risultava
essere simultaneamente un valore di scambio e un valore d’uso. Questa
persona possedeva il valore di una proprietà personale o di un bene. La persona
era associata all’uso di una cosa. Allo stesso tempo, la persona era la
creatrice di cose e di valore. Tuttavia, a differenza del proletariato per sé,
né la forza lavoro dei “Neri” né la risorsa energetica offerta né il prodotto
del lavoro vengono scambiati per un salario8.
Questa forma
di espropriazione originaria non può essere ridotta oggettivamente
all’alienazione di classe al centro del marxismo ortodosso. Certamente
condivide con i lavoratori salariati l’esperienza di un’operazione che cattura
il tempo, l’energia e la forza lavoro, ma è fondamentalmente diversa in
quanto l’alienazione razziale è una forma di alienazione nativa che non
può essere quantificata e non ha un equivalente oggettivo9. Insieme alla
cattura di corpi, energie e persino flussi vitali, c’è un discredito e una
vergogna originari, uno svilimento e un’abiezione ereditaria che si trasmette
da una generazione all’altra e che è quindi, per sua stessa definizione,
insormontabile. Questo effetto è quello che il sociologo Orlando Patterson
chiama “morte sociale”10.
2.
Non c’è
ombra di dubbio che la razza e il principio della gerarchia razziale siano
stati i motori privilegiati del pensiero coloniale11. Il fatto che,
di conseguenza, il pensiero coloniale sia stato una delle matrici primarie
dell’eurocentrismo è stato dimostrato più volte. Ma non dimentichiamo che il
pensiero coloniale non comprende la totalità del pensiero europeo, poiché nel
corso dei secoli ha anche sviluppato i termini della propria critica nel suo
stesso nucleo.
Il pensiero
coloniale deve quindi essere inteso come l’insieme delle tecniche e delle
scienze, dei miti, dei saperi e delle competenze che, a partire dal XV secolo,
hanno reso possibile la distruzione delle condizioni di rinnovamento
della vita sulla Terra. Il dispiegamento di questo assemblaggio (miti,
scienze, conoscenze, competenze) nel corso di più di quattro secoli ha,
inoltre, portato a una profonda destabilizzazione sia in molte società lontane
che nei processi naturali in generale.12 Nel
pensiero afro-diasporico, il gesto coloniale riflette la cattura di potere e
corpi autonomi, flussi vitali che vengono suddivisi, spesi, ricodificati
(razzializzazione) nel tentativo di trasformarli in energia immediatamente
manipolabile, vendibile e acquistabile.
Una delle
principali caratteristiche del pensiero coloniale – e dell’eurocentrismo – così
inteso è il posto concesso all’astrazione. In effetti, dal punto di
vista coloniale, conoscere non consiste necessariamente in uno stare con le
cose in sé, e tanto meno con gli Altri. Conoscere consiste essenzialmente nel
modellare e quantificare le relazioni a distanza, le relazioni di distanza tra
unità, ciascuna delle quali viene colta isolatamente. Queste unità sono tenute
separate l’una dall’altra in quello che, in un altro contesto, Bartoli e
Gosselin chiamano “un rapporto di mutua distanziazione“13.
Ma questa
capacità di modellare, codificare e istituzionalizzare i rapporti di
separazione non è semplicemente un affare mentale. In molti casi, porta alla
distruzione delle condizioni dell’esperienza sensibile, un’esperienza che, come
ci rendiamo conto sempre di più oggi, è assolutamente necessaria per qualsiasi
etica della convivenza, che si tratti della coesistenza tra gli uomini o tra le
specie.
Accanto alle
tecniche e alle scienze, alle conoscenze e alle competenze, c’erano anche,
ovviamente, le infrastrutture. Contrariamente a quanto credono i marxisti
ortodossi, la razza era una di queste. Chi può negare la misura in cui il
razzismo coloniale era consustanziale al liberalismo e alla violenza razziale
necessaria alla costituzione dell’ordine globale?14 Chi può
negare il ruolo che la razza ha giocato nelle dinamiche di espropriazione e
sfruttamento su scala globale e nei meccanismi che istituiscono il potere e la
società nelle società occidentali?15
Con la fine
dell’illusione eurocentrista, si apre quindi la possibilità di voltare le
spalle una volta per tutte a quello che Stuart Hall ha chiamato
“fondamentalismo razziale”, un fenomeno che è servito anche come pilastro del capitalismo, nella
misura in cui il capitalismo stesso si appoggia costantemente a quelli che
sono, in effetti, sussidi razziali per promuovere la sua espansione planetaria16
In questo
momento quasi tutto fa pensare, se non a una rottura, almeno a una rinnovata
contestazione di quel tipo di eurocentrismo virulento e nativista che ha come
obiettivo lo sradicamento e le cui manifestazioni si manifestano nei regolari
tentativi di stigmatizzazione del pensiero che si suppone non nativo, in
Francia e altrove.
Come
propaggine del neoliberalismo nella sua fase autoritaria, il tardo
Eurocentrismo è un’ideologia ingannevole che pretende di difendere la scienza,
la laicità, la Repubblica, l’illuminismo e l’universalismo, anche se non sa
quasi nulla dell’universo, degli altri mondi e delle altre storie. In
realtà, cerca soprattutto di far sparire dalla superficie della terra tutto ciò
che le sfugge. In sostanza, è una risposta corrotta e nichilista alla perdita
del privilegio sociale europeo. Aggrappandosi a un passato fittizio e ignorando
le tradizioni di dissidenza all’interno dello stesso canone europeo, si inganna
con una malinconia mortale, mentre ciò di cui il mondo ha
effettivamente bisogno ora è un nuovo pensiero sulla vita17
Dove
l’eurocentrismo primitivo cercava di stabilire la conquista e il dominio
europeo sul mondo, il tardo Eurocentrismo del ventunesimo secolo cerca di
giustificare l’abbattimento dell’Europa su se stessa, il suo ritiro dal mondo (askêsis)
e la sua eclissi, invocando una violenza estirpante contro le correnti di
pensiero che lo contestano e gli individui che portano queste idee, a
cominciare dalle pensatrici non bianche.
3.
Contrariamente
alle supposizioni comuni, la critica all’eurocentrismo nelle sue varie forme
non è nuova. Il fatto che appaia oggi sotto le vesti delle teorie decoloniali,
degli studi postcoloniali, o della critica della razza, del genere e degli
approcci intersezionali sarà una novità solo per coloro che, murati nelle loro
visioni locali, si tagliano volentieri fuori dai viaggi del pensiero
planetario.
A dispetto
di quanto spesso si sostiene, la critica dell’eurocentrismo non ha mai cercato
di sostituire la guerra di classe con la guerra di razza; piuttosto, ha sempre
cercato di mettere insieme il conflitto di razza, di classe e di genere. Nelle
tradizioni afro-diasporiche in particolare, la critica si è cristallizzata
intorno a diversi concetti chiave, in particolare l’abolizionismo e
la decolonizzazione, che sono sempre stati oggetto di accesi
dibattiti tra afrocentristi, afro-pessimisti e afro-futuristi.
Si può dire
che l’abolizionismo non solo ha preceduto l’Illuminismo, ma è proprio ciò che
garantisce la sua universalità. Finché l’Illuminismo non ha integrato
l’abolizionismo, rimane fondamentalmente tribale. Questo vasto movimento
intellettuale multinazionale e multirazziale ha attraversato tre secoli.
Prefigurando ciò che oggi chiamiamo intersezionalità, ha riunito in un unico
nodo questioni razziali e di genere (la razza delle classi e il loro genere),
questioni legate alla storia del capitalismo stesso (la classe delle razze e il
loro genere) e preoccupazioni sulla giustizia universale18
L’abolizionismo
ha vissuto due momenti significativi. Il primo è stato la crescente critica
alla tratta degli schiavi e al sistema di schiavitù nelle Americhe a partire
dal XVI secolo (Bartolomeo de las Casas). Questo movimento raggiunse il suo
apogeo tra i quaccheri e altri dissidenti protestanti e nei gruppi
rivoluzionari e anticoloniali tra il 1770 e il 1820.19
Questo
momento abolizionista ha favorito l’emergere di generazioni di intellettuali
neri che, nel contesto patogeno di oggi, senza dubbio compaiono nelle liste
stilate dall’Observatoire du décolonialisme e appaiono regolarmente
nelle pubblicazioni – William Wells Brown, William Lloyd Garrison, Frederik
Douglass, Mary Ann Shadd Cary, William Hamilton, Martin Delany e altri.20 La
rivoluzione haitiana del 1791 al 1804 fu il punto più alto della causa
anti-schiavista. La seconda ondata abolizionista, che chiedeva la fine
immediata del sistema della schiavitù, ebbe luogo dagli anni 1820 al tempo
della guerra civile americana.21
Se il
concetto di abolizione si oppone per principio a tutti e a qualsiasi regime di
cattura e rappresenta una richiesta radicale di giustizia di fronte a tutto ciò
che mette in pericolo le condizioni di rinnovamento della vita,
l’anticolonialismo non è meno esigente. Infatti, il movimento
anticolonialista estende le intuizioni originarie del movimento abolizionista.
L’anticolonialismo cerca l’autodeterminazione per principio, cioè chiede la
liberazione del potere, il potere di coloro che sono ridotti a materie prime
nel paradigma coloniale.22 Analogamente
al progetto abolizionista, l’anticolonialismo cerca di reinventare le forme
comunitarie e di sostenere nuovi fenomeni.23
Durante il
periodo della Négritude, che coincise con la fine della guerra
contro il fascismo e l’hitlerismo, l’anticolonialismo si identificò con la
ricerca di un logos autofondante.24 Oggi,
molto più che un grido di protesta, decolonizzare è diventato
un’ingiunzione, un movimento inarrestabile. Naturalmente, questa ricerca ha
sempre comportato le sue ambiguità e contraddizioni25 Allo
stesso tempo un atto di sfida, un colpo di stato e una presa di potere
attraverso il potere di autoistituirsi, la chiamata decoloniale ha catturato
tante menti nel Nord come nel Sud del mondo.
4.
L’ingiunzione
a decolonizzare sarebbe, tuttavia, di scarso interesse se non portasse a
un’agenda culturale veramente radicale, come quella che il tanto rimpianto Édouard
Glissant ha continuato a proporre fino a poco tempo fa. Questa agenda
era incentrata sull’idea di Tutto-Mondo.
Il concetto
di Tutto-Mondo ha tre caratteristiche distintive. In primo luogo, è impegnato
in una rottura totale con tutte le forme di chiusura del sé, sia sotto forma di
un recinto territoriale, nazionale, etno-razziale o religioso. In secondo
luogo, si oppone al tipo di universalismo autoritario su cui si fonda l’impresa
coloniale, un universalismo basato sulla conquista che cerca
di raggiungere i suoi obiettivi non attraverso una molteplicità di corpi ed
esseri, ma all’interno di un unico corpo arbitrariamente ritenuto come il solo
e unico corpo veramente significativo. In terzo luogo, nella concezione del
Tutto-Mondo, la spinta a conoscere è prima di tutto un invito a uscire
dall’ignoranza volontaria e a scoprire i propri limiti. Più di ogni altra cosa,
si tratta di imparare a essere-nati-con-gli-altri, cioè una rottura
senza compromessi di tutti gli specchi che ci si aspetta restituiscano
fedelmente un’immagine di sé.
Nel pensiero
di Glissant, il mondo del Tutto-Mondo si attorciglia e si intreccia in relazioni
intricate tra una molteplicità di centri. Il più grande ostacolo alla sua
adesione è un’ignoranza così inconsapevole di sé che alla fine
si trasforma in un puro nativismo che cerca di passare per
scienza e universalismo.
La battaglia
contro questa forma auto-interessata di ignoranza richiede un allontanamento
dall’io, un’apertura deliberata alla possibilità di molteplici passaggi
e molteplici attraversamenti perché solo la prova del passaggio e
dell’attraversamento ci permette di non parlare costantemente né di noi stessi
né di altri mondi, al loro posto, come se non esistessero già per se stessi. Si
tratta invece di guardare insieme e vedere, ma ogni volta a partire da
più mondi.
Lo stesso si
potrebbe dire, mutatis mutandis, della decolonizzazione propriamente
detta. Decolonizzare il sapere, le arti e il pensiero è cercare di
ascoltare, guardare e vedere la realtà partendo da più mondi o centri
contemporaneamente; leggere e interpretare la storia a partire da una
molteplicità di archivi.
Un progetto
di questo tipo richiede urgentemente una nuova critica della differenza
e della segregazione. Perché senza una critica risoluta della differenza
non si potrà mai smantellare quella che V.Y. Mudimbe ha chiamato “la biblioteca
coloniale” che è la pietra angolare dell’eurocentrismo26. Decolonizzare
è imparare a nascere insieme (cobirth). Nascere insieme è l’unico modo
per superare il duplice desiderio di astrazione e segregazione che caratterizza
il pensiero coloniale – sia la separazione degli uomini tra di loro, sia la
separazione degli uomini dalle altre specie, dalla natura e dalle molteplici
forze della vita.
5.
In
definitiva, l’illusione eurocentrica è fallita. Dalle sue ceneri, nel Nord, nel
Sud e nell’Est, vediamo emergere nuovi modi di pensare, un pensiero che
è veramente planetario. Questo pensiero non prende come oggetto solo gli
esseri umani, ma anche la terra, il fuoco, l’aria, l’acqua e i venti, in breve,
la vita stessa.27 Questi
modi di pensare sono tutti anticoloniali per definizione, se
per coloniale intendiamo il rifiuto di “nascere insieme”, la determinazione a
separare, ad erigere muri, ogni sorta di muri e fortezze, trasformando i
percorsi in confini, l’identità in recinto e la libertà in proprietà privata.28
Queste
modalità di pensiero anticoloniali e post-eurocentriche mettono in evidenza non
essenze o blocchi compatti e omogenei, ma porosità. Non dipendono dai contrafforti
volanti di un’eredità nazionalista. Laddove l’eurocentrismo tagliava
abitualmente il tempo, lo spazio e la storia in parti discrete, segnate da
presunte differenze irriducibili e inassimilabili, questi modi di pensare
trattano in matasse aggrovigliate. Nell’arte, nella musica, nel cinema e in
altre forme di scrittura, cercano di moltiplicare le vie e costruire ponti.
Mentre il tardo Eurocentrismo non vede altro che linee di occupazione, ponti da
tagliare, muri da innalzare, prigioni da costruire, punti di arrivo mai
collegati ai punti di partenza, il pensiero del Tutto-Mondo valorizza il fatto
che siamo tutti attraversati da molteplici genealogie, forgiate da linee
sinuose e interconnesse.
Oggi stiamo
assistendo al decollo di questi modi di pensare anticoloniali e
post-eurocentrici, e non solo nei Sud del mondo. Stanno fiorendo ovunque, anche
nel cuore dell’Europa. Ma nell’attuale ripiegamento su identità spesso
fantastiche, nell’era delle teorie del complotto e della produzione deliberata
di falsi e disarmonie, il loro fiorire e la loro risonanza tra le nuove
generazioni suscitano ansia, paura e panico, soprattutto nei vecchi centri del
mondo, ma non esclusivamente.29
Questo
perché una nuova guerra dall’aspetto quasi religioso si è impadronita del
mondo. Condotta in tutti gli angoli della scala terrestre dall’alt-right
globale contro una selezione di nemici reali e immaginari (liberali, di
sinistra, marxisti, attivisti per le minoranze, immigrati, queer, femministe
decoloniali, islamo-sinistra), il suo obiettivo è quello di rovesciare i
termini stessi della realtà insieme ai suoi modi di apparizione e rivelazione.
Studiare il
modo in cui questa guerra viene condotta ci permette di mettere in luce alcune
delle grandi fantasie della nostra epoca.30 La prima
è la fantasia di chiusura e il suo corollario, sradicare ed estirpare
la violenza. Questo desiderio di brutalità, soprattutto contro coloro che
hanno perso, i più deboli e vulnerabili tra noi, in particolare coloro che sono
stati precedentemente sottomessi, si nutre dell’aumento delle teologie
della necrosi. Presenta deboli favole che predicano l’impossibilità e
l’incompatibilità – incontri impossibili, condivisioni impossibili, in breve,
l’impossibilità di una molteplicità di mondi. Qui c’è ovunque una spinta alla
totalizzazione31.
La seconda è
la fantasia dell’estinzione e della sostituzione32. In questa
guerra di demonizzazione e delegittimazione, che combina narrazioni
fondamentalmente incompatibili, si afferma che la razza bianca è sotto assedio,
minacciata di estinzione, vittima di un pernicioso contro-razzismo. L’Occidente
e la sua “civiltà” sono presentati come se avessero tutte le caratteristiche di
un corpo pieno e autosufficiente, sviluppato nel corso dei secoli dalla sua
stessa stoffa. Non ha debiti con nessuno, tanto meno riparazioni. Nel
frattempo, è il destinatario di gravi minacce interne da parte di gruppi che
sono essi stessi all’interno, ma che sono pronti ad allearsi con nemici ingrati
e malevoli.33 Da qui
l’obbligo di organizzare una massiccia autodifesa.34
La teologia
della necrosi usata per giustificare questa guerra distingue due categorie
antagoniste di esseri umani: i buoni e i cattivi, i nemici e gli amici, la
maggioranza e la minoranza. Dualistica e manichea, esclude per principio ogni possibilità di
abitare in comune.35
Nel
frattempo, da ogni angolo della terra si alzano costantemente verso il cielo
grida che non possono essere soffocate. Il vecchio problema di saper pensare la
singolarità degli altri, insieme all’irriducibilità della loro sofferenza,
ritorna ancora una volta con acutezza, anche mentre il pianeta è preso da un
movimento di combustione accelerata e l’appello a un pensiero che non
sia locale o regionale, ma veramente planetario, non è mai stato sentito
con tanta urgenza.
6.
Gli elementi
di un tale modo di pensare planetario si trovano negli archivi del Tutto-Mondo.
Infatti, dobbiamo ricordare che c’è stato un tempo in cui la critica alla
schiavitù razziale e al colonialismo, insieme alla denuncia dell’antisemitismo,
erano presupposti consolidati per l’adozione di qualsiasi posizione sulle
battaglie universali per l’uguaglianza, la giustizia e l’emancipazione umana36.
A quel tempo
si trattava di dimostrare che non esistevano due tipi di umanità; piuttosto,
sparsi in tutto il mondo, si pensava che la massa innumerevole di esseri
viventi convergesse verso un’unica umanità aperta a tutte le forze della vita.37 Lungi dal
riferirsi unicamente a un parente, a un compatriota o a un membro del clan, un
simile era, per definizione, chiunque avesse un volto umano, che questo volto
avesse o meno i tratti della propria etnia, religione o nazionalità.38
Alla fine,
fu attraverso le rivolte dei popoli schiavizzati, come la rivoluzione di Haiti,
le grandi campagne abolizioniste del XIX secolo e le insurrezioni anticoloniali
che categorie come libertà, alterità, universalità, diritto
all’autodeterminazione “divennero carne” per tutti, acquisendo infine una
densità politica e filosofica, riaffermando la realtà della nostra comune
partecipazione all’umanità. La speranza era che attraverso questa “comunità di
partecipazione” l’avventura umana sulla Terra trovasse finalmente il suo senso.
Ogni volto preso nella sua singolarità sarebbe stato finalmente protetto dalla
disumanità, e la sofferenza di coloro che costituivano la maggioranza del
genere umano avrebbe finalmente avuto fine.39
7.
Nel nostro
tempo è chiaro che l’ultranazionalismo come forza sociale e sensibilità
culturale, insieme alle ideologie di supremazia razziale, stanno vivendo una
rinascita globale. Questo rinnovamento è accompagnato dall’ascesa di un’estrema
destra dura, xenofoba e apertamente razzista, che è al potere in molte
istituzioni democratiche occidentali e la cui influenza si può sentire anche
all’interno dei vari strati della stessa tecnostruttura. In un ambiente segnato
dalla segregazione delle memorie e dalla loro privatizzazione, così come dai
discorsi sull’incommensurabilità e sull’incomparabilità della sofferenza, il
concetto strettamente etico del prossimo come un altro sé non regge più.
L’idea di
una somiglianza umana essenziale è stata sostituita dalla nozione di
differenza, presa come anatema e divieto. Di conseguenza, è diventato
estremamente difficile determinare il modo in cui ciascuno degli innumerevoli
luoghi di sconfitta ed espropriazione, il trauma e l’abbandono che la storia
moderna ci ha lasciato in eredità, portano il volto dell’intera umanità,
lacerata in ogni caso. Concetti come l’umano, la razza umana, il genere
umano o l’umanità non significano quasi nulla, anche se le pandemie
contemporanee e le conseguenze della combustione in corso del pianeta
continuano a dar loro peso e significato.
In
Occidente, ma anche in altre parti del mondo, stiamo assistendo al sorgere di
nuove forme di razzismo che potremmo definire parossistiche. La natura del
razzismo parossistico è che, in maniera metabolica, può infiltrarsi nel
funzionamento del potere, della tecnologia, della cultura, del linguaggio e
persino dell’aria che respiriamo. La doppia svolta del razzismo verso una
varietà tecno-algoritmica ed eco-atmosferica lo sta rendendo un’arma sempre più
letale, un virus.
Questa forma
di razzismo viene definita virale perché va di pari passo con l’esacerbazione
delle paure, compresa e soprattutto la paura dell’estinzione, che sembra essere
diventata uno dei motori trainanti della supremazia bianca nel mondo.
Tuttavia, la virulenza del razzismo contemporaneo è pari solo alla sua
negazione. Il tardo Eurocentrismo è una forma maligna di questa negazione.
In un
rovesciamento spettacolare, gli sforzi antirazzisti sono ritenuti responsabili
dell’aumento del razzismo. I crimini storici più invidiosi nel cuore
dell’Europa da parte dell’Europa sono ora imputati ad altri, a cominciare dai
discendenti delle vittime dell’imperialismo europeo. È il caso
dell’antisemitismo. Allo stesso tempo, con l’aiuto dell’escalation della
tecnologia e la crisi del neoliberalismo, la svolta illiberale delle democrazie
liberali si sta indurendo.
Forse verrà
il momento in cui la rigenerazione delle forze della vita così necessarie alla
nostra sopravvivenza sulla pianta verrà dal Nord globale. Mentre aspettiamo,
una buona parte dell’Europa continua a murarsi dietro il più oscuro dei
bastioni. Non c’è assolutamente nulla da concedere a questa parte d’Europa, o
al tardo Eurocentrismo.
Questo testo
è stato letto virtualmente al Quai Branly – Museo Jacques Chirac in occasione
del “Summit di settembre” organizzato a Parigi durante la Saison Africa 2020.
Come articolo è uscito in lingua originale su AOC media.
Note
- Achille Mbembe, Critique
of Black Reason (2017)
- Vedi Edward Said, Orientalism (New
York, 1978), and Walter Mignolo, The Darker Side of Western
Modernity. Global Futures, Decolonial Options (Durham, N.C.,
2011).
- Vedi André Gunder Frank, “Le
développement du sous-développement”, Cahiers Vilfredo Pareto6,
nos. 16–17 (1968), e Samir Amin, L’accumulation à l’échelle
mondiale (Paris, 1970). See also Samir Amin, L’eurocentrisme.
Critique d’une idéologie (Paris, 1988), e Immanuel Wallerstein,
“Eurocentrism and its Avatars: The Dilemmas of Social Science,”Sociological
Bulletin, 1 Mar. 1997.
- Vedi Giovanni Arrighi, Adam
Smith in Beijing. Lineages of the Twenty-First Century(New York,
2007).
- Sabu Kohso, Radiations
et révolution. Capitalisme apocalyptique et luttes pour la vie au Japon(Paris,
2021). See also Kohso, “Radiation, Pandemic, Insurrection”, The
New Inquiry, 14 Dec. 2020
- Vedi Peter Kolchin, American
Slavery, 1619–1877 (New York, 1993), and Thomas D. Morris, Southern
Slavery and the Law, 1619–1860(Chapel Hill, N.C., 1996).
- Vedi Phillip J. Schwarz, Twice
Condemned. Slaves and the Criminal Laws of Virginia, 1705–1865(Union,
N.J., 1998), and Sally E. Hadden, Slave Patrols. Law and Violence
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- Vedi W. E. B. Du Bois, Black
Reconstruction in America. An Essay Toward a History of the Part Which
Black Folk Played in the Attempt to Reconstruct Democracy in America,
1860–1880(New York, 1935).
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Marxism. The Making of the Black Radical Tradition(Chapel Hill, N.C.,
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- Vedi Orlando Patterson, Slavery
and Social Death. A Comparative Study(Cambridge, Mass., 1982
- Nel contesto francese, vedi
Elsa Dorlin, La matrice de la race. Généalogie sexuelle et
coloniale de la nation française(Paris, 2006).
- Vedi David Bartoli and Sophie
Gosselin, Le toucher du monde. Techniques du naturer (Paris,
2020), p. 15.
- Ibid.
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and Empire. A Study in Nineteenth-Century British Liberal Thought(Chicago,
1999), and Duncan Bell, Reordering the World: Essays on Liberalism
and Empire (Princeton, N.J., 2016).
- Vedi Stuart Hall, Selected
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Gikandi, Slavery and the Culture of Taste (Princeton,
N.J., 2011).
- Su questi dibattiti e critiche
vedi Edward Baptist, The Half Has Never Been Told: Slavery and the
Making of American Capitalism(Cambridge, Mass., 2016); Sven Beckert, Empire
of Cotton: A Global History (New York, 2014); Walter
Johnson, River of Dark Dreams: Slavery and Empire in the Cotton
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