Vite indegne di essere vissute: è con questa frase che la Germania nazista giustificava la soppressione di individui affetti da malattie mentali o disturbi genetici, portando avanti le proprie teorie di eugenetica attraverso il programma Aktion T4, che ha causato la morte di 200mila persone e la sterilizzazione di altre 400mila. In Italia non abbiamo mai raggiunto questi numeri, ma sotto il regime fascista abbiamo comunque assistito nel 1940 alla deportazione di quasi 300 ricoverati psichiatrici altoatesini con cittadinanza tedesca verso i campi di concentramento in Germania e tra il 1942 e il 1945 alla morte di migliaia di pazienti – tra i 24 e i 30mila – nei manicomi per semplice mancanza di cure e assistenza. Inoltre, il regime usava i manicomi con fini politici, condannando gli oppositori del fascismo a reclusioni forzate in condizioni terribili (che venivano costantemente riservate ai malati).
Fino al 1978 e alla
legge Basaglia la regolamentazione sugli istituti manicomiali era regolata
dalla legge Giolitti del
1904, che stabiliva i motivi dell’internamento riconducendoli alla pericolosità
sociale e al pubblico scandalo. La legge non serviva per aiutare i cosiddetti
“alienati”, ma per tenerli lontani dalla società attraverso una funzione
detentiva e non curativa. Il malato psichiatrico non aveva alcun diritto né
durante l’internamento né nei rari casi di rilascio, quando affidato a un
tutore si vedeva comunque privato dei suoi diritti civili: il diritto a
ereditare, a sposare, a comprare e a vendere, ad amministrare il proprio
patrimonio, a votare, a essere genitore. Con l’ascesa del fascismo i manicomi
si riempirono di dissidenti, nemici del regime, avversari scomodi e soggetti da
silenziare.
Nel libro di Matteo Petracci I
matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, viene
spiegato come questa repressione sia stata poi sfruttata per la costruzione
dello stato totalitario. Gli antifascisti venivano considerati anti italiani e
portatori di idee malsane, dunque pazzi. Gli oppositori andavano controllati ed
esclusi dalla società, e come motivazione per gli internamenti ci si appellava
alla devianza sociale, termine generico che comprendeva anche il vagabondaggio,
l’alcolismo e l’ozio. Il motto “ordine e disciplina” si traduceva in un
controllo capillare dei comportamenti dei singoli cittadini, con il potere di
scegliere chi eliminare dalla vita pubblica e come punirlo. A farne
maggiormente le spese sono state le donne.
Attraverso gli
schedari clinici abbiamo la testimonianza dei motivi per cui migliaia di donne
sono state internate. Nel saggio di Annacarla Valeriano Malacarne sono
spiegate con cura le dinamiche dei ricoveri coatti delle donne durante il
fascismo, con la sintomatologia riportata nelle cartelle cliniche con voci che
adesso appaiono inverosimili, ma che all’epoca erano indizio di devianza
sociale: stravagante, loquace, capricciosa, erotica, smorfiosa, piacente,
civettuola. Secondo il fascismo il ruolo della donna era quello di madre e
moglie, come esposto da Mussolini nel discorso dell’ascensione del 1927: una
figura sottomessa, costretta a rispettare i codici etici e morali di un regime
che la voleva angelo del focolare. In caso contrario rischiavano di essere
considerate improduttive o folli, con il conseguente internamento coatto.
Molte delle donne
finite nei manicomi venivano considerate delle
madri snaturate. Erano quelle donne che, in seguito a numerose gravidanze, non
volevano più figli, o che lavoravano per ore nei campi e non erano in grado di
stare dietro alla prole e ai lavori di casa. Venivano quindi definite contro
natura, secondo la logica che riconduceva le donne alla sola funzione
riproduttiva. Finivano nei manicomi anche le donne che mostravano “esuberanza
sessuale”, e che quindi andavano rieducate e ricondotte all’ordine. Il sesso
non era solo un tabù, ma motivo di stigma sociale: a eccezione delle
prostitute, le donne non potevano parlarne in alcun modo.
In quegli anni una
persona fu contemporaneamente considerata donna instabile, madre snaturata e
nemica di Mussolini: Ida Dalser.
La sua storia è stata raccontata nel film di Marco Bellocchio Vincere,
con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. Dalser ebbe nel 1915 una relazione con
Mussolini – che dal 1910 conviveva con Rachele Guidi e che sposò nel 1915 –,
dalla quale nacque il figlio Benito Albino. Dalser provò per anni a
presentargli Benito Albino, ma non fu mai ricevuta. Una volta salito al potere,
Mussolini impose delle misure restrittive per Ida Dalser, cercando di
insabbiare una vicenda per lui scomoda. Dasler non si arrese, scrisse lettere
ai giornali e provò a raggiungere più volte Mussolini, che decise dunque di
farla internare in un manicomio. Benito Albino passò
il resto della vita senza rivedere la madre, che morì in manicomio nel 1937.
Anche a lui toccò la stessa sorte nel 1942, dopo essere stato rinchiuso in un
istituto psichiatrico a Mombello di Limbiate, in provincia di Milano.
All’interno dei
manicomi i metodi per portare “sulla retta via” i malati erano delle terapie
violente e lesive anche a livello fisico. Non esistendo ancora gli
psicofarmaci, ci si affidava principalmente alla malarioterapia,
inoculando la malaria per provocare uno shock nel malato, che pativa i sintomi
della malattia con febbre fino a 42 gradi, delirio e debilitazione fisica. Dal
1938 venne usato anche l’elettroshock,
ma quell’anno passò alla storia per le leggi razziali, che coinvolsero
direttamente la Società Italiana di Psichiatria.
La Società Italiana
di Psichiatria prima del 1932 si chiamava Società Italiana di Freniatria, e nel
1925 l’allora presidente Enrico Morselli fu uno dei firmatari del Manifesto
degli intellettuali fascisti. Il suo successore, Arturo Donaggio, nel 1938
firmò il Manifesto degli scienziati razzisti, nel quale viene
innalzata la figura della razza ariana, che includeva anche quella italiana, e
descriveva come inferiori tutte le altre. Fu una svolta anche nella psichiatria
italiana, perché molti tra i suoi principali esponenti dei decenni passati
erano ebrei, come Cesare Lombroso, tra i fondatori proprio della Società
Italiana di Freniatria. Gli italiani ebrei furono privati dei loro titoli
professionali, e così avvenne anche per molti psichiatri, come Giuseppe Muggia,
direttore dell’ospedale psichiatrico di Bergamo che venne arrestato e deportato
ad Auschwitz nel 1944, dove fu ucciso.
Durante la Seconda
guerra mondiale iniziarono i prelevamenti di pazienti ebrei negli ospedali
psichiatrici italiani, soprattutto nel Nord Est ancora occupato dalle forze
nazifasciste dopo l’8 settembre del 1943. Con la complicità delle istituzioni e
della Società Italiana di Psichiatria, si svolsero dei veri e propri
rastrellamenti nei manicomi da parte delle Ss. Sono state ritrovate delle
cartelle cliniche dell’ospedale psichiatrico di Trieste dove alla voce
“dimissione” è segnato:
“Il dì 28 marzo 1944, prelevato manu militari da una formazione delle Ss, parte
per destinazione ignota”. Si è poi scoperto che la destinazione era Auschwitz,
e che tutti i 39 pazienti prelevati, tranne uno, furono uccisi.
Nei manicomi di
tutta Italia, i malati che non venivano prelevati pativano la fame e altri
stenti. Il tasso di mortalità nelle strutture era molto più elevato rispetto a
quello della popolazione generale, perché ai ricoverati non era garantita
un’adeguata assistenza. Mancavano riscaldamento, cibo e medicine, i malati
erano ammassati in stanzoni uno accanto all’altro, in mezzo alla sporcizia. Si
stima che tra le 24 e le 30mila persone ricoverate nei manicomi persero la
vita. Venivano considerate come persone sacrificabili, indegne di essere
salvate, e furono lasciate morire.
Soltanto nel 2017 la
Società Italiana di Psichiatria si è ufficialmente scusata per le posizioni
assunte durante il ventennio fascista. Con una lettera del
presidente Claudio Mencacci è stato spiegato che “le vicende della psichiatria
in quegli anni è stato uno dei capitoli bui. La Sip si lasciò corrompere e
invece di curare ha discriminato, perdemmo la consapevolezza dei nostri
obblighi verso la dignità, verso gli individui, di qualunque etnia facessero
parte”. La lettera si chiude così: “Di quanto è accaduto ci vergogniamo
profondamente. Chiediamo ammenda e ci scusiamo per aver aderito a ideologie che
calpestano la dignità dell’uomo giudicandolo sul suo valore della vita. Ci
scusiamo con la Comunità ebraica; ci scusiamo per aver contribuito alla
stigmatizzazione della nostra disciplina; condanniamo i comportamenti e le
scelte dell’allora Presidente Arturo Donaggio e dei membri del Consiglio
direttivo”.
Anche se con 79 anni
di ritardo, è stato un gesto dovuto e rilevante per ricordare quelle vittime
dimenticate, abbandonate a se stesse in nome di ideologie distruttive. La
legge Basaglia del
1978 ha stabilito un punto di partenza per ridare dignità a persone un tempo
considerate irrecuperabili e socialmente pericolose, rivoluzionando
l’organizzazione degli ospedali psichiatrici. È però giusto ricordare un pezzo
della nostra storia, quando la dignità dell’individuo veniva calpestata e certe
vite per le istituzioni contavano meno, perché “indegne di essere vissute”.
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