venerdì 10 settembre 2021

Contro la guerra. Oggi - Elena Camino

  

 

Dopo due o tre settimane, di quello che eri prima ti resta solo il nome anagrafico. Ormai tu non sei più tu, ma un’altra persona. E quest’altra persona che sei diventato non si spaventa più alla vista di un uomo ucciso, ma pensa con distacco o magari stizza a tutto il da fare per tirarne giù il corpo dalle rocce o trasportarlo a spalle per qualche chilometro sotto il sole. E conosce anche quell’intensa eccitazione, mai provata prima, a vedere un uomo ucciso: non è toccato a me! Si realizza così in fretta, questa trasformazione. Molto in fretta. Quasi per tutti[1].

[Un reduce dalla guerra russo-afgana, 1979-89].

 

 

Hale andò in Afghanistan nel 2012. Quando tornò in USA l’anno successivo aveva già profondi dubbi sul lavoro che aveva svolto (esperto informatico addetto a operazioni con i droni). Durante un recente processo a suo carico affermò di aver appreso – dopo un attacco di droni su un’auto – che un bambino era stato ucciso e un altro gravemente ferito. Si chiedeva se qualcuno degli altri attacchi che egli aveva aiutato a portare a termine avesse ucciso civili innocenti ritenuti “combattenti nemici.

“Ormai uccidiamo la gente senza neppure vederla. Ora premiamo un pulsante a distanza di migliaia di miglia…. Dato che tutto viene fatto tramite un controllo remoto, non c’è rimorso… e ce ne andiamo a casa trionfanti.

[Daniel Hale, condannato in USA per aver diffuso informazioni riservate sulla ‘guerra dei droni’, 2021].  

Parlare, capire, agire…

Il pubblico – mettendo temporaneamente da parte i drammi della Siria, della Libia, del Sudan, del Guatemala, di Haiti o della Colombia – è immerso in questi giorni nella realtà mediatica dell’Afghanistan.  Donne velate, giovani in fuga, polvere, gli ‘studenti’ che sorridono vittoriosi, l’aeroporto di Kabul assediato… Si moltiplicano testimonianze, interviste, riflessioni, analisi, accuse e contro-accuse, proposte…  

Mi confronto con la mia ignoranza. Che cosa so dell’Afghanistan? Non sarebbe utile conoscere meglio la sua storia, le sue risorse, le alleanze e i conflitti, per cercare di capire meglio quello che sta succedendo in questo tragico presente e non rischiare di agire in modo avventato o controproducente? Certo, posso farlo ed è opportuno farlo, ma intanto? Come posso contribuire adesso, con le mie minime forze, a portare un granello infinitesimo di sollievo, di speranza?  

L’Afghanistan è un paese senza accesso al mare, abitato da una popolazione multietnica, situato nel cuore dell’Asia centro-meridionale. Luogo di passaggio delle vie commerciali tra Asia, Medio Oriente ed Europa, è stata sede di una delle più antiche città del mondo, Balkh. La sua terra ha dato vita a pensatori che hanno ispirato lo sviluppo di varie prospettive religiose (il zoroastrismo, il buddhismo).

Il Paese ha un tasso di natalità elevatissimo, uno dei maggiori del mondo (44‰ nel 2010), in parte bilanciato dalla mortalità, anch’essa notevolmente elevata (16,8‰ nel quinquennio 2005-2010). La mortalità infantile è del 101‰ (nel 2011), mentre la speranza di vita alla nascita è di 47,2 anni per gli uomini e di 47,5 anni per le donne.


 

L’Afghanistan è da sempre oggetto di tentativi di dominio da parte di varie potenze.  È un territorio aspro, con vasti deserti e catene di alte montagne. Si trova in una posizione strategica cruciale per i flussi commerciali.  Negli ultimi decenni è cresciuto l’interesse per le sue riserve minerarie, soprattutto per i minerali di rame, di litio e per le terre rare, che forniscono componenti essenziali per batterie, cellulari, materiale informatico.  È uno dei paesi più poveri al mondo, ma contiene ricchezze straordinarie, che sempre più alimentano interessi da parte delle grandi potenze vicine e lontane.

 

Un’invasione tra le tante

Ripercorrendo la storia recente dell’Afghanistan si incontra il 1979, anno in cui ebbe inizio l’intervento militare russo in Afghanistan, che fu presentato come “il dovere internazionalista” in rapporto alla sicurezza degli stati meridionali della grande potenza, e fu illustrato come un’azione di stampo umanitario a maggior gloria dell’Unione e del popolo sovietici.

Anche se i sovietici non subirono mai una vera e propria sconfitta militare, non riuscirono però mai a domare l’insurrezione. I mujaheddin, come venivano chiamati gli insorti, si dimostrarono guerriglieri abili e coraggiosi, esperti del terreno e sempre capaci di scomparire nelle montagne dopo aver compiuto un attacco. L’isolamento internazionale nel quale venne a trovarsi l’URSS, unitamente all’ascesa di un nuovo governo con M. Gorba?iov (1985), determinarono un graduale disimpegno sovietico, che si concluse il 15 febbraio 1989.  Dieci lunghi anni di guerra, senza il clamore mediatico di oggi. La presenza sovietica in Afghanistan, secondo fonti ufficiali, costò 13.300 morti e 35.400 feriti di parte sovietica, e almeno 640 mila morti afgani,[2] ma non riuscì a raggiungere i suoi obiettivi: il governo filo-sovietico cadde pochi mesi dopo il ritiro delle truppe russe.

Il racconto della verità

A combattere in Afghanistan in quel decennio furono inviati giovani uomini e donne provenienti da molte zone dell’Unione Sovietica. Molti andarono volontari. Durante il settimo anno di guerra così scrive Svetlana Aleksievic[3], nell’introduzione al suo libro Ragazzi di zinco:

Che discorsi si sentono fare, di cosa scrivono i giornali? Del dovere internazionalista, di geopolitica, dei nostri interessi di grande potenza, della sicurezza delle nostre frontiere meridionali… Ma corrono anche certe voci sorde su funerali nei casermoni di prefabbricati e nelle casupole contadine coi pacifici gerani alle finestre; si mormora di bare di zinco troppo grandi per entrare nei minuscoli alloggi… Madri che ancora ieri stramazzavano disperate su queste cieche casse metalliche oggi prendono la parola nei collettivi delle aziende e nelle scuole per esortare altri giovani a ‘compiere il proprio dovere verso la Patria’.

Nel suo libro, pubblicato nel 2001, l’Autrice trascrive fedelmente centinaia di testimonianze di una intera generazione di giovani che con le loro madri, sorelle e spose, insieme a medici e insegnanti, impiegati, infermieri, ufficiali e comandanti hanno dato il proprio spaventoso tributo alla decennale guerra tra URSS e Afghanistan.  Soldati e ufficiali raccontano le atrocità compiute dai Mujahiddin sui prigionieri e quelle che loro stessi hanno perpetrato sul nemico. Mentre in patria i giornali scrivono che in Afghanistan i soldati costruiscono ponti, piantano viali alberati dell’amicizia e che i medici sovietici curano donne e bambini del posto, ai soldati viene ordinato di sparare “dove c’è più folla… su un matrimonio afgano, nel mucchio.

Per tutta la durata della guerra l’URSS ha mantenuto in Afghanistan un esercito di centomila combattenti. Siccome il contingente veniva rinnovato annualmente, si parla di un milione di soldati in dieci anni. Molti di costoro morirono, e i loro corpi furono rimpatriati in bare di zinco. Dice la Aleksievic: “Nei primi anni di questa strana guerra, nessuno le aveva ancora viste. Solo in seguito si seppe che giungevano e le sepolture avvenivano di nascosto, nottetempo, e sulle pietre tombali non c’era nulla che potesse far sospettare le reali circostanze del decesso”.

Svetlana Aleksievic raccoglie le testimonianze della parte russa.  Nessuno ha raccolto né documentato la voce degli afghani: dei soldati, delle famiglie, dei comandanti, dei feriti, di donne e bambini.   Ma possiamo immaginare che avrebbe registrato racconti analoghi, ricordi di terrore e sofferenze, lutti e violenze subite e perpetrate. Insieme ai combattenti più esperti, che arroccati sui monti sfiancarono i soldati russi con imboscate e sabotaggi, c’erano ragazzi giovani, altrettanto impauriti dei loro coetanei russi, molti di loro intrappolati in una guerra di cui altri conoscevano le ragioni.  E anche lì erano coinvolte madri, infermiere, comandanti, medici.  E c’era la popolazione civile: alcuni milioni di persone, tra morti, feriti, mutilati, rifugiati, emigrati… 

 

La guerra dei droni e dei mercenari

Durante il ventennio della nuova guerra, che ha visto gli Stati uniti sostituirsi ai Russi sullo stesso terreno afghano, strategie  e cifre sono cambiate. Nell’ambito dell’operazione “Enduring freedom” (libertà duratura) iniziata in Afghanistan nell’ottobre 2001, e poi negli anni successivi di guerra (venti anni!), sono morti 2.448 militari statunitensi e 3.846 “contractors”, ossia soldati professionisti di compagnie private. Gli eserciti alleati degli Usa contano 1.144 caduti, tra questi 53 militari italiani.  Ben pochi, rispetto alle perdite subite dall’esercito russo qualche decennio prima, che erano state di più di 13mila morti!

Altissime – anche stavolta –  le perdite afgane. Le vittime tra le forze talebane e le forze di opposizione alla presenza occidentale sono state 51.191.  Tra i militari e la polizia afgani le perdite sono state di 66.000 persone.  E non bisogna dimenticare i membri della società civile, che si sono trovati coinvolti loro malgrado in scontri tra armati, o sono caduti vittime di errori, ‘danni collaterali’ di una guerra disumana, dove la tecnologia ha svolto un ruolo macabro, favorendo l’uccisione a freddo di tantissimi innocenti da parte di ‘tecnici’ che colpivano a distanza.  Sono stati più di 47mila i civili afghani uccisi…  

Non persone ma numeri

15 ottobre 2015. Il giornalista Jeremy Scahill, corrispondente della rivista ‘The Intercept’, pubblica l’articolo The drone papers.  Il primo attacco con droni in area di guerra risale al 2002. Da quel momento, un numero crescente di persone, sospettate di compiere azioni che potevano minacciare la sicurezza degli Stati Uniti, è stato inserito in una ‘lista di morte’ e alla fine assassinato per ordine delle più alte sfere di comando del governo USA.

Il giornalista cita dati segreti che sono stati forniti al suo giornale da parte di un soggetto anonimo, motivato dall’indignazione per «una oltraggiosa esplosione di liste di controllo – per  monitorare le persone e impilarle su elenchi, assegnando loro dei codici numerici, e condannandole a morte senza preavviso, su un campo di battaglia globale».  Intanto l’avversario si trova al sicuro, in un ufficio dietro a un monitor, preoccupato solo di collegare correttamente il codice ricevuto con la carta SIM del ‘bersaglio’ individuato e geolocalizzato.

L’uso dei droni per intercettare e uccidere ‘nemici’ si è ampiamente diffuso negli ultimi anni, nonostante da tempo questa pratica sia nota, e ne siano state sottolineate sia l’inefficacia, sia le drammatiche implicazioni etiche.

La fonte anonima che ha fornito informazioni sulla ‘guerra dei droni’ ha spiegato che all’interno della comunità di tecnici esperti cui è assegnato il compito di individuare e braccare i nemici da eliminare con i droni, alle persone da colpire non vengono riconosciuti diritti, né dignità: non si riconosce loro neppure più il loro vero nome, sono diventati solo dei bersagli.

Che cosa fare

In questi giorni sono tante le persone che si sentono coinvolte in prima persona dalla tragedia afgana, e vorrebbero ‘fare la loro parte’. C’è chi è più generoso, chi più creativo o competente; chi ha contatti con associazioni, chi ha già esperienze sul campo. Chi è disponibile ad ospitare dei profughi e chi si affanna a distinguere i buoni e i cattivi.  Le iniziative si moltiplicano. Molti però percepiscono una personale inadeguatezza, e sentono grande frustrazione per l’incapacità di portare un contributo positivo.

Eppure ci sono azioni concrete che – se intraprese da un gran numero di persone – potrebbero davvero far cambiare le cose. Non sono azioni che riguardano direttamente il dramma afgano nella sua tragica attualità, ma potrebbero avere effetti significativi e duraturi. Eccone alcune. 

  1. Appoggiare le iniziative istituzionali e non governative orientate a bloccare la produzione e il commercio di armi nel nostro Paese: armi che arricchiscono le aziende portando violenza e lutti ovunque nel mondo, e che sono   
  2. Indurre il nostro governo ad aderire al Trattato per la messa al bando degli Armamenti Nucleari. Non c’è arma più micidiale e più stupida di un’arma nucleare, capace di distruggere insieme – con una sola esplosione – amici e nemici, viventi e ambienti. Grazie all’impegno di molte associazioni, finalmente l’ONU ha approvato la messa al bando di queste armi, dichiarandole illegali. 
  3. Adottare stili di vita più semplici. Nella guerra sempre più sfrenata per l’accaparramento di risorse che consentano ai potenti di comandare nel mondo, e a una piccola minoranza di continuare a godere di privilegi (dalle auto ai cellulari, dai viaggi alle bistecche) anche ridurre il proprio peso di ‘consumatori’ è un atto contro le guerre. E’ importante rendersi conto di essere rotelline ben oliate di un processo di violenta mercificazione del mondo, e decidere di diventare granelli di sabbia in grado di inceppare gli ingranaggi di un modello insostenibile e ingiusto, che viene difeso con le guerre.
  4. Dichiarare guerra alla guerra. Basta con la retorica dei buoni e cattivi, con l’esportazione armata della democrazia, con la sicurezza protetta da muri armati, con il posto di lavoro purchessia perché dicono che non ci sono alternative. Basta con i videogiochi che insegnano a colpire il nemico virtuale… preparando tanti giovani – impercettibilmente –  a perdere di vista la realtà.   Basta con la Storia delle guerre, in cui protagonisti e vittime sono perennemente muti.  Invece è importante leggere, e far leggere, i libri di Svetlana Aleksievic e di altre autrici e autori che – come lei – hanno ascoltato con compassione ed empatia coloro che le guerre le hanno vissute e subìte in prima persona, e ne sono diventate rispettose portavoci.   

Un coro tragico di molteplici voci

Svetlana Aleksievic, l’Autrice del libro che ho prima citato, Ragazzi di zinco, aveva iniziato a confrontarsi con la guerra raccogliendo testimonianze di persone che ne erano state coinvolte, attraverso interviste ai veterani della seconda guerra mondiale che abitavano nella sua stessa nazione, la Bielorussia. Il Paese era stato occupato per tre anni dalle truppe tedesche, un bielorusso su 4 era morto in guerra, 600 centri abitati erano stati distrutti.

Poi aveva raccolto racconti di donne–soldato sovietiche che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale. con esse compose nel 1983 il suo primo libro, La guerra non ha volto di donna, che fu censurato per ‘pacifismo’ e poté essere pubblicato solo due anni dopo.

Dal 1985 l’Autrice inizia a indagare su una guerra che era in atto, quella tra URSS e Afghanistan, e di cui in quel momento non si vedeva la fine. Per quattro anni, percorrendo ampie zone dell’Unione Sovietica, la Aleksievic raccoglie testimonianze di reduci, invalidi, vedove, madri: a tutti presta orecchio, a tutti dà voce, e crea un grande reportage narrativo in cui risuonano, come un coro di tragedia, le molteplici voci di chi ha vissuto, direttamente o indirettamente, questa lunga guerra. Sullo sfondo, la catastrofe della popolazione afghana.

Ragazzi di zinco, ultimato nel 1989, viene pubblicato in russo nel 1991. Oggetto della ricerca di questa Autrice non è la storia della guerra in quanto tale, ma la storia dei sentimenti, dei pensieri, delle paure, delle aspettative delle singole persone che ne sono coinvolte, al di là della retorica e delle narrazioni ufficiali. La pubblicazione di questo libro costò all’Autrice denunce e processi, di cui si dà notizia nelle ultime pagine del libro.


Chi è Svetlana Aleksievic

In un articolo scritto in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel a Svetlana Aleksievic, Roberto Saviano rifletteva sul ruolo della letteratura ‘non fiction’ e sulla sua finalità.

Cos’è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. […]  La verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può misurare.

Questa scrittrice […] ha raccontato quello che stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era visibile ma c’era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della letteratura.


Note

[1] Da Ragazzi di zinco, pag. 298.

[2] Secondo altre fonti, all’inizio dell’invasione, avevano perso la vita un milione di afghani e altri 5 milioni si erano rifugiati in Pakistan e Iran.  

[3] Premio Nobel per la letteratura nel 2015.

da qui

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