La tregua sta per finire, nell’unica regione dell’Europa occidentale dove
si svolgono per nove mesi all’anno manovre militari e bombardamenti. Dal primo
ottobre ricominceranno infatti le esercitazioni militari in Sardegna, dove da
settant’anni sono operativi tre grandi poligoni di tiro militari: Capo Frasca,
Capo Teulada e il Poligono Interforze del Salto del Quirra (questi ultimi due
sono i più grandi d’Europa). Andranno avanti sino al 30 maggio, quando si
interromperanno per l’estate come accade ormai da qualche anno, per poi
riprendere in un ciclo che si perpetua da decenni.
I processi geopolitici si muovono, si sa, su tempi lunghi, salvo repentine
accelerazioni che portano a mutamenti di scenario. Secondo molti interpreti, ci
troviamo proprio ora in una di queste fasi di accelerazione, innescata dalla
disastrosa ritirata occidentale dall’Afghanistan, e uno degli argomenti più
pesanti sulla bilancia del dibattito pubblico è l’organizzazione militare
dell’Europa. Una serie di partite in cui la Sardegna, che ospita i due più
grandi poligoni militari del continente ed è al centro degli interessi
economici del Qatar, ha un posto fondamentale. Ma per provare a descrivere il
ruolo dell’isola in questo grande gioco rivisitato, bisogna partire dalla
cronaca giudiziaria.
I processi
Non se lo aspettava proprio nessuno, ancor meno se si pensa che la notizia
è stata diffusa dalle agenzie il 16 agosto nel tardo pomeriggio. Rinnegando le
argomentazioni del pubblico ministero Emanuele Secci, che voleva archiviare, la
giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari Maria Alessandra
Tedde ha imposto alla Procura di formulare l’imputazione per disastro
ambientale contro cinque generali dell’Esercito Italiano e prorogare per altri
cinque mesi le indagini su un altro capo di imputazione, quello di omicidio
colposo plurimo. (Ansa: Capo Teualda, Gip ordina imputazione per disastro ambientale)
I cinque generali indagati sono gli ultimi capi di stato maggiore
dell’Esercito: Giuseppe Valotto, Claudio Graziano, Danilo Errico, Domenico
Rossi e Sandro Santroni difesi dal legale Guido Manca Bitti. Loro, secondo gli
avvocati di parte offesa Giacomo Doglio, Roberto Peara, Gianfranco Sollai e
Caterina Usala – che avevano raccolto le denunce di militari e familiari di
persone decedute per gravi patologie che vivevano o lavoravano nell’area
attorno alla base di Teulada -, avrebbero dovuto vigilare su quello che
accadeva nel poligono.
Per la cronaca, ieri 9 settembre la procura di lanusei
ha formulato le proposte di condanna in primo grado per i generali di Quirra.
Sono stati richiesti quattro anni di reclusione per i generali Fabio Molteni,
Alessio Cecchetti, Roberto Quattrociocchi, Valter Mauloni, Carlo Landi e Paolo
Ricci, comandanti del Pisq dal 2004 al 2010, e tre anni per i comandanti del
distaccamento a mare di Capo San Lorenzo, Gianfranco Fois e Francesco Fulvio
Ragazzon. Il capo d’accusa non è di quelli altisonanti: omissione aggravata di
cautele contro infortuni e disastri, ma è già qualcosa.
Sul piano ambientale, la zona più calda del poligono militare di Capo
Teulada nella zona sud-occidentale dell’isola (72 mila metri quadrati di
estensione a terra, 750 mila di spazio aereo interdetto e 30 chilometri di
coste interdette alla navigazione) è la cosiddetta Penisola Delta, quasi tre
chilometri quadrati. Qui, come riferisce l’Ansa, le indagini della Procura
hanno svelato che fra il 2008 e il 2016 sono stati sparati 860 mila colpi
(11.875 missili, pari a 556 tonnellate di materiale bellico). I magistrati
inquirenti stessi hanno riconosciuto nelle loro indagini il disastro ambientale
conseguente, di cui però non ritenevano responsabili i cinque generali
indagati.
Per quel che riguarda i danni alla salute e l’ipotesi di omicidio colposo plurimo,
le vittime sono civili teuladini e militari che operavano nel poligono. Qui la
sfida, molto complessa e dall’esito incerto, starà nel dimostrare una
correlazione penalmente rilevante fra l’inquinamento prodotto dalle
esercitazioni e le patologie oncologiche denunciate negli esposti che hanno
dato il via alle indagini. La posizione di uno dei generali, Claudio Graziano,
è già stato archiviata, dato che il suo incarico si è svolto in un periodo
successivo a quello delle indagini. In questo caso, un eventuale rinvio a
giudizio rappresenterebbe un momento storico, dato che fino ad oggi questa
correlazione è stata riconosciuta solo da magistrati amministrativi e civili,
che però operano secondo criteri meno stringenti di quelli del diritto penale.
Dopo le reiterate richieste di archiviazione formulate dalla Procura, in
molti nel movimento sardo contro le basi e l’occupazione militare non credevano
che la situazione si sarebbe potuta ribaltare in maniera così radicale. Certo,
ora bisognerà affrontare un processo che si preannuncia lungo e l’esempio
dell’analogo procedimento in corso al Tribunale di Lanusei per quanto accaduto
al Poligono Interforze del Salto di Quirra, su cui incombe la prescrizione, non
lascia ben sperare. Ma dal fronte giudiziario, non arrivano solo buone notizie.
Il 14 settembre, infatti, si terrà l’udienza preliminare in cui si potrebbe
decidere sul rinvio a giudizio di quarantacinque attivisti del movimento sardo
contro le basi militari. L’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di
Cagliari coordinata dal pubblico ministero Guido Pani è stata denominata
operazione Lince e per cinque indagati, contro i quali è stata proposta anche
la misura della sorveglianza speciale, è stata ipotizzato il reato di
associazione eversiva.
I quarantacinque sono, o sono stati, attivisti in diverse organizzazioni
che compongono il variegato ed eterogeneo movimento sardo contro le basi e
l’occupazione militare e le accuse riguardano fatti avvenuti fra il 2014 e il
2017, durante una fase di ripresa della mobilitazione contro le basi
nell’isola. Per A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna,
l’assemblea che riunisce molti individui e collettivi del movimento, si tratta
di un attacco politico ben studiato:
«La notizia della costituzione di parte civile della Presidenza del
Consiglio dei Ministri e del Ministero della Difesa per noi è la conferma della
natura politica di questa indagine e del processo che potrebbe seguirne. Il
vero obiettivo non è accertare ciò che avrebbero fatto i 45 indagati e
indagate, ma criminalizzare un intero movimento politico come quello contro le
basi, che gode di un largo consenso in seno al popolo sardo» affermavano in una
nota dopo la prima udienza il 27 gennaio. In favore dei quarantacinque operano
anche le Madri contro l’operazione Lince, che ogni giovedì mattina si
riuniscono in presidio davanti al palazzo di giustizia: «Ci ritroviamo davanti
al tribunale di Cagliari per chiedere, attraverso la nostra presenza, che sia
posta fine a questa volontà repressiva mirata ad annichilire gli ideali, i
sogni e i progetti, non solo dei nostri figli, ma di un’intera generazione,
attraverso operazioni poliziesche e giudiziarie persecutorie che hanno prodotto
accuse gravissime ed esorbitanti rispetto alla realtà dei fatti cui si
riferiscono». A Foras, Madri e altre realtà solidali la mattina del 14
settembre manifesteranno davanti al Tribunale di Cagliari, in occasione
dell’udienza che potrebbe concludersi con il rinvio a giudizio degli indagati.
Uno scenario che cambia
Lo strabismo giudiziario – con la magistratura che indaga
contemporaneamente sui responsabili dell’occupazione militare della Sardegna,
accusandoli di reati ambientali e contro la persona, e su chi si oppone a
questo fenomeno accusandolo di avere mire eversive – può anche essere
visto come il sintomo di un processo di mutamento in atto. La direzione verso
la quale si orienterà il futuro delle basi militari in Sardegna è molto difficile
da prevedere, ma che le cose stiano cambiando è evidente. Da un lato, appunto,
una parte dello Stato sembra – ma l’apparenza potrà essere confermata solo
dalle sentenze – aver deciso di osservare finalmente con occhio critico la
questione delle basi militari in Sardegna, quantomeno ipotizzando che esistano
gli estremi per riconoscere giuridicamente i danni che l’isola ha subito in
questi settant’anni di occupazione.
Contemporaneamente, la classe politica regionale sembra aver ammorbidito di
molto le proprie posizioni. Fino almeno al governo di Renato Soru fra il 2004 e
il 2009, la Regione pur non mettendo mai in discussione l’esistenza in sé delle
basi, adottava di tanto in tanto, come in ogni trattativa, un atteggiamento più
battagliero nelle proprie rivendicazioni nei confronti dello Stato per un
riequilibrio su tutto il territorio italiano del peso delle servitù (l’isola
ospita i due terzi delle servitù militari italiane) e del demanio militare.
Tanto che si era fatta largo all’interno della classe politica più
moderata, Partito Democratico in testa, l’ipotesi di una chiusura di uno o due
poligoni (Capo Frasca e Capo Teulada) e la concentrazione di tutte le attività
a Quirra, con un programma che avrebbe visto, nel corso degli anni, la
progressiva sostituzione delle attività prettamente militari con quelle legate
alla ricerca aerospaziale, caratterizzata dalla sua natura dual use.
Un compromesso al ribasso, secondo l’interpretazione del movimento contro
le basi, ma comunque un passo in avanti di cui ora si è persa qualsiasi
traccia. Se, infatti, prosegue il percorso di implementazione della ricerca
aerospaziale a Quirra, con il progetto da 27 milioni di euro per la
realizzazione di una piattaforma per i test sui motori dei razzi Vega firmato
da Avio (gruppo Leonardo) e appoggiato da governo e regione, la dismissione dei
poligoni di Capo Frasca e Capo Teulada è sparita dal dibattito pubblico. Mai ne
ha parlato Christian Solinas, presidente della Regione eletto nel 2019, e
segretario di quel Partito Sardo d’Azione che, vista la sua storia, dovrebbe
avere al centro del proprio programma la progressiva eliminazione delle basi
militari nell’isola.
È successo qualcosa, in questi anni, in Parlamento. Per esempio la vicenda
del deputato Pd Gian Piero Scanu, presidente della commissione d’inchiesta
sull’uranio impoverito, e principale sostenitore del compromesso che vedeva la
dismissione di Capo Frasca e Capo Teulada e la riconversione di Quirra.
Nonostante la sua forza nel proprio collegio, la Gallura, nel 2018 il
segretario Dem Matteo Renzi decise di non ricandidarlo.
Molto simile la storia di Roberto Cotti, senatore del Movimento 5 Stelle,
storico esponente del mondo antimilitarista e pacifista sardo, escluso dalle
parlamentarie nel 2018. Il suo ruolo, quello di portavoce sardo più attento
alle questioni militari, lo ha preso la deputata cagliaritana Emanuela Corda
che però, dopo un inizio battagliero, si è sempre più appiattita sulle
posizioni dell’ex sottosegretario alla Difesa grillino Angelo Tofalo e dell’ex
ministra, sempre in quota 5 Stelle, Elisabetta Trenta, abbandonando infine ogni
velleità anche solo di ridurre il peso della presenza militare in Sardegna.
Nel frattempo in Sardegna è scoppiato anche un altro bubbone, quello della
RWM, la fabbrica di bombe di Domusnovas che fa capo alla tedesca Rheinmetall.
Numerose inchieste internazionali hanno dimostrato che le bombe prodotte nello
stabilimento sardo sono state utilizzate contro i civili dall’aviazione saudita
in Yemen (Avvenire: Yemen, bombe «italiane». Ecco le nuove prove). Da qui è partita
una mobilitazione, sostenuta principalmente in Sardegna dal mondo pacifista e
antimilitarista laico e cristiano, dal movimento sardo contro le basi, dai
sindacati di base e da pezzi della società civile e boicottata da gran parte del
sindacalismo confederale e della politica. La mobilitazione ha portato, nei
primi mesi di quest’anno, ad una revoca definitiva delle licenze di
esportazione, ma nelle ultime settimane l’azienda tedesca è tornata alla
carica.
Il 29 luglio l’amministratore delegato di RWM Italia Fabio Sgarzi è stato
convocato in audizione davanti alla commissione Difesa della Camera. Qui, dopo
aver descritto le attività dell’azienda, ha chiesto che governo e parlamento
riconsiderassero la revoca delle licenze di esportazione verso Arabia Saudita
ed Emirati Arabi Uniti (Analisi Difesa: RWM Italia, l’audizione dell’ad Fabio Sgarzi alla
Commissione Difesa della Camera). Il 4 agosto la commissione Esteri
della Camera ha dato seguito alla richiesta, con una risoluzione che invitava a
superare le misure restrittive assunte in precedenza. È arrivata subito la
benedizione del ministro degli Esteri Di Maio, al telefono con l’omologo
emiratino (Analisi Difesa: verso lo sblocco delle forniture militari agli Emirati
Arabi Uniti).
In questa evoluzione, che sembra preludere a una riapertura anche nei
confronti dell’Arabia Saudita (con lo scopo di supportarne il Rinascimento in
atto, si può immaginare), non ha contato solo l’azione di lobbying di RWM, che
peraltro è iscritta all’Associazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la
Difesa e la Sicurezza presieduta dall’ex parlamentare di Fratelli d’Italia
Guido Crosetto, ma anche la volontà del governo di ricucire i rapporti con gli
Emirati, dopo il grave incidente diplomatico dell’8 giugno scorso. In
quell’occasione Abu Dhabi negò ad un aereo militare italiano diretto in
Afghanistan il transito nel proprio spazio aereo.
Il Qatar…
Ma nel calderone della penisola araba gioca un ruolo fondamentale, e in
parte contrastante con gli interessi sauditi ed emiratini, il Qatar. Il paese
arabo, oltre a organizzare i mondiali 2022 e a fare sfaceli nel calciomercato
estivo 2021 attraverso il Paris Saint-Germain, ha forti interessi in Sardegna.
Per esempio è di sua proprietà il nuovo ospedale di Olbia, il Mater, sorto sulle
ceneri del vecchio progetto appoggiato da Berlusconi di una sede sarda del San
Raffaele. Interessante notare che fra i principali attori della partita, sul
piano locale, c’era proprio Gian Piero Scanu.
Nel luglio 2019 il Consiglio regionale approvò una variazione di bilancio
che autorizzava un finanziamento da 150 milioni in tre anni per l’ospedale
privato del Qatar. Il Qatar, però, è impegnato anche in altre partite
nell’isola: nei giorni scorsi La Nuova Sardegna ha infatti svelato che la
società pubblica Qterminals sarebbe pronto all’acquisizione del porto canale di
Cagliari (La Nuova Sardegna: il Qatar a un passo dal porto canale di Cagliari). Non basta, perché
negli anni scorsi il Qatar si è garantito anche il controllo del
Consorzio Costa Smeralda, fondato nel 1962 dal principe e imam ismailita Karim
Aga Khan. E anche un’altra creatura dell’Aga Khan è in mani qatariote: si
tratta di Air Italy, la società nata dal fallimento della compagnia aerea sarda
Meridiana e ormai non più attiva.
Il Qatar è peraltro il principale alleato, per quanto non ufficiale, dei
Talebani che in questi giorni sembrano completare la conquista dell’Afghanistan,
dopo conquistato anche la valle del Panshir. A Doha era la sede dell’ufficio
politico talebano in esilio e sempre nella capitale qatariota si sono svolti
colloqui che hanno portato all’accordo Trump-Talebani per il ritiro delle
truppe Usa (e di conseguenza occidentali) dal paese centro-asiatico.
Oltre la Nato
Evidentemente il ruolo della Sardegna nella questione afghana è marginale
se non inesistente, ma ci sono una serie di aspetti che collegano i due
territori. Oltre, appunto, al ruolo del Qatar c’è una questione che decisiva
per il futuro dell’Unione Europea: quella della politica comune in materia di
difesa.
Il fatto è che la disastrosa ritirata, ma sarebbe meglio definirla rotta,
americana dall’Afghanistan ha reso evidente secondo molti esperti il fatto che,
Trump o no, gli Stati Uniti sono indirizzati verso una nuova fase di
isolazionismo. Certo, non quello che ne ha segnato la storia fra Ottocento e
prima metà del Novecento, ma comunque un ritorno a una politica estera slegata
dagli interessi europei che mette in discussione la stessa sopravvivenza della
Nato, al punto che nell’autunno 2019 il presidente francese Macron definiva
l’alleanza atlantica in stato di morte cerebrale.
Per decenni in Sardegna la Nato è stata vista dai movimenti come la
principale controparte nella questione dell’occupazione militare dell’isola.
Nel corso degli ultimi anni si è verificata, soprattutto per quel che riguarda
A Foras, un’evoluzione che ha posto al centro della questione lo stato italiano
e l’atteggiamento di sudditanza della Regione. Anche perché, l’egemonia
statunitense è stata praticamente cancellata nel 2008 con la dismissione della
base per sommergibili nucleari de La Maddalena e quella Nato ha subito un duro
colpo con la partenza della Luftwaffe dall’aeroporto militare di Decimomannu
nel 2016.
Ora, con pesanti prese di posizione in favore della creazione di una forza
militare comune all’interno dell’Ue, è chiaro che il ruolo delle infrastrutture
militari presenti nell’isola potrebbe diventare decisivo, sempre che i paesi
promotori riescano a trovare una soluzione all’eterogeneità delle posizioni
presenti all’interno dell’Unione (il manifesto: Difesa comune, la bussola improbabile dell’Ue).
In Italia, si è espresso in questa direzione persino il presidente
Mattarella, ma l’intervento che ha fatto più discutere è probabilmente quello
di Claudio Graziano, l’ex capo di stato maggiore che oggi ricopre il ruolo di
presidente del Comitato Militare dell’Unione Europea. Graziano, e questo
basterebbe per chiudere almeno simbolicamente il cerchio, è fra i cinque
indagati per disastro ambientale nell’inchiesta di cui si parlava sopra (è
stata invece archiviata la sua posizione in merito all’omicidio colposo
plurimo).
«Non ci sono alternative, – ha dichiarato Graziano a Il Foglio
– è ormai chiaro che la difesa degli interessi comuni dell’UE e la
sicurezza dei cittadini sono perseguibili solo insieme, esprimendo una
singola, autorevole e credibile voce europea, nell’ambito delle storiche
relazioni transatlantiche». Ancora più deciso il responsabile degli Esteri e
vice presidente della Commissione, Josep Borrell: «La UE dev’essere in grado di
intervenire per proteggere i propri interessi quando gli americani non vogliono
essere coinvolti con la “First Entry Force. E’ il momento di costituire
una forza europea di pronto intervento, perché gli americani non combatteranno
più le guerre degli altri e come europei, dobbiamo usare questa crisi per
imparare a lavorare di più insieme».
La sensazione è che l’isola avrà un ruolo in questa partita, quali che
siano i suoi sviluppi, ancora una volta senza che nessuno si prenda la briga di
consultare la volontà della sua popolazione. Come accadde con il Bilateral
Infrastructure Agreement degli anni Cinquanta, trattato Usa-Italia ancora
secretato e mai ratificato dal Parlamento, che avviò la stagione dell’occupazione
militare della Sardegna con la nascita dei tre poligoni militari ancora in
attività, Capo Frasca, Capo Teulada e Quirra.
Poco interessa, a Bruxelles come a Roma e come a Washington, il destino di
quelle comunità che non hanno potuto scegliere se cedere le loro terre al
demanio militare e che oggi assistono alla crescita dei settori enogastronomico
e turistico nei comuni confinanti non gravati da servitù, mentre, stando ai
dati riportati nei dossier di A Foras dedicati ai poligoni di Quirra (qui) e Teulada (e qui), la propria popolazione e il proprio reddito pro capite diminuiscono
senza sosta e mentre malattie oncologiche colpiscono civili e militari senza
che nessuna istituzione si prenda la responsabilità di dire una volta per tutte
se esiste una correlazione fra le esercitazioni e questi eventi funesti.
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