La caduta dell’Afghanistan nelle mani
degli “studenti di dio” sembra aver sorpreso l’intera comunità internazionale,
finalmente consapevole dell’errore storico e strategico durato per più di vent’anni
senza che vi sia stato un solo risultato positivo frutto della visione di
futuro degli americani e delle altre potenze occidentali in quei territori. Una
tragica ellissi dal punto di vista politico, militare e umanitario che solo la
storia e il tempo potranno definirci nella intensità del fallimento.
A qualcuno era bastato vedere la foto di
famiglia fra talebani ed eminenze cinesi di qualche settimana fa per
comprendere quello che si sarebbe verificato. Non una sola donna presente in
questa straziante cornice di personaggi dell’orrore, già pronti a intessere
buone relazioni e patti fraterni sulla pelle di milioni di diseredati, donne e
bambini. La Cina all’indomani delle dichiarazioni della partenza degli
americani aveva già compreso l’opportunità di insinuarsi in un territorio, dal
punto di vista geopolitico ed economico, assolutamente irrinunciabile nello
scacchiere delle potenze mondiali. La sete di dominio dei cinesi è
inarrestabile e trova nel redivivo regime talebano, bisognoso di approdi e legittimazione
politica, la possibilità di sancire qualsiasi patto che possa rafforzarli e
favorirli in un momento di riorganizzazione strategica all’interno di un Paese
vasto e deficitario di ogni infrastruttura.
Di motivi credibili per capire questa
“avanzata-lampo” dei talebani nella presa del potere ce ne sono
indiscutibilmente molti. In realtà è un ritiro programmato e pensato nel tempo.
Fra questi non è possibile rinunciare alla amara constatazione, quasi come un
incipit alla complessità del ragionamento, di affermare quanto ancora una
volta, la strategia americana nel Vicino oriente sia stata tracotante,
grossolana e “inconsapevole” al limite della più sensata ed elementare capacità
di rendersi conto delle difficoltà delle realtà in cui ha inteso agire. Un
rosario di insuccessi e ritirate che hanno destabilizzato popoli e nazioni,
hanno prodotto guerre e carestie, esodi e atti di insensata disumanità ai
limiti della sopportazione.
Oggi il ragionamento cinese con gli
afghani è stato, come al solito, pragmatico e sostanziale. Il primo risultato
dopo lo scellerato ventennio di occupazione è stato quello di consegnare
l’Afghanistan nelle mani del miglior offerente: il ministro degli esteri Wang
Yi incontrando una delegazione di nove membri dei talebani capeggiata dal
Mullah Abdul Ghani Baradar, alla fine di luglio, ha proposto buoni affari ma ha
anche imposto una condizione che non sarà mai contrattabile. La Cina è
disponibile a costruire e dotare il Paese di infrastrutture ed energia con
progetti già pronti. I cinesi hanno detto che riconosceranno la sovranità
dell’Afghanistan a guida talebana, al fine di salvarli da un totale isolamento
internazionale. Inoltre hanno promesso di non interferire mai nelle politiche
interne e di sicurezza del Paese e di creare ogni condizione per la
stabilizzazione e la normalizzazione in ogni settore della sua vita economica.
In poche parole non affermeranno mai che il loro governo è un sistema
shariatico che opprime con la violenza e utilizza strumenti tribali di tortura
con tribunali guidati da elementi che praticano il terrore sulla popolazione.
Lo faranno episodicamente e ipocritamente gli occidentali quando i talebani
dimostreranno di essere quello che erano vent’anni fa, con l’oppressione delle
donne e dei dissidenti, ammesso che ne rimanga in vita qualcuno. Alla fin dei
conti per quanto riguarda la violazione dei diritti umani saranno in ottima
compagnia. Tutto questo ha un prezzo decisamente accettabile per i talebani:
quello di sublimare la condizione cinese che chiede agli studenti di dio di
interrompere ogni relazione con l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM),
accusato da Pechino di aver perpetrato attacchi armati nella regione cinese
dello Xinjiang. Questo gruppo islamico è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite
come organizzazione terroristica. Dunque per la Cina vi è anche una implicita
condivisione internazionale sulla repressione degli uiguri, l’etnia racchiusa
in una sorta di enclave molto agguerrita che minaccia la sicurezza nazionale di
Pechino. Tradotto in termini drammaticamente realistici la Cina chiede l’ultimo
semaforo verde per compiere il suo genocidio senza subire condanne o proteste
di rilievo e senza che l’Afghanistan presti logistica e supporto agli islamici
cinesi. Gli studenti intanto hanno subito dichiarato, da parte loro, con un
messaggio tranquillizzante verso la comunità internazionale che il proprio
territorio non sarà disponibile alla progettazione o al compimento di azioni
contro la sicurezza di altri stati sovrani, accettando implicitamente la
proposta cinese. La nuova linea pragmatica dei talebani desta a questo punto
maggiori preoccupazioni dei tempi in cui, il loro massimalismo, non si
consentiva nessuna deroga alla diplomazia. Che cosa avrebbero dovuto dire
all’indomani della presa di Kabul? Ricacceremo le donne in casa a occuparsi di
figli e piatti, rastrelleremo i quartieri di ogni città per la ricerca dei
dissidenti, daremo supporto al terrorismo internazionale! Niente di tutto
questo come invece avverrà quando la situazione si sarà finalmente stabilizzata
in ogni arteria di questo stato martoriato. La loro pericolosità tuttavia e la
mancanza di rispetto dei diritti umani si manifesterà molto prima di quanto
possano affermare oggi analisti nostrani, privi di conoscenze profonde e di questi
territori e delle loro popolazioni.
La dichiarazione-promessa dei talebani
dopo poche ore dalla presa di Kabul, di “rispettare le donne e la loro
libertà”, appare subito come una tragica e dolorosa falsità, un tripudio di
cinismo e malvagità che presto si manifesterà con le prime sentenze
islamico-shariatiche in termini di lapidazioni, amputazioni, impiccagioni e
frustrate per sanare le colpe commesse soprattutto dalle donne. Avevamo messo
in guardia, proprio da queste pagine, sull’uccisione di diverse giornaliste con
modalità orribili e sugli attentati alle scuole sciite femminili che avevano
causato la morte di più di 60 studentesse. I talebani avevano cominciato la
strategia del terrore avvertendo, con queste gesta criminose, che sarebbero
tornati e che ogni resistenza sulla loro strada sarebbe stata punita. Le prime
ad essere avvertite sono state le donne che si erano permesse di ritagliarsi le
libertà facendo del giornalismo. Ora sono i talebani che promettono di
concedere, il giorno dopo la conquista del potere, dei diritti alle donne per
potersi realizzare come persone. Ma sempre nella cornice della Sharia! È chiaro
che il substrato culturale è rimasto quello rurale e tribale, fertilissimo di
visioni in cui la donna deve essere un mero strumento di riproduzione, piacere
sessuale e servitù verso l’uomo e l’autorità. Il burka non è “mai passato di
moda” ma ora diverrà lo strumento in cui, avvolte e dietro la grata di un
ricamo all’altezza degli occhi, le donne potranno guardare un mondo di
prevaricatori ed esecutori della legge del taglione.
Per quanto ci possa essere sorpresa, in
realtà, la situazione attuale era prevedibilissima perché le dichiarazioni
degli stati occupanti erano state chiare da un po’ di mesi a questa parte. Ci
sarà stata una certa sottovalutazione circa i tempi della conquista
territoriale, ma che i talebani si sarebbero ripresi l’Afghanistan era cosa
certa. Il loro arrivo era irreversibile anche perché, a differenza di quello
che si credeva, molti di loro in questi venti anni non se ne erano mai andati,
“confusi” fra la popolazione e così i loro figli, nipoti e quella cultura di
egemonia che trova nella religione legittimità e forza.
L’effetto di uno spirito della sconfitta
già consolidato fra i “regolari” era irreversibile, seppur limitato solo nel
tempo: si è verificato a velocità della luce il giorno dopo l’annuncio degli
americani di volersene andare (dichiarato però almeno da due anni). Parole
passate e ripassate almeno attraverso tre presidenti, sia repubblicani che
democratici. Ora la pax talebana viene addirittura auspicata da quelli che sono
stati sconfitti, non solo nella strategia politica e militare ma nei valori che
volevano insediare, come se questi ultimi fossero delle sedie da posizionare
nei parlamenti costruiti in un deserto di indisponibilità al confronto. Gli
americani ora cercano di rimediare agli errori macroscopici con un
ragionamento, finalmente lineare dal loro punto di vista, seppur cinico: che
siano i talebani a fronteggiare tutte le formazioni terroristiche radicatesi
con il tempo: Al Qaeda, l’Isis che si è stabilizzato in Afghanistan dopo la
cacciata dall’Iraq e dalla Siria, poi altre strutture terroristiche, che sono
circa venti e possono trascinare nel caos anche i paesi limitrofi. Questi paesi
sono quelli dell’ex Unione Sovietica, Tagikistan, Kazakistan, ancora la Cina e,
infine, l’Europa. Gli americani sono distanti oceani, certo, ma dimenticano
però le Torri Gemelle. Dovranno farne ammenda. È probabile che gli americani
possano tornarvi se riterranno necessario, con le già praticate “guerre
chirurgiche”, ma solo se i talebani verranno nuovamente avvertiti come una
minaccia reale. Lo faranno con altre strategie, con altri obiettivi, in tempi
limitati e senza democrazie da esportare. Infatti finalmente anche Biden ha
confessato la verità in televisione, surclassato da critiche e offese per il
ritiro: “Non volevamo esportare la democrazia, ma solo porre argini al
terrorismo”. Era tutto chiaro a chi, come noi, ha sempre ritenuto
quell’occupazione una vendetta e un argine agli attentati che si succedevano
quotidianamente in Occidente. Il tutto provocato da storiche e fallite
politiche perpetrate con insistenza proprio dagli americani. Questi ultimi alla
fine dei conti avranno anche speso molto, ma le fiorenti lobbies delle armi e
delle guerre hanno fatto affari davvero strepitosi.
La realtà è che l’Afghanistan a queste
condizioni era ormai inutile, come le idee e le donne che vi risiedono, le
libertà e le conquiste seppur minime. Erano falliti i piani agricoli e l’oppio
era tornato a imperare nell’economia di questo Paese, ben supportato dalla
corruzione dei signori della guerra e da guadagni più facili della manovalanza
criminale. Gli occidentali lo hanno lasciato fare senza opporsi nel modo che
avrebbero dovuto, cercando equilibri locali, tribali e mafiosi radicati in
centinaia di anni di violenze, soprusi, violazioni. Con Trump e Biden
successivamente, con l’accordo di Doha si chiedevano cose abbastanza chiare: il
cessate il fuoco, l’interruzione dei contatti con Al Qaeda e gli altri gruppi
terroristici, l’inizio di colloqui “inter-afghani”, fra i talebani e il governo
afghano. Tutto questo tradotto in politica reale significava che i colloqui non
facevano altro che consegnare il Paese nelle mani degli studenti di dio, che
dovevano ritornare a Kabul in tempi probabilmente più lunghi.
Le cause della fulminea conquista sono
chiare: nessuno in questo momento avrebbe opposto resistenza, né l’esercito mal
schierato né la popolazione, i confini erano pressoché incustoditi e, uno
sgarbo finale agli americani, per far capire che il potere è stato davvero e
sempre nelle loro mani, è molto plausibile. Dunque ora si capisce che il ritiro
e la consegna dei territori sono avvenuti nell’arco di due o tre anni, non così
velocemente come sembra, e che i talebani avevano già cominciato a incontrare
istituzioni di altre nazioni per legittimarsi la ripresa del potere. Le parole
degli americani che hanno espresso l’assenza totale di pentimento per quanto
avvenuto, sono sincere, e ci fa capire quanto questa manovra sia stata
organizzata e voluta con gli alleati e con i talebani. Una vera strategia di
fuga: ma ora si dovrà capire se ricomincia la sfida agli americani che adesso
attendono le vere intenzioni degli afghani, sempre inaffidabili: sono quelli di
vent’anni fa o vi è stato un processo di cambiamento strutturale delle loro
posizioni. Per chi conosce quei territori e i tempi di sedimentazione di quanto
accade nel corso della storia non sarei molto ottimista, anche perché il
fondamentalismo si alimenta di un massimalismo violento, sfrontato, antistorico
e antioccidentale. Dunque nessun errore della logistica e dei tecnici sul
territorio per quanto accaduto e neanche la solita e incredibile grossolanità,
per questa volta, che molto spesso ha connotato i movimenti degli americani.
Un errore enorme invece ha riguardato la
gestione dell’esercito regolare afghano, l’addestramento e le strategie di
difesa improntate sul territorio. In questo campo gli esperti sono stati
davvero chiari e ci fanno capire quanto potesse essere complicato cercare di
plasmare i militari afghani nella direzione dei nostri modelli occidentali di
intendere la difesa e la guerra perché, come ben si afferma, “un esercito è
l’espressione della storia, della cultura, delle tradizioni e dell’ordine
politico del proprio Paese”. Una imposizione di tattica e di tecniche di guerra
non ben percepite dagli afghani che sono abituati a guerre “asimmetriche”, cioè
di un sistema di combattimento non convenzionale basato sulla guerriglia in
territori climaticamente e morfologicamente ostili. Gli unici che sembravano
combattere in modo efficiente erano i 20.000 commandos addestrati, non a caso,
con i sistemi della guerriglia in condizioni estremamente ostili. Gli afghani
sono guerriglieri temibili riconosciuti per capacità, in combattimento
asimmetrico, imbattibili.
Affermato il principio importantissimo che
un esercito deve avere una “anima” nella sua determinazione a combattere, gli
esperti affermano che vi è stata una enorme retorica sulle potenzialità reali
dell’esercito addestrato dagli occidentali. Si parla di più di 300.000 uomini
dell’esercito regolare contro i soli 50.000 talebani. La verità sembra emergere
pian piano con affermazioni inattese, rilasciate dagli addetti ai lavori sul
territorio: molti commilitoni dell’esercito afgano erano stati abbandonati per
settimane e mesi da soli, senza scorte, con scarsi viveri e in condizioni di
sopravvivenza pessime. Pochi erano i rifornimenti e alle prime avvisaglie di
combattimento contro i guerriglieri talebani, elementi dell’esercito regolare
si sono messi d’accordo con i talebani consegnando armi e posizioni e,
soprattutto, facendo salva la vita. Sono stati 90 i miliardi stanziati dagli
USA solo per l’addestramento, ma la corruzione ha vinto su tutto e, anzi, si è
dimostrata efficientissima a insinuarsi in questo fiume di denaro. Molti
militari erano inseriti nelle liste dei capi di reggimento ma erano nomi falsi,
perché le buste paga le riscuotevano questi ultimi. Per non parlare degli acquisti
e del vettovagliamento, di tutto quell’enorme economia che ruota intorno a un
esercito di dimensioni davvero ragguardevoli. Una vera e propria debolezza
sistemica che spiega davvero tutto.
Nel lungo Cahier de doléances degli errori
occidentali non bisogna dimenticare scelte che vengono da lontano. Quando il
presidente Bush nel 2003 distolse parti consistenti di esercito
dall’Afghanistan per trasferirle in Iraq, in un momento per i talebani di
grossa difficoltà e considerando che in quel momento avrebbero potuto subire la
distruzione totale perché rimasti in poche migliaia e male armati, gli
americani avrebbero potuto negoziare un accordo partendo da una base ben più
solida. Poi ha continuato Obama quando aveva concesso l’invio di 30.000 uomini
ma con la precisazione che sarebbero andati via dal 2011. I talebani dovevano
solo attendere, come hanno fatto, per trattare con più forza e cancellare ogni
sconfitta dimostrando di essere stati anche strategicamente più forti.
Un capitolo a parte merita l’Iran. Gli
americani hanno ben individuato una delle ragioni più credibili al loro ritiro
proprio considerando la contrapposizione storica dei talebani agli ayatollah di
Teheran. Pochi ricordano che le occupazioni americane avevano consentito
all’Iran di espandersi, quasi paradossalmente, su tutti i territori favorendo
lo spirito nazionalista e di dominio su quelle aree degli sciiti iraniani. Era
successo dappertutto, dove per tradizioni, lingua, storia, preponderanza di
aspetti culturali e valoriali, l’Iran ha sempre dimostrato una superiorità e
una stabilità incredibili. Gli iraniani con il solito intelligente pragmatismo
hanno rilasciato dichiarazioni di apertura alla conquista talebana. Hanno fatto
finta di nulla sugli attentati subiti dalle minoranze sciite, l’ultimo alla
scuola femminile prima della ripresa del potere. Gli ayatollah tacciono le
antiche e insanabili ruggini e le diversità strutturali fra religioni che mal
si conciliano. Presto dovranno ricredersi perché i talebani non
indietreggeranno nelle loro farneticanti elucubrazioni hanafite. Inoltre chi
parla oggi di parallelismo o di un modello da ripercorrere, in stile teocratico
iraniano per il neonato emirato islamico afghano, lascia trasparire una
incompetenza senza limiti. A Teheran risiedono più di due milioni di afghani
che hanno fornito braccia e sangue, in condizioni di vita al limite dello
schiavismo più bieco, alla costruzione della metropoli: particolarmente nella
rete idrica e fognaria e in tutto il settore edile, dove privi di ogni tutela e
sicurezza muoiono ogni giorno senza mai rientrare neppure in una statistica
numerica. Un’accoglienza molto interessata riservata ai soli fini dello
sfruttamento.
Infine possiamo chiederci perché
l’esercito afghano avrebbe dovuto combattere e morire contro gli efferati
talebani. Per i corrotti signori della guerra che sono pronti ad allearsi al
miglior offerente o commerciante d’oppio? Per gli stranieri che hanno occupato
e non sempre si sono dimostrati comprensivi e disponibili? Per i corrotti e i
ricchi che si sono ben riciclati fra gli stranieri di turno? Per quella
democrazia che si è vista solo come appannaggio di qualche televisione di stato
interessata a far apparire che qualcosa si è fatto? Per la povertà in cui si
sono cacciati e per tutto quello, che in termini di benessere e dignità umana,
non si è concluso? La realtà mostra il suo aspetto brutale: forse hanno
ritenuto che non era necessario morire per coloro i quali avrebbero
rappresentato una tragica, assurda e verosimile copia di quanti già li
avrebbero sostituiti al potere, a casa, in ogni dove il giorno dopo la
partenza.
È questo, oggi, l’Afghanistan, quello
annunciato e ipocritamente dimenticato.
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