Dopo due o tre settimane, di quello che eri prima ti
resta solo il nome anagrafico. Ormai tu non sei più tu, ma un’altra persona. E
quest’altra persona che sei diventato non si spaventa più alla vista di un uomo
ucciso, ma pensa con distacco o magari stizza a tutto il da fare per tirarne
giù il corpo dalle rocce o trasportarlo a spalle per qualche chilometro sotto
il sole. E conosce anche quell’intensa eccitazione, mai provata prima, a vedere
un uomo ucciso: non è toccato a me! Si realizza così in fretta, questa
trasformazione. Molto in fretta. Quasi per tutti[1].
[Un reduce dalla guerra russo-afgana, 1979-89].
Hale andò in Afghanistan nel 2012. Quando tornò in USA
l’anno successivo aveva già profondi dubbi sul lavoro che aveva svolto (esperto
informatico addetto a operazioni con i droni). Durante un recente processo a
suo carico affermò di aver
appreso – dopo un attacco di droni su un’auto – che un bambino era stato ucciso
e un altro gravemente ferito. Si chiedeva se qualcuno degli altri attacchi che
egli aveva aiutato a portare a termine avesse ucciso civili innocenti ritenuti
“combattenti nemici.
“Ormai uccidiamo la gente senza neppure vederla. Ora
premiamo un pulsante a distanza di migliaia di miglia…. Dato che tutto viene
fatto tramite un controllo remoto, non c’è rimorso… e ce ne andiamo a casa
trionfanti.
[Daniel Hale, condannato in USA per aver diffuso
informazioni riservate sulla ‘guerra dei droni’, 2021].
Parlare, capire, agire…
Il pubblico – mettendo temporaneamente da parte i drammi
della Siria, della Libia, del Sudan, del Guatemala, di Haiti o della Colombia –
è immerso in questi giorni nella realtà mediatica dell’Afghanistan. Donne
velate, giovani in fuga, polvere, gli ‘studenti’ che sorridono vittoriosi,
l’aeroporto di Kabul assediato… Si moltiplicano testimonianze, interviste,
riflessioni, analisi, accuse e contro-accuse, proposte…
Mi confronto con la mia ignoranza. Che cosa so
dell’Afghanistan? Non sarebbe utile conoscere meglio la sua storia, le sue
risorse, le alleanze e i conflitti, per cercare di capire meglio quello che sta
succedendo in questo tragico presente e non rischiare di agire in modo
avventato o controproducente? Certo, posso farlo ed è opportuno farlo, ma
intanto? Come posso contribuire adesso, con le mie minime forze, a portare un
granello infinitesimo di sollievo, di speranza?
L’Afghanistan è
un paese senza accesso al mare, abitato da una popolazione multietnica, situato
nel cuore dell’Asia centro-meridionale. Luogo di passaggio delle vie
commerciali tra Asia, Medio Oriente ed Europa, è stata sede di una delle più
antiche città del mondo, Balkh. La sua terra ha dato vita a pensatori che hanno
ispirato lo sviluppo di varie prospettive religiose (il zoroastrismo, il
buddhismo).
Il Paese ha un tasso di natalità elevatissimo, uno dei
maggiori del mondo (44‰ nel 2010), in parte bilanciato dalla mortalità,
anch’essa notevolmente elevata (16,8‰ nel quinquennio 2005-2010). La mortalità
infantile è del 101‰ (nel 2011), mentre la speranza di vita alla nascita è di
47,2 anni per gli uomini e di 47,5 anni per le donne.
L’Afghanistan è da sempre oggetto di tentativi di dominio
da parte di varie potenze. È un territorio aspro, con vasti deserti e
catene di alte montagne. Si trova in una posizione strategica cruciale per i
flussi commerciali. Negli ultimi decenni è cresciuto l’interesse per le
sue riserve minerarie, soprattutto per i minerali di rame, di litio e per le
terre rare, che forniscono componenti essenziali per batterie, cellulari, materiale
informatico. È uno dei paesi
più poveri al mondo, ma contiene ricchezze straordinarie,
che sempre più alimentano interessi da parte delle grandi potenze vicine e
lontane.
Un’invasione tra le tante
Ripercorrendo la storia recente dell’Afghanistan si
incontra il 1979, anno in cui ebbe inizio l’intervento militare russo in
Afghanistan, che fu presentato come “il dovere internazionalista” in rapporto
alla sicurezza degli stati meridionali della grande potenza, e fu illustrato
come un’azione di stampo umanitario a maggior gloria dell’Unione e del popolo
sovietici.
Anche se i sovietici non subirono mai una vera e propria
sconfitta militare, non riuscirono però mai a domare l’insurrezione.
I mujaheddin, come venivano chiamati gli insorti, si dimostrarono
guerriglieri abili e coraggiosi, esperti del terreno e sempre capaci di
scomparire nelle montagne dopo aver compiuto un attacco. L’isolamento
internazionale nel quale venne a trovarsi l’URSS, unitamente all’ascesa di un
nuovo governo con M. Gorba?iov (1985), determinarono un graduale disimpegno
sovietico, che si concluse il 15 febbraio 1989. Dieci lunghi anni di
guerra, senza il clamore mediatico di oggi. La presenza sovietica in
Afghanistan, secondo fonti ufficiali, costò 13.300 morti e 35.400 feriti di
parte sovietica, e almeno 640 mila morti afgani,[2] ma non riuscì a
raggiungere i suoi obiettivi: il governo filo-sovietico cadde pochi mesi dopo
il ritiro delle truppe russe.
Il racconto della verità
A combattere in Afghanistan in quel decennio furono
inviati giovani uomini e donne provenienti da molte zone dell’Unione Sovietica.
Molti andarono volontari. Durante il settimo anno di guerra così scrive
Svetlana Aleksievic[3], nell’introduzione al suo libro Ragazzi
di zinco:
Che discorsi si sentono fare, di cosa scrivono i
giornali? Del dovere internazionalista, di geopolitica, dei nostri interessi di
grande potenza, della sicurezza delle nostre frontiere meridionali… Ma corrono
anche certe voci sorde su funerali nei casermoni di prefabbricati e nelle
casupole contadine coi pacifici gerani alle finestre; si mormora di bare di
zinco troppo grandi per entrare nei minuscoli alloggi… Madri che ancora ieri
stramazzavano disperate su queste cieche casse metalliche oggi prendono la
parola nei collettivi delle aziende e nelle scuole per esortare altri giovani a
‘compiere il proprio dovere verso la Patria’.
Nel suo libro, pubblicato nel 2001, l’Autrice trascrive
fedelmente centinaia di testimonianze di una intera generazione di giovani che
con le loro madri, sorelle e spose, insieme a medici e insegnanti, impiegati,
infermieri, ufficiali e comandanti hanno dato il proprio spaventoso tributo
alla decennale guerra tra URSS e Afghanistan. Soldati e ufficiali
raccontano le atrocità compiute dai Mujahiddin sui prigionieri e quelle che
loro stessi hanno perpetrato sul nemico. Mentre in patria i giornali scrivono
che in Afghanistan i soldati costruiscono ponti, piantano viali alberati
dell’amicizia e che i medici sovietici curano donne e bambini del posto, ai
soldati viene ordinato di sparare “dove c’è più folla… su un matrimonio afgano,
nel mucchio.
Per tutta la durata della guerra l’URSS ha mantenuto in
Afghanistan un esercito di centomila combattenti. Siccome il contingente veniva
rinnovato annualmente, si parla di un milione di soldati in dieci anni. Molti
di costoro morirono, e i loro corpi furono rimpatriati in bare di zinco. Dice
la Aleksievic: “Nei primi anni di questa strana guerra, nessuno le
aveva ancora viste. Solo in seguito si seppe che giungevano e le sepolture
avvenivano di nascosto, nottetempo, e sulle pietre tombali non c’era nulla che
potesse far sospettare le reali circostanze del decesso”.
Svetlana Aleksievic raccoglie le testimonianze della
parte russa. Nessuno ha raccolto né documentato la voce degli afghani:
dei soldati, delle famiglie, dei comandanti, dei feriti, di donne e
bambini. Ma possiamo immaginare che avrebbe registrato racconti
analoghi, ricordi di terrore e sofferenze, lutti e violenze subite e
perpetrate. Insieme ai combattenti più esperti, che arroccati sui monti sfiancarono i soldati russi
con imboscate e sabotaggi, c’erano ragazzi giovani, altrettanto impauriti
dei loro coetanei russi, molti di loro intrappolati in una guerra di cui altri
conoscevano le ragioni. E anche lì erano coinvolte madri, infermiere,
comandanti, medici. E c’era la popolazione civile: alcuni milioni di
persone, tra morti, feriti, mutilati, rifugiati, emigrati…
La guerra dei droni e dei mercenari
Durante il ventennio della nuova guerra, che ha visto gli
Stati uniti sostituirsi ai Russi sullo stesso terreno afghano, strategie
e cifre sono cambiate.
Nell’ambito dell’operazione “Enduring freedom” (libertà duratura) iniziata in
Afghanistan nell’ottobre 2001, e poi negli anni
successivi di guerra (venti anni!), sono morti 2.448 militari
statunitensi e 3.846 “contractors”,
ossia soldati professionisti di compagnie private. Gli eserciti alleati degli
Usa contano 1.144 caduti, tra questi 53
militari italiani. Ben pochi, rispetto alle perdite subite
dall’esercito russo qualche decennio prima, che erano state di più di 13mila
morti!
Altissime – anche stavolta – le perdite afgane. Le
vittime tra le forze talebane e le forze di opposizione alla presenza
occidentale sono state 51.191. Tra i militari
e la polizia afgani le perdite sono state di 66.000 persone. E non
bisogna dimenticare i membri della società civile, che si sono trovati
coinvolti loro malgrado in scontri tra armati, o sono caduti vittime di errori,
‘danni collaterali’ di una guerra disumana, dove la tecnologia ha svolto un
ruolo macabro, favorendo l’uccisione a freddo di tantissimi innocenti da parte
di ‘tecnici’ che colpivano a distanza. Sono stati più di 47mila
i civili afghani uccisi…
Non persone ma numeri
15 ottobre 2015. Il giornalista Jeremy Scahill,
corrispondente della rivista ‘The Intercept’, pubblica l’articolo The drone papers. Il primo attacco con droni in area di guerra
risale al 2002. Da quel momento, un numero crescente di persone, sospettate di
compiere azioni che potevano minacciare la sicurezza degli Stati Uniti, è stato
inserito in una ‘lista di morte’ e alla fine assassinato per ordine delle più
alte sfere di comando del governo USA.
Il giornalista cita dati segreti che sono stati forniti
al suo giornale da parte di un soggetto anonimo, motivato dall’indignazione per
«una oltraggiosa esplosione di liste di controllo – per monitorare le
persone e impilarle su elenchi, assegnando loro dei codici numerici, e
condannandole a morte senza preavviso, su un campo di battaglia globale».
Intanto l’avversario si trova al sicuro, in un ufficio dietro a un
monitor, preoccupato solo di collegare correttamente il codice ricevuto con la
carta SIM del ‘bersaglio’ individuato e geolocalizzato.
L’uso dei droni per intercettare e uccidere ‘nemici’ si è
ampiamente diffuso negli ultimi anni, nonostante da tempo questa pratica sia
nota, e ne siano state sottolineate sia l’inefficacia, sia le drammatiche
implicazioni etiche.
La fonte anonima che ha fornito informazioni sulla
‘guerra dei droni’ ha spiegato che all’interno della comunità di tecnici
esperti cui è assegnato il compito di individuare e braccare i nemici da
eliminare con i droni, alle persone da colpire non vengono riconosciuti
diritti, né dignità: non si riconosce loro neppure più il loro vero nome, sono
diventati solo dei bersagli.
Che cosa fare
In questi giorni sono tante le persone che si sentono
coinvolte in prima persona dalla tragedia afgana, e vorrebbero ‘fare la loro
parte’. C’è chi è più generoso, chi più creativo o competente; chi ha contatti
con associazioni, chi ha già esperienze sul campo. Chi è disponibile ad
ospitare dei profughi e chi si affanna a distinguere i buoni e i cattivi.
Le iniziative si moltiplicano. Molti però percepiscono una personale
inadeguatezza, e sentono grande frustrazione per l’incapacità di portare un
contributo positivo.
Eppure ci sono azioni concrete che – se intraprese da un
gran numero di persone – potrebbero davvero far cambiare le cose. Non sono
azioni che riguardano direttamente il dramma afgano nella sua tragica
attualità, ma potrebbero avere effetti significativi e duraturi. Eccone
alcune.
- Appoggiare
le iniziative istituzionali e non governative orientate a bloccare la
produzione e il commercio di armi nel nostro Paese: armi che arricchiscono le aziende portando
violenza e lutti ovunque nel mondo, e che sono
- Indurre
il nostro governo ad aderire al Trattato per la messa al bando degli Armamenti
Nucleari.
Non c’è arma più micidiale e più stupida di un’arma nucleare, capace di
distruggere insieme – con una sola esplosione – amici e nemici, viventi e
ambienti. Grazie all’impegno di molte associazioni, finalmente l’ONU ha
approvato la messa al bando di queste armi, dichiarandole illegali.
- Adottare
stili di vita più semplici. Nella guerra sempre più sfrenata per
l’accaparramento di risorse che consentano ai potenti di comandare nel
mondo, e a una piccola minoranza di continuare a godere di privilegi
(dalle auto ai cellulari, dai viaggi alle bistecche) anche ridurre il
proprio peso di ‘consumatori’ è un atto contro le guerre. E’ importante
rendersi conto di essere rotelline ben oliate di un processo di violenta
mercificazione del mondo, e decidere di diventare granelli di sabbia in
grado di inceppare gli ingranaggi di un modello insostenibile e ingiusto,
che viene difeso con le guerre.
- Dichiarare
guerra alla guerra. Basta con la retorica dei buoni e cattivi, con
l’esportazione armata della democrazia, con la sicurezza protetta da muri
armati, con il posto di lavoro purchessia perché dicono che non ci sono
alternative. Basta con i videogiochi che insegnano a colpire il nemico
virtuale… preparando tanti giovani – impercettibilmente – a perdere
di vista la realtà. Basta con la Storia delle guerre, in cui
protagonisti e vittime sono perennemente muti. Invece è importante
leggere, e far leggere, i libri di Svetlana Aleksievic e di altre autrici
e autori che – come lei – hanno ascoltato con compassione ed empatia
coloro che le guerre le hanno vissute e subìte in prima persona, e ne sono
diventate rispettose portavoci.
Un coro tragico di molteplici voci
Svetlana Aleksievic, l’Autrice del libro che ho prima
citato, Ragazzi di zinco, aveva iniziato a confrontarsi con la
guerra raccogliendo testimonianze di persone che ne erano state coinvolte,
attraverso interviste ai veterani della seconda guerra mondiale che abitavano
nella sua stessa nazione, la Bielorussia. Il Paese era stato occupato per tre
anni dalle truppe tedesche, un bielorusso su 4 era morto in guerra, 600 centri
abitati erano stati distrutti.
Poi aveva raccolto racconti di donne–soldato sovietiche
che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale. con esse compose nel 1983
il suo primo libro, La guerra non ha volto di donna, che fu
censurato per ‘pacifismo’ e poté essere pubblicato solo due anni dopo.
Dal 1985 l’Autrice inizia a indagare su una guerra che
era in atto, quella tra URSS e Afghanistan, e di cui in quel momento non si
vedeva la fine. Per quattro anni, percorrendo ampie zone dell’Unione Sovietica,
la Aleksievic raccoglie testimonianze di reduci, invalidi, vedove, madri: a
tutti presta orecchio, a tutti dà voce, e crea un grande reportage narrativo in
cui risuonano, come un coro di tragedia, le molteplici voci di chi ha vissuto,
direttamente o indirettamente, questa lunga guerra. Sullo sfondo, la catastrofe
della popolazione afghana.
Ragazzi di zinco,
ultimato nel 1989, viene pubblicato in russo nel 1991. Oggetto della ricerca di
questa Autrice non è la storia della guerra in quanto tale, ma la storia dei
sentimenti, dei pensieri, delle paure, delle aspettative delle singole persone
che ne sono coinvolte, al di là della retorica e delle narrazioni ufficiali. La
pubblicazione di questo libro costò all’Autrice denunce e processi, di cui si
dà notizia nelle ultime pagine del libro.
Chi è Svetlana Aleksievic
In un articolo scritto
in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel a Svetlana Aleksievic, Roberto
Saviano rifletteva sul ruolo della letteratura ‘non fiction’ e sulla sua
finalità.
Cos’è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o
una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli
altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende
delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il
fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può
essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come
obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. […] La
verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può
misurare.
Questa scrittrice […] ha raccontato quello che
stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai
cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo
attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era
visibile ma c’era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche
in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della
letteratura.
Note
[1] Da Ragazzi
di zinco, pag. 298.
[2] Secondo altre fonti, all’inizio
dell’invasione, avevano perso la vita un milione di afghani e altri 5 milioni
si erano rifugiati in Pakistan e Iran.
[3] Premio Nobel per
la letteratura nel 2015.
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