il romanzo è ambientato a Locoe (il nome di un villaggio realmente esistito, e tragicamente scomparso), dove Antine arriva per la prima volta a 28 anni.
una storia che dicono del figliol prodigo, di Ulisse, a me sembra semmai una storia di Grazia Deledda cento anni dopo, credo che a lei sarebbe piaciuta.
un libro sulle radici, sulla testardaggine, sull'amore, sull'economia, sui rapporti umani, sulle scelte, sui silenzi, sopratutto sui silenzi.
insomma un libro sardo, di oggi come di ieri.
Antine è un ragazzo come tanti, ha ventotto
anni e vive a Milano, dove ha studiato architettura. Quando finalmente si
laurea, dopo una notte di festeggiamenti sfrenati, rientra a casa all’alba. Ad
accoglierlo ci sono i suoi genitori, che gli comunicano la morte della nonna
mai conosciuta. Il padre, infatti, negli ultimi trent’anni non è mai tornato
nella sua terra, la Sardegna.
Così Antine e la sua famiglia partono in nave
verso l’isola per assistere al funerale. Il ragazzo, però, incuriosito da quel
luogo sconosciuto ma in qualche modo familiare, decide di fermarsi lì, da solo,
nella casa del nonno. Riavvia il suo vecchio 126, trova un lavoretto estivo e
si stabilisce nel paesino di Locòe, dove gli abitanti mormorano e si chiedono
perché il figlio di Salvatore sia ancora lì, visto che suo padre, assente per
anni, è subito ripartito.
Ben presto Antine capisce che c’è un segreto
intorno alla sua famiglia. Per scoprirlo dovrà restare e mettersi alla ricerca
della verità e di se stesso.
Il romanzo d’esordio di Giovanni Gusai getta un
ponte sull’incomunicabilità tra generazioni, tra chi è partito e chi è rimasto.
Un silenzio che può essere interrotto solo da una nuova umanità che riscopra
quei valori atavici che sono ancora dentro di noi, anche quando non ce ne
accorgiamo.
Una storia che parla di appartenenza, distanze e
coraggio a dei giovani sempre in viaggio, lontani da un’isola che muore spopolandosi.
…E Giovanni Gusai cosa ritiene che sia importante
per lui come scrittore: il diletto o la professionalità o altro ancora? E si
sente un autore del passato, del presente o del futuro? O per uno scrittore non
devono esistere i tempi verbali? Che cosa vede, infine, nel suo futuro di
scrittore?
RISPOSTA: Questa è
la domanda più difficile.
Per me è importante continuare ad avere qualcosa da dire (cioè da
scrivere), più di ogni altra cosa. È essenziale che riesca a sforzarmi
abbastanza da non ricalcarmi, da non passare per le solite strade, non
raccontare la stessa storia in molti modi diversi – anche se forse l’umanità fa
questo da sempre, cercare modi ogni volta nuovi per migliorare o riadattare la
stessa narrazione di sé e delle cose. Mi auguro di tenere d’occhio
quest’attenzione fondamentale: scorgere attorno a me e dentro di me nuove
esigenze, situazioni che meritano di essere condivise e diffuse. E poi dare
loro voce e parole. Sono consapevole di quanta fatica comporterà, e credo che
Marcello parlasse di questo, cioè della necessità di imparare ad affrontare
momenti che non siano puramente “di diletto”, e che anzi siano pesanti e
difficili, talvolta noiosi, affinché si possa migliorare la qualità della
propria scrittura. Ne sono consapevole e mi allenerò per non farmi trovare
impreparato. Il diletto sopravviverà nell’approccio a questo sport
entusiasmante e sfiancante che è la letteratura, che ci diverte e ci salva.
Vivere così, impegnato e divertito, libero e coraggioso, significa per me
vivere da scrittore, e uno scrittore non può che essere nel presente: è il solo
modo per accaparrarsi il futuro.
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