Sleepy Mario (Draghi), su impulso di Sleepy Joe (Biden), si è svegliato accorgendosi finalmente della crisi climatica. Non ne sa nulla; non ne ha mai parlato nel corso della sua carriera; non ci ha mai neppure pensato. Per adempiere ai doveri che lo hanno fatto amministratore dei programmi NextGenerationEU e Fitfor55 (un sacco di soldi, ma anche un sacco di cose da fare), si è affidato a un «uomo di relazioni», esperto (forse) in robotica, che di transizione ecologica (il suo ministero) non si era mai occupato. E che in sette mesi di governo non ha fatto che diffondere sciocchezze sulla fusione nucleare, la fissione senza scorie, l’idrogeno grigio-blu, il metano, il CCS, gli inceneritori, le automobili di lusso, i «bagni di sangue» e altro ancora, qualificandosi come il peggior nemico della transizione di cui dovrebbe occuparsi. Insieme, peraltro, a un collega incaricato di sperperare, in nome della «mobilità sostenibile», una montagna di denaro in autostrade, alta velocità, ponti, gallerie e quant’altro può contribuire ad aumentare le emissioni climalteranti invece di ridurle. Se è questo lo staff che deve incamminarci sulla strada della conversione ecologica siamo fritti.
No problem – dicono e non dicono, ma
pensano – l’Italia conta per l’1 per cento delle emissioni; l’Europa per il 9.
Impossibile che nel frattempo tutti gli altri rispettino l’accordo di Parigi.
Quindi l’impatto delle nostre inadempienze sarà minimo. Ma non è così: le
vere misure di conversione ecologica non servono solo a mitigare i cambiamenti
climatici; servono soprattutto all’adattamento alle condizioni in cui si
troveranno a vivere le next generation.
L’energia generata localmente da fonti
rinnovabili e gestita da comunità energetiche ci renderà indipendenti dalle
turbolenze del mercato dei fossili (di cui abbiamo un pallido esempio
nell’aumento del prezzo del metano); l’agricoltura, convertita al
biologico, alla piccola taglia, alla multicoltura e alla prossimità,
fornirà una base sicura a un’alimentazione sempre più esposta alla crisi
climatica e della biodiversità; la mobilità, affidata a sistemi di
trasporto condivisi e flessibili (di massa e a domanda) garantirà,
insieme alla trasformazione delle aree urbane in «città dei 15 minuti», una
mobilità che l’auto privata ostacola già oggi e che la rottura delle forniture
(oggi i microchip, domani il litio e altro ancora) metterà in forse; un’edilizia
sostenibile – affidata alla valorizzazione del già costruito, senza più consumo
di suolo, e a interventi capillari di efficientamento energetico – contribuirà
all’autonomia e alla vivibilità della vita urbana.
Bisognerà chiudere molti impianti nocivi
o destinati a produzioni incompatibili con la salvaguardia del pianeta – a
partire dalle fabbriche di armi – ma bisognerà aprirne o riconvertirne molti
altri per produrre i mezzi necessari alla conversione: non è detto che il conto
in termini di occupazione sia in pareggio ovunque, perché la
riconversione non riguarda singole fabbriche ma intere filiere. Per questo ogni
comunità dovrà garantire che nessuno resti senza reddito.
È un orizzonte del tutto estraneo all’establishment che
oggi controlla il mondo, ma anche alla maggior parte degli abitanti che
governa. Cingolani, come tutti i suoi colleghi degli altri paesi, non si è mai
preoccupato di far sapere che il tempo stringe, che il cambiamento dei nostri
stili di vita deve essere radicale, che bisogna rivedere gran parte
dell’apparato produttivo, a partire dai nostri rapporti con la vita sulla
Terra, che il vero «bagno di sangue» avverrà se non si assumono le misure
indispensabili. Chi mai ci avvierà, allora, su questa strada? Solo un
processo di autoformazione svolto in forma collettiva e finalizzato
alla individuazione e alla messa a punto delle soluzioni da adottare – impianto
per impianto, azienda per azienda, filiera per filiera, territorio per
territorio – sottoponendole alla verifica delle forze attive di ogni comunità;
a partire, ovviamente, dai punti di maggior crisi. In incontri che mettano a
confronto tecnici, maestranze, cittadinanza, amministrazioni locali,
associazioni, studenti e quant’altro.
Si tratta di indire molte «conferenze di
produzione» come quelle promosse un tempo dal Partito comunista italiano per
competere con il padronato nella promozione dello «sviluppo». Oggi però la
prospettiva è completamente diversa: non si tratta di spingere la crescita, ma
di imboccare le vie per riconciliarsi con i cicli vitali della Terra. La
conversione ecologica non può che scaturire da un concorso di contributi,
personali e collettivi, per valorizzare ciò che ogni territorio può
mettere in campo. Poi, e solo poi, si potrà imporre anche ai governi un
vero cambio di rotta.
Pubblicato su il manifesto del 23
settembre
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