Era il marzo del 2001. A New York le Twin Towers ancora svettavano nel bel mezzo della skyline di Manhattan, ignare che di lì a pochi mesi sarebbero state ridotte a un cumulo di macerie, e una notizia raggiungeva l’Occidente: a Bamiyan, valle a circa 250 km da Kabul, in Afghanistan, i Talebani, il gruppo di studenti coranici fondamentalisti che aveva preso nel 1996 il comando del paese, avevano distrutto due giganteschi Buddha scolpiti nella roccia della vallata, considerandoli pericolose espressioni di idolatria.
Questo
fatto, che all’epoca suscitò un’ampia eco internazionale, fu un tassello
fondamentale per costruire sia in Oriente che in Occidente la “nuova immagine”
dell’Afghanistan talebano. I Talebani lo usarono per accreditarsi come
rappresentanti dell’Islam più fanatico e intransigente, scavalcando persino il
vicino Iran sciita, di cui sono avversari perché sono musulmani sì, ma sunniti.
In Occidente
invece servì a proporre la narrazione di un Afghanistan primitivo, un
territorio in mano a tribù incontrollabili dalle usanze barbare, e a etnie in
perenne contrasto fra loro: una terra rimasta insomma fino ad oggi alla
preistoria o al massimo al Medioevo, in cui i diritti umani erano sconosciuti,
le donne oggetto di soprusi da parte di fanatici religiosi e familiari immersi
in una feroce cultura patriarcale. Un paese arretrato, quasi un fossile
vivente, che doveva essere aiutato in ogni modo, anche con un intervento
militare, a trovare la strada per entrare nella modernità.
A tutt’oggi
questa è l’immagine che la maggioranza degli Occidentali ha introiettato di
questo paese: un posto povero e desolato che sa produrre solo tagliagola
fanatici o popolazioni inermi alla loro mercé. Una immagine che finisce col
giocare contro gli Afgani, perché alla fine, quando si è deciso di ritirare le
truppe che da vent’anni garantivano un minimo di pace all’interno del paese, il
mancato scandalo per questa scelta è anche stato legato al fatto che
nell’immaginario del cittadino medio occidentale gli Afgani sono dei primitivi
privi di cultura che tanto comunque passerebbero il tempo a farsi guerra e
sgozzarsi fra loro. Tanto vale lasciarli al loro destino.
L’ignoranza dell’Occidentale
medio
Il problema
che l’Occidente ha con l’Afghanistan - ma sarebbe più corretto dire con tutto
lo scenario medio ed estremo orientale - è un problema culturale. No, non nel
senso che si tratta di uno scontro fra culture diverse o opposte, Islam e
cristianesimo, crociate o jihad. Molto più banalmente l’occidentale medio, che
poi è quello che vota nelle democrazie i politici che si devono occupare dei
problemi orientali, di Oriente non sa in pratica nulla, o molto poco. L’Occidentale
medio viene fuori da scuole dove l’impostazione degli studi è sempre stata
rigorosamente eurocentrica, ma dove negli ultimi anni anche quel poco che si
studiava di storia mediorientale (soprattutto antica) è stato ridotto e
tagliato. Politici come Matteo Salvini e Matteo Renzi (per citarne due, ma
l’idea è traversale) hanno spesso deprecato il fatto che nelle scuole si perda
tempo a studiare sumeri e ittiti, e non la storia italiana del Novecento, per
esempio. Già, peccato che poi per capire il caos del Medioeriente attuale una
infarinatura su ittiti, sumeri, persiani, regni greco ellenistici e problemi
dell’area siriaca, mesopotamica e iranica sarebbe più che auspicabile, se non
altro per sapere dove stanno e perché sono fondamentali città come Herat,
Kabul, Damasco, Beirut o Gaza, ormai costantemente al centro delle notizie
quotidiane.
L’Afghanistan crocevia di
culture
Per capire
la storia di questo martoriato lembo di terra, forse è meglio ricorrere ad una
immagine: la statuetta di una dea ritrovata nel 1978-9 in una necropoli di Tillia
Tepe dove
sono presenti una serie di tombe, in prevalenza femminili, risalenti all’epoca
dell’impero Kushana (I-II secolo a.C.). L’idoletto
ritrae la dea greca dell’amore Afrodite, ma le fattezze della divinità sono
sorprendenti: ha infatti gli occhi a mandorla come se fosse cinese, e al centro
della fronte il piccolo cerchio rosso caratteristico dell’India. Inoltre, come
le divinità dell’estremo Oriente, è raffigurata con ali sulla schiena. Una dea,
e una figura femminile, che ben simboleggia quell’incredibile incrocio di
culture (indoeuropea, persiana, greca, indiana, turca, cinese) e di religioni (paganesimo, zoroastrismo, cristianesimo, buddismo, Islam)
che l’Afghanistan è sempre stato nei secoli.
L’Afghanistan, la vera terra di
mezzo
Non
conoscere la storia spesso non permette di capire i motivi profondi, economici
e geopolitici, per cui le grandi potenze intervengono in determinati paesi e in
altri no. Il caso afgano è emblematico. L’Afghanistan da millenni è al centro
di scontri militari e politici ferocissimi in virtù della sua posizione
geografica strategica, che lo rende la porta terrestre verso l’Oriente e
l’India e viceversa. Non c’è stato un solo periodo nella storia umana in cui
questo lembo di terra non sia stato conteso fra i più diversi imperi.
Fin dal
neolitico e dall’età del bronzo l’Afghanistan è percorso da piste carovaniere
che permettono alle merci orientali di arrivare in Occidente. Se oggi entrate
in una chiesa medioevale con il soffitto affrescato di blu, quel blu, fatto di
polvere di lapislazzuli, viene dall’Afghanistan. Le sete preziose che vestivano
i nostri antenati, le spezie che aromatizzavano i loro piatti o tentavano di
curare i loro malesseri provenivano o transitavano da lì.
Ma c’è di più.
Il più antico nome della principale regione afgana era in antico Aria o Ariana.
Sì, era la terra dove si stanziarono le prime tribù indoeuropee nostre lontanissime antenate,
che poi si divisero in due tronconi: una discese verso l’attuale India e
l’altra si mosse verso l’Europa. Tecnicamente infatti, anche se di religione
musulmana, la popolazione afgana non è di etnia araba, e le lingue più parlate
nel paese sono indoeuropee, proprio come il latino o l’italiano. Una faccia una
razza con gli Occidentali, si potrebbe dire.
In antico,
anziché una terra povera e arretrata, era un luogo fertile e ricco, anche
grazie all’escavo di canali portato avanti dai Babilonesi e poi dai Medi e dai
Persiani, che dominarono la regione a lungo.
L’Afghanistan di Alessandro
Magno, il sogno della fusione fra Occidente e Oriente
Ma è con
Alessandro Magno che la storia dell’Afghanistan si salda con quella
dell’Occidente in maniera definitiva. Il re macedone conquistò l’impero
persiano e si spinse proprio nella regione della Battriana (all’estremo
nordest dell’attuale Afghanistan) per inseguire Dario III, il re persiano suo
antagonista. La moglie di Alessandro, la bella Rossane, era figlia del satrapo
della Battriana, Ossiarte, che tradì Dario e divenne alleato dei Greci. Fu
proprio con questo matrimonio, per altro, che iniziò la politica di fusione con
i nuovi sudditi orientali, che portò Alessandro a favorire i matrimoni misti,
ad adottare costumi orientalizzanti e a prevedere per il suo nuovo regno una
struttura amministrativa che riprendeva a grandi linee l’organizzazione
dell’impero persiano. Il sogno di un impero in cui Occidente e Oriente per una
volta si fondessero assieme anziché combattersi nacque nell’attuale
Afghanistan, e a regnare sopra questa entità politica avrebbe dovuto essere il
piccolo Alessandro, figlio di Alessandro Magno e Rossane. Che, tecnicamente,
era per metà afgano.
Greci d’Estremo Oriente
Morto
Alessandro nel 323 a.C. e scomparsi Rossane e il figlioletto (tolti di mezzo
dalla corte macedone) iniziò quello che siamo soliti nominare periodo
ellenistico, che comincia con la divisione del grande impero di Alessandro fra
i suoi diadochi, i generali del suo Stato maggiore, tutti di nascita macedoni.
L’estremo lembo orientale dell’impero di Alessandro venne preso da Seleuco I,
satrapo di Babilonia, per altro sposatosi anche lui con una principessa
battriana, Apamea. I Seleucidi, di origine quindi macedone-afgana,
furono sul trono con alterne vicende fino all’83 a.C. quando Filippo Filadelfo
fu sconfitto da Tigrane di Armenia e poi tutta la regione fu riorganizzata dai
Romani grazie all’intervento militare di Gneo Pompeo Magno. Intanto però la
Battriana, cioè l’Afghanistan, si era reso indipendente nel 250 a.C. quando il
satrapo locale, il greco Diodoto, si rivoltò contro il re selucide Antioco II,
e venne poi a sua volta esautorato da Eutidemo di Magnesia, un mercenario greco
ambizioso e ancora più spregiudicato. Eutidemo e la sua dinastia ebbero
contatti internazionali ad ampio raggio. La Battriana ebbe proficui commerci
con la Cina, oltre che con l’India. Ambasciatori greci erano comuni nelle corti
indiane, e i Greci erano sensibili al buddismo. Uno dei loro re, Menandro I, si
convertì anche alla religione buddista e ne favorì la diffusione nel suo regno.
Fra il I
secolo a.C. e il VI d.C. la fusione culturale greco-Indiana portò alla nascita
dell’arte del Gandhara, uno stile architettonico e
scultoreo che riprende i modelli greci ma li usa per costruire e decorare
monasteri buddisti, e che ha la sua culla proprio nella regione più ad est
dell’Afghanistan. I Buddha di Bamiyan, la cui datazione è incerta, erano
appunto frutto di questa cultura mista.
I kushana che venivano dalla
Cina
Nel 127 d.C.
i Greci di Battriana sono conquistati da un altro popolo, anche questo di
origine indoeuropea, ma proveniente dalla Cina: gli Yuezhi che
fonderanno l’impero Kushana. Questo Stato, anche se quasi nessuno in Occidente
lo conosce, fu ben organizzato, potente, all’avanguardia e incredibilmente
aperto e sensibile alle influenze esterne. A questo periodo risale la necropoli
Tillia Tepe con la sua Afrodite interetnica. I Kushana avevano vasti legami
internazionali con i più importanti imperi del tempo: delegati del loro re
parteciparono a Roma ai festeggiamenti per la vittoria di Traiano sui Daci,
statuette kushana sono state ritrovate a Pompei e le loro monete raggiunsero
persino la Scandinavia. L’Afghanistan insomma non era allora una terra desolata
ai margini della civiltà, ma piuttosto il centro di una rete di commerci e di
potere politico.
I Sasanidi
Nel 224 d.C.
salgono al potere i Sasanidi, che rinnoveranno i fasti
dell’antico impero persiano. Questa dinastia in origine era una famiglia di
sommi sacerdoti del tempio di Persepoli, devoti al culto di Ahura Mazda e di
Zoroastro suo profeta. Lo zoroastrismo era la religione ufficiale della Persia
prima dell’Islam. Praticata fin da tempi antichissimi, era un culto monoteista
incentrato sull’azione purificante del fuoco fonte di vita e di energia.
Conquistarono velocemente l’impero Kushana ormai in decadenza e furono una
spina nel fianco per i Romani. Gli imperatori romani Gordiano e Filippo l’Arabo
dovettero venire a patti con il re Sapore, ma il peggio toccò all’imperatore
Valeriano (260 d.C), sconfitto sul campo e preso prigionero: un’onta che Roma
non metabolizzò mai.
Mentre
Sapore era sul trono, nel 313 Costantino consentì la libertà di culto ai
cristiani e in pochi anni il cristianesimo divenne la religione più importante
nell’impero Romano. La cosa ebbe contraccolpi in Oriente, perché, fino ad
allora, i cristiani, perseguitati dai romani, erano spesso serviti come “quinta
colonna” per i dinasti orientali. Ora invece rischiavano di diventare spie
filoromane, ragione per cui Sapore iniziò una prima persecuzione contro di
essi. Intanto la Battriana ritornò ad essere semindipendente sotto una nuova
dinastia, i Chioniti, che favorirono il buddismo e i rapporti con l’India. La
valle di Bamiyan infatti era percorsa da un importante tratto della Via della
Seta che portava fino alla Cina. E come sempre nelle umane vicende politica
religione e commercio vanno a braccetto. La comunità buddista era una vera e
propria mediatrice internazionale e spesso veniva scelta per summit di pace fra
Sasanidi, Chioniti e Gupta, la dinastia regnante in India. L’Afghanistan
confermava quindi la sua naturale vocazione di terra di mezzo fondamentale per
mantenere gli equilibri in questa regione strategica.
Arriva l’Islam. E Avicenna.
Fino ad
adesso le religioni diffuse in Afghanistan erano quindi buddismo, politeismo,
zoroastrismo e minoritarie presenze del cristianesimo, soprattutto quello con
venature manichee, che i Sasanidi avevano avuto in maggiore simpatia. Ma nel
VII secolo d.C. sulla scena internazionale irrompe l’Islam. In pochi anni
l’impero sasanide collassa sotto i colpi dei determinati cavalieri arabi
neocovertiti alla fede di Maometto. La regione afgana era già in mano da anni
ad un nuovo popolo, quello degli Unni Bianchi.
Dal IX al X
secolo la Battriana diventa di nuovo un centro di cultura grazie ai Samanidi.
Samarcanda e Bukhara rivaleggiano con Bagdad. L’intellettuale più noto è il
filosofo e medico Avicenna, ovvero Ibn Sina, i cui trattati saranno
successivamente tradotti e letti in Occidente perché fa parte di quella ondata
di scienziati e intellettuali islamici che portarono la scienza araba ad essere
all’epoca la più avanzata al mondo. Ibn Sina era un cultore di Aristotele e
Ippocrate, amante della letteratura greca e della matematica, studioso
appassionato di logica e dei sillogismi e fu uno dei padri fondatori della
psicologia. Studiò anche numerosi stati di alterazione fisica, come gli incubi,
la demenza e alcuni tipi di manie e di ossessioni. Forse oggi i Talebani gli
sembrerebbero interessanti casi da approfondire.
Mamma li turchi (e i mongoli)
Nel X e XI
secolo nuova svolta nella regione: si costituisce un khanato (governatorato)
turco fondato da un ex schiavo che ha fatto carriera fino a diventare re,
Alptigin. I suoi discendenti porteranno avanti numerose campagne in India e
diffonderanno l’Islam nella regione. Anche i turchi selgiuchidi poi si impadroniscono
di questi territori. Ma la svolta avviene nel 1220 quando arriva come un
ciclone a travolgere l’Afghanistan Gengis Khan. Conquista tutto, rade al suolo
la comunità buddhista di Buyaman (ma non abbatte i giganteschi Buddha, vuoi
perché ha fretta, vuoi perché comunque ha più senso estetico dei Talebani).
Quando Gengis muore nel 1244 il suo impero si divide in tronconi, e quasi un
secolo deve passare perché emerga la figura di Tamerlano, che a cavallo del
1400 conquistò territori dalla Siria alla Cina.
È un sovrano
di Kabul, Babur, discendente di Gengis e
Tamerlano, che darà il via all’impero dei Moghul in Asia, nel 1500.
Nel 1747
l’Afghanistan torna protagonista: Abdali, comandate che aveva servito
sotto lo scià persiano, approfitta del vuoto di potere creatosi alla morte del
sovrano per creare un suo impero. Combatterà a lungo con i Moghul dell’India,
ma i suoi discendenti (ebbe 24 figli) non si rivelarono particolarmente dotati.
Il Grande Gioco
Intanto,
però, il mondo sta precipitosamente cambiando. In India il potere è tenuto
dalla Compagnia delle Indie inglese, e in Occidente l’astro di Napoleone è in
ascesa e la Russia dai tempi di Caterina la Grande coltiva ambizioni di
espandersi in Asia. Comincia così a delinearsi il cosiddetto “Grande Gioco”,
ovvero l’insieme di piani di conquista, operazioni spionistiche e interventi
militari in cui l’Afghanistan è centrale per la sua posizione strategica come
porta dell’India. Oltre che da problemi di politica occidentale, l’Afghanistan
è anche coinvolto nelle lotte fra Islam e i Sikh che tengono la regione del
Punjab. Ma a scatenare i veri e propri disastri in Afghanistan saranno le
ambizioni dei funzionari inglesi e la concorrenza con i Russi.
Nel 1837 si
arriva alla guerra. Il piano inglese è quello di mettere sul trono afgano un re
compiacente, Shah Shuja, e poi ritirarsi dal territorio così messo in sicurezza
e sottratto all’influenza russa. Vi suona familiare? Eh, alle volte. Quando
metà esercito inglese, nel 1840, fu rimandato a casa, la situazione esplose.
Gli inglesi furono costretti ad evacuare Kabul, ma il convoglio formato da più
di sedicimila persone, fra cui molti civili, fu sterminato lungo il tragitto.
Unico superstite, lasciato in vita apposta per raccontare in patria l’orrore
vissuto, un medico: il dottor Brydon.
La risposta
inglese non si fece attendere e fu terribile. Una nuova forza militare riprese
Kabul e fece strage nei villaggi, praticando saccheggi e stupri punitivi.
Nel 1878
scoppiò un nuovo conflitto afgano: i Russi avevano inviato una delegazione a
Kabul mentre agli Inglesi fu vietato l’accesso. Nonostante una campagna
altalenante, alla fine gli inglesi riuscirono ad ottenere l’autorizzazione a
gestire la politica estera afgana, anche se poi alla fin fine dovettero
accettare un re che era stato proposto dai Russi. I rapporti con le tribù
continuavano però ad essere difficoltosi e l’Afghanistan una terra difficile da
controllare. Il Grande gioco, in Afghanistan, dimostrava tutti i suoi limiti.
Il Grande Gioco in letteratura
Intanto però
l’immagine dell’Afghanistan in Europa si fissa e diviene quella che ancora oggi
va per la maggiore. Una terra difficile da conquistare, abitata da tribù
bellicose e fiere, sì, ma in sostanza aliene alla civiltà. A raccontare lo
scenario afgano o a farlo intuire fra le pieghe dei loro racconti troviamo sia
Kipling che il più popolare Conan Doyle. Kim, romanzo del 1901, racconta i
problemi di quell’area e il gioco diplomatico e di agenti segreti che veniva
tenuto in piedi dai funzionari inglesi, coinvolgendo spesso anche spie e
fiancheggiatori locali. Un riverbero della crisi afgana invece è il ritorno a
Londra del dottor John Watson, ferito nel secondo conflitto afgano, appunto,
che proprio per questo finisce col diventare coinquilino del celebre Holmes. È
curioso come, per via dei corsi e ricorsi storici, quando nel 2010 Steven
Moffat e Mark Gatiss riattualizzarono Sherlock Holmes nella serie BBC Sherlock,
ambientata ai giorni nostri, uno dei pochi dati che non furono costretti a
ritoccare fu proprio questo. John Watson poteva ancora essere un medico
veterano della guerra in Afghanistan, perché nel frattempo, nel 2001,
l’Afghanistan era stato di nuovo al centro di una guerra.
Di cui oggi
vediamo l’ultimo atto, con un nuovo abbandono di Kabul, e l’apertura di uno
scenario difficilmente gestibile.
Forse
l’Afghanistan è un mistero per cui nemmeno Holmes può trovare una soluzione
efficace.
[Si ringrazia
lo storico Alessandro Vanoli per la consulenza storica su
alcune parti del testo]
Bibliografia
consigliata:
Paddy Docherty, Khyber Pass, il Saggiatore, 2010
Peter Hopkirk, Il Grande Gioco - I servizi
segreti in Asia Centrale, Adelphi edizioni, 2004
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