(intervista a Wolf Bukowski, di Elisa Brunelli)
Il decoro non è
sicurezza, militarizzare le città non è la soluzione. Se la “tolleranza zero”
amplifica i problemi che promette di risolvere.
Ötzi? I canederli? Le Dolomiti? Per cosa si fa conoscere Bolzano al di
fuori dei propri confini? Chi studia i meccanismi che regolano le città e
l'accessibilità dello spazio pubblico non ha dubbi: l’intramontabile
ossessione per il decoro. Famiglie bionde e felici, monumenti senza
antiestetiche scritte a bomboletta e tanta tanta pulizia, che guarda caso fa
rima con Polizia. La fobia del degrado tiene talmente in scacco l’agenda
politica altoatesina che, alla minima stonatura riguardante l'immutabile paesaggio
da cartolina della città che rappresenta, parte il duello tra governo
cittadino e opposizione che, a colpi di fioretto e interviste di favore
pubblicate sui quotidiani locali, si sfidano a chi la spara più
securitaria.
Nelle ultime settimane, un signore tedesco (ma ahilui di origine nordafricana,
il che prevede l’automatica perdita dei germanici privilegi di percezione) colpevole di inquinamento del decoro nella
piazza fiore all’occhiello del capoluogo, ha portato chi da anni si trova
appollaiato tra i banchi dell’opposizione a sfregare la lampada del genio
Minniti per rievocare ancora una volta lo spirito del Daspo urbano. Chi ricopre
l’assessorato che dovrebbe occuparsi di Politiche sociali ha preferito invece giocare d’anticipo sostenendo,
parafrasando in perfetto accento burocratese, che se non sei remissivo allora
non hai veramente bisogno di aiuto e di conseguenza non hai scusanti.
Per capire da quando, ma soprattutto perché, abbiamo cominciato ad arrogarci il
diritto di stabilire chi può godere dello spazio pubblico e chi, indecoroso,
deve essere allontanato, ne abbiamo parlato con Wolf Bukowski autore, tra
gli altri, de “La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del
decoro”.
salto.bz: Wolf, perchè l’ossessione per il decoro ha cominciato a
far parte delle nostre esistenze e persino a dettare l’agenda politica di
governi e amministrazioni?
Wolf Bukowski: Non c’è un perché solo, ma una convergenza di
traiettorie: la messa a reddito immobiliare e turistica del vivere urbano; la
semplificazione di problemi più astratti come l’ingiustizia sociale in qualcosa
di pratico, da toccare, come è la presenza dei poveri nelle città, da cui però
deriva non solidarietà ma una logica della ramazza: “bisogna risolvere i
problemi della povertà cominciando con l’eliminare i poveri dal mio quartiere”;
poi ci sono la crisi dei partiti e della Chiesa, istituzioni che proiettavano
il contingente su un piano più elevato; e all’interno di questa crisi c’è
quella specifica della sinistra, che diventa via via un’istanza estetica e una
postura quasi, direi, chic, e non un progetto di trasformazione, anche solo
riformista, del mondo. Mi pare poi vistoso, pensando a un caso bolzanino
recente, l’abbagliamento del contingente, dell’episodio presuntamente
“vistoso”, che finisce per assorbire tutto lo spazio del discorso, a
testimoniare non solo della crisi della politica ma anche della modesta statura
dei politici che utilizzano questo metodo.
Come si spiega la tendenza di considerare quei
soggetti definiti “indecorosi” come una sorta di incubatori di reato
e repressi e allontanati di conseguenza senza aver ancora - se non addirittura
mai - commesso alcunché?
L’indistinzione tra comportamento “disordinato” e reato è il frutto di un
teoria datata e bislacca, la teoria delle finestre rotte, pubblicata da Kelling
e Wilson nel 1982 e basata su una catena causale immaginaria. Chi avesse voglia
di leggerla, si trova facilmente in rete, scoprirà che gli studiosi la riempiono
di avvertimenti, “disclaimer”. Dicono: “potrebbe succedere” che un quartiere
dove si tollerano i senzatetto e gli ubriachi venga abbandonato dalle famiglie
e “potrebbe succedere” che queste siano sostituite da soggetti giovani e soli
più propensi al crimine, “potrebbe”, “può darsi” e così via. La teoria era di
suo fantasiosa, era molto “politica” e cioè blandiva la classe media, quella
che negli Usa va a votare; ma peggio della teoria hanno fatto i politici che se
ne sono serviti, che hanno rimosso gli “avvertimenti”, i “potrebbe”, e l’hanno
resa apodittica. Se tolleriamo le scritte sui muri, suggeriscono, nel quartiere
succederà un finimondo, si metterà in moto una “spirale autodistruttiva”, per
usare la sobria espressione di un libretto contro il graffitismo diffuso
dalla giunta (di sinistra) alle scuole medie milanesi nel 2016.
Anche in Europa si sente parlare sempre
più spesso di racial profiling, un’azione tipicamente poliziesca finalizzata ad
attività di controllo, sorveglianza o indagine che non si basa tuttavia su
delle vere motivazioni se non direttamente riconducibili al bagaglio etnico
della persona fermata. Anche quando si parla di degrado troviamo una sempre più
netta corrispondenza tra il soggetto migrante e il profilo di quello
individuato come indecoroso, senza che sia necessario, del resto, compiere
chissà quale azione eclatante: basta essere individuati seduti (o peggio,
sdraiati) su una panchina, parlare a voce alta o ascoltare musica senza
auricolari. Una casualità?
A questa corrispondenza ci si arriva per esclusione: il modello di vita
conforme, ordinata e decorosa, è una vita borghese, e per condurla a modo
bisogna avere i mezzi; spesso il migrante giovane o il migrante povero non li
hanno, non li hanno ancora o non li avranno mai; quindi sono costretti a vivere
più riversati all’esterno, nello spazio pubblico, se hanno casa inadeguata; o
sempre nello spazio pubblico se non l’hanno affatto. La famiglia migrante
economicamente solida invece, se ha uno stile di vita simile a quella degli
autoctoni “borghesi”, non crea problemi all’ideologia del decoro, che anzi
esibisce la sua rappresentazione (che non è detto coincida a una realtà) per
dimostrare di non essere razzista. Mentendo, perché in realtà basta una
sfumatura perché l’immagine non sia più perfetta agli occhi dei decorosi ed
entri in crisi. Quello che pretendono i decorosi è un’assoluta docilità.
Come è nato l'oramai indissolubile dualismo
decoro/sicurezza e perché la gestione, se così si può chiamare, viene appaltata
in maniera pressoché esclusiva alle forze di polizia mentre gli interventi
riguardanti il welfare e l’implementazione di politiche sociali adeguate si
rivelano sempre più sporadici ed inefficaci?
Decoro e sicurezza si sposano sempre per via della teoria delle finestre rotte:
se tuteli il decoro e combatti il disordine ci saranno meno crimini, dice la
teoria. Questo dato è smentito dalle statistiche criminali, in particolare da
quelle newyorkesi dove il decoro, col nome di Tolleranza Zero, è
stato perseguito per decenni; ma dove anche, secondo una tradizione ammirevole,
organi indipendenti anche se istituzionali analizzano e interpretano i dati,
anche appunto smentendo, come in questo caso, i politici. Sul welfare invece
direi che siamo a un passaggio ulteriore rispetto a quello che dici tu. Non si
tratta più di tagliare i servizi e comprimere il disagio sociale che ne deriva.
Ora il taglio dei servizi è consolidato, è una certezza; e assistiamo
piuttosto a un suo ambiguo rilancio in chiave privatistica che è anche
disciplinare e decorosa. Il decoro diventa così la chiave d’accesso ai servizi,
che producono profitto a privati e svolgono più efficacemente una funzione
disciplinare. I nuovi regolamenti per le assegnazioni delle case popolari in
diversi comuni testimoniano del cambiamento: non basta dimostrare la propria
situazione abitativa inadeguata, non basta ottenere dopo lunga attesa
l’assegnazione dell’alloggio ma, una volta entrati, per tenerselo bisogna
essere inquilini decorosi, secondo criteri molto più rigidi e invasivi di
quelli che valgono per un inquilino che affitta sul libero mercato, per non
parlare di quelli a cui deve attenersi, cioè ben pochi, chi sia proprietario
del proprio appartamento. Siamo alla normazione per censo, un orrore
impensabile prima nella nostra, come la chiamano, “civiltà giuridica”.
L’operazione “Strade sicure” avviata in Italia nel
2008 e prorogata ininterrottamente di anno in anno, consiste nell’affiancare il
personale dell’Esercito alle altre forze imputate nella gestione dell’ordine
pubblico. L’impiego dei militari viene spesso invocato dalle forze politiche
come soluzione agli episodi di microcriminalità, ma anche per fronteggiare
la mera “emergenza degrado”, senza che vi sia nella fattispecie una vera e
propria violazione di legge alcuna. Perchè è il caso di smetterla di vedere di
buon grado l’utilizzo di personale militare addestrato per contesti bellici
all’interno di contesti civili, specie se il pretesto è quello del contenimento
della microcriminalità o il mantenimento del “decoro”?
Nell’eterno emergenzialismo italiano ogni problema è una guerra e richiede un
arruolamento, o nelle schiere nemiche (e diventi il capro espiatorio) o in
quelle dei “buoni”. Il problema viene così stilizzato, ipersemplificato,
ridotto a figurina sottile, oppure gonfiato a dismisura. Si noti che a volte il
problema esiste, mentre a volte non sarebbe neppur degno di menzione. In ogni
caso, quale che sia il procedimento a cui viene sottoposto il “problema” la
soluzione è sempre quella di dichiaragli “guerra”, e chi è l’esperto della
guerra? Il militare. Così abbiamo un generale per i vaccini e tanti
sottufficiali per combattere i venditori abusivi di aste per selfie. È il
decoro fattosi voglia di mobilitazione sociale permanente, è la voglia di
dare e ricevere ordini.
Vent’anni anni fa, in Afghanistan l’Occidente ha intrapreso la propria
crociata “nel nome delle donne”, minacciate e bisognose di essere liberate dal
giogo del velo integrale e dall’odio misogino dei Taliban. E in questi
drammatici giorni abbiamo potuto constatarne i risultati. Eppure, persino in
contesti civili, non si contano più gli interventi messi in atto sempre
"nel sacro nome delle donne": stiamo assistendo a un utilizzo
pressoché ossessivo delle rivendicazioni di uguaglianza di genere e del
principio della libertà di movimento come pretesti per instaurare politiche
securitarie targettizzate però esclusivamente sul soggetto corrispondente al
profilo dell’indecoroso, che per salvaguardare la sicurezza femminile deve
necessariamente essere allontanato dalle piazze e dalle strade. I risultati
raggiunti in questi casi sono città completamente militarizzate e piogge di
misure ideate e utilizzate fino a pochi anni fa per colpire gli ultras negli
stadi, che ora vengono applicate ai poveri, agli immigrati e in generale
ai “disordinati”. Perchè dunque non può essere la Polizia
nè questa percezione dell'ordine e della sicurezza a rendere sicuro
lo spazio pubblico che le donne attraversano?
Qualche anno fa ho pubblicato un articolo su “sicurezza” e “decoro” nelle grandi
stazioni ferroviarie. Nell’articolo c’era il ricordo personale di
non essermi mai sentito minacciato in queste stazioni che dai media erano
dipinte come l’inferno in terra. Poco dopo sui social mi è stato detto: “non ti
sei mai sentito in pericolo perché sei un uomo”. Questo appunto è interessante.
Da un lato è vero: la mia verità non è assoluta, ma va posizionata in ciò che
sono e che non sono. Dall’altro lato però il moltiplicarsi di “verità
posizionate” rende difficile trovare una “provvisoria verità condivisa” che
invece è necessaria. Tutto diventa un “tu non puoi capire perché non sei ciò
che sono io”, “tu non lo puoi dire perché non vivi quello che vivo io”, o
persino “perché non vivi nel quartiere in cui vivo io”, e poiché questo
approccio non è più contemperato dalla ricerca di un percorso comune si arriva
a un soggettivismo estremo. Soggettivismo in cui rischia di vincere chi alza di
più la posta della paura e della propria personale percezione di
fragilità, finendo così per fare involontariamente da sponda a chi per motivi
politici e di business usa la paura per privatizzare ed espellere i soggetti “indecorosi”.
Quella “verità provvisoria condivisa” invece secondo me va trovata, e il mio
contributo per trovarla è l’invito a distinguere: distinguere sempre tra la
minaccia vera-e-propria e semplice fastidio, tra sicurezza nel senso di
incolumità e “decoro”; separare e non creare confusione tra questi due piani,
non alimentare la retorica dell’indistinzione.
Ne “La Buona educazione degli oppressi” ti sei
concentrato sulle ormai consuete classifiche che hanno la pretesa di misurare
la "quality of life" delle città, le quali molto spesso risultano
dominate dalla stessa Bolzano, nella quale, al contempo, vivono e convivono
pesanti contraddizioni e povertà divenute oramai strutturali. Perché il ranking
del benessere cittadino va dunque guardato con sospetto?
Perché sono un modo per rendere accattivante un discorso competitivo tra le
città, che spinge e legittima gli amministratori a fare quello che li fa salire
in classifica invece di quello che serve a chi vive in quella città, e
legittima lo stato a distribuire le proprie risorse nello stesso modo. Inoltre
le classifiche non sono neutre, veicolano valori e stabiliscono chi conta e chi
no. Faccio un esempio che risulterà forse antipatico: una città sale in
classifica perché ha disegnato tante piste ciclabili, spesso “miste” su
marciapiedi; ma quale classifica dà conto degli anziani che, proprio a causa di
queste piste sui marciapiedi, sono in modo del tutto ragionevole terrorizzati
dall’uscire di casa per paura di essere travolti da una bicicletta sul
marciapiede?
L’ostilità delle città ha finito per riguardare tutti e tutte, nonostante
sia partita, sperimentalmente, con il colpire chi avrebbe voluto sdraiarsi
sulla panchina per riposare
L’ossessione per il decoro e le politiche antidegrado
hanno cominciato a cambiare il volto delle città. Perchè si sente parlare
sempre più spesso di architettura ostile? Quali sono gli esempi che popolano lo
spazio pubblico?
Abbiamo parlato tanto delle panchine con il bracciolo in mezzo per impedire di
sdraiarsi, ma quelle non sono che l’epifenomeno. Tutta la città, in particolare
con il telecontrollo e con la creazione di “percorsi obbligati”, percorsi di
cui abbiamo visto l’apoteosi durante la pandemia, sta diventando ostile a chi
non è lì per consumare, o persino a chi non è lì per consumare nel modo
prescritto in quel luogo preciso e a quell’ora, per esempio perché non è dotato del QR code del Green
Pass. Mi si racconta poi che sull’Adriatico ci sono state spiagge
chiuse di notte con la scusa del Covid (realizzando guarda un po’ un sogno dei
concessionari delle spiagge “attrezzate”). L’ostilità delle città ha finito per
riguardare tutti e tutte, nonostante sia partita, sperimentalmente, con il
colpire chi avrebbe voluto sdraiarsi sulla panchina per riposare.
Anche il mega progetto del multimilionario René Benko, in pieno centro a
Bolzano, potrebbe inserirsi in questo tipo di operazione? In fondo, durante il
periodo della consultazione referendaria era stato ampiamente propagandato come
panacea del male del “degrado” che caratterizzava allora il quartiere limitrofo
alla stazione ferroviaria, una sorta di colpo di spugna in cui il decoro poteva
venir ripristinato solo a suon di mattoni e cemento...
Non seguo più da tempo quel progetto, ma
credo di poter rispondere in termini generali: dipingere una zona come
tragicamente degradata, pericolosissima, “invivibile” serve a far accogliere
qualsiasi trasformazione come una benedizione, anche una trasformazione che, a
mente fredda, si sarebbe trovata inaccettabile perché privatistica,
mercificante e mortificante: “meglio un centro commerciale che l’inferno”. Però
l’inferno era una finzione, mentre il centro commerciale, con tutti i sui
effetti devastanti sul tessuto sociale e ed economico, è una realtà.
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