La vita a Hong Kong negli ultimi tempi è diventata imprevedibile e difficile da descrivere. Quando ci si incontra tra amici, o ci si scambia messaggi, la domanda più frequente è: parti o rimani? Ce lo si chiede con ansia, indipendentemente dalla risposta.
Qualche giorno fa la mia amica Winnie (i nomi li cambierò tutti, per
sicurezza) ha postato su Instagram la foto di una finestra aperta con delle
tendine a fiori mosse dalla corrente d’aria e un testo che diceva solo “mi
mancherà questa stanza. In particolare queste tendine a fiori”. Secondo il nuovo
protocollo, che si è sviluppato in silenzio, non si risponde più sotto al post
chiedendo “perché, cosa succede, parti?”. Così ho pensato di mandare un
messaggio a Hellen, per chiedere a lei: “Parte, Winnie?”. E Hellen si è
allarmata, ha risposto “no, davvero? Non è possibile…”. Così abbiamo mandato
entrambe un messaggio a Winnie, che ha risposto che no, deve solo traslocare,
per ora rimane.
Metto “Mi piace” sotto ai post finti di un altro amico, Stan, che è già
partito ma non può ancora dirlo per paura che possano fermare la sua compagna
impegnata a sistemare le ultime cose prima di raggiungerlo. Per non dare
nell’occhio posta fotografie di cos’ha mangiato nei giorni scorsi in diversi
ristoranti di Hong Kong oppure foto di dettagli, così da non rischiare di
mostrare paesaggi in cui il meteo non coincide con quello di qui. Se ci si
organizza per vedersi e qualcuno deve disdire tutti si chiedono immediatamente
se non sia perché ha dovuto lasciare la città. Per tranquillizzare gli altri si
dice subito “potrei quest’altro giorno, scusate”.
La vita stravolta
A luglio le partenze si sono intensificate perché dal 1 agosto Hong Kong e
Pechino non riconosceranno più come documento valido il passaporto British
national overseas (Bno, concesso dal Regno Unito a chi è nato prima del ritorno
di Hong Kong alla Cina, nel 1997). Dal gennaio 2021 Londra ha cominciato a
rilasciare visti speciali ai possessori di Bno, che dopo cinque anni potranno
ottenere la cittadinanza britannica, per cui negli ultimi mesi se ne sono
andati in parecchi.
Carrie Lam, a capo dell’esecutivo di Hong Kong, ha detto di non essere
affatto preoccupata dalle code infinite ai check-in dell’aeroporto – famiglie
con pacchi e valige di chi non prevede di tornare. Solo alle partenze c’è la
coda, gli arrivi sono vuoti. “Hong Kong è sempre stata una città
internazionale, conto sul fatto che continuerà ad attirare talenti dal mondo
intero e dalla Cina continentale”, ha detto Lam durante una conferenza stampa
prima di cambiare discorso.
È sconcertante che la responsabile di un governo non si mostri turbata
davanti a migliaia di persone, in particolare giovani, che scelgono di
andarsene anche senza avere dei piani precisi, pur di non essere costretti a
vivere in una città che sta cambiando in modo inarrestabile.
Dal 1 luglio 2020, quando è entrata in vigore la legge sulla sicurezza
nazionale scritta a Pechino e imposta a Hong Kong senza nemmeno il vaglio del
parlamento locale, gran parte di ciò che costituiva la vita politica della
città è stato stravolto. Il quotidiano Apple Daily, indipendente, a favore
della democrazia e a volte caciarone, è stato fatto chiudere congelandone i
fondi; il direttore e altri dirigenti del giornale sono stati arrestati.
Il sistema elettorale è stato “migliorato” e adesso solo chi sarà giudicato
“patriottico” da un comitato ad hoc potrà candidarsi alle elezioni. Molti dei
seggi in cui i cittadini potevano scegliere i loro rappresentanti sono stati
eliminati, rafforzando di nuovo il voto corporativo, quello di rappresentanti
dei vari settori dell’economia, come in epoca coloniale. Sono state abolite
anche le associazioni studentesche universitarie, dichiarate antipatriottiche e
accusate addirittura di apologia del terrorismo (qui la parola terrorismo non è
mai stata usata con tale leggerezza).
Un rifugio lontano
Prima del notiziario alla radio o in tv viene trasmesso l’inno nazionale, che
ora per legge va rispettato (come la bandiera e gli altri simboli nazionali), e
per i bambini della scuola materna sono stati preparati dei manuali per
imparare ad amare la patria: meglio che comincino da giovani, così non si fanno
venire idee balzane. I cambiamenti al sistema educativo sono però uno dei
motivi principali per cui alcune persone decidono di andarsene: l’idea che i
figli siano sottoposti alla propaganda comune nel resto della Cina è
inaccettabile, così vanno nel Regno Unito, in alcuni casi in Canada o negli
Stati Uniti, e in casi molto speciali a Taiwan (che, al contrario di quanto ci
si aspettava, non è diventato uno dei rifugi più gettonati).
I paesi vicini, del resto, sono ancora chiusi per la pandemia, quindi anche
chi potrebbe sperare di rifarsi una vita in Giappone o in Australia per ora non
può nemmeno passarci un fine settimana. Alcune parole, e diversi slogan e
canzoni del 2019, sono diventate illegali: in radio non si può più chiamare
Tsai Ing-wen “la presidente” taiwanese, ma solo “la leader” di Taiwan, dato che
Pechino non accetta che il linguaggio rispecchi lo status quo attuale, in cui
Taiwan è un’isola autogovernata, democratica, mai guidata dal Partito comunista
cinese.
Un’associazione d’insegnanti ha lanciato un appello accorato al governo di
Hong Kong perché faccia uno sforzo per capire come mai tanti giovani, troppi,
se ne stanno andando e per fermare l’esodo, ma l’inutilità del loro appello è
stata quasi imbarazzante. A nessuno interessa. Anzi, se vanno via i cittadini
che chiedono democrazia, libertà di espressione e giustizia per gli abusi della
polizia commessi durante le manifestazioni del 2019, il governo non li
rimpiange.
Tra chi rimane ci sono persone determinate a vedere cosa succede, e altre
che vogliono vedere se sono capaci di vivere in modo completamente apolitico.
Ci sono anche i sostenitori del governo, ovviamente, e poi le oltre diecimila
persone che sono state arrestate per le proteste del 2019.
Molte di loro sono ancora adolescenti, e ricevono pene sproporzionate. I
crimini contro la polizia sono trattati con la massima severità: una donna di
47 anni che ha lanciato un ombrello e una scatola di biscotti contro la polizia
– anche se l’ombrello non ha colpito nessuno – è stata condannata a tre anni e
nove mesi di prigione per “rivolta e assalto”. L’incidente era avvenuto durante
una manifestazione in cui la polizia aveva caricato e arrestato molti ragazzi.
La donna aveva cercato di proteggerne uno dall’arresto. Sugli eccessi e gli
abusi della polizia, invece, non si indaga, e tantomeno vengono puniti.
Quello che viene richiesto a chi rimane è di “amare”: la polizia, la madrepatria, la bandiera, la
nuova legge sulla sicurezza nazionale, i leader, il partito… Non era mai
successo che a Hong Kong si chiedesse di amare il partito, ma adesso sì, dato
che è stato stabilito che non si può amare la patria senza amare il partito che
la protegge e governa. L’amore per Hong Kong, invece, va esercitato con
autocontrollo: non deve offuscare l’amore vero, quello per la patria, il
partito eccetera. Ci vorrà un po’ per abituarsi.
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