La mia biblioteca. Chiaccherata sul collezionismo - Walter Benjamin (1931)
Disimballo la mia biblioteca. Già. Non è ancora sulle scansie, avulsa
ancora dalla lieve noia dell'ordine. Non posso percorrerne le file, per passarle
in rassegna ante benevoli lettori (ciò non avete da temere). Bensì devo
pregarvi di trasferirvi con me nel disordine di casse disserrate, nell'aria
satura di polvere di legno, sul pavimento ricoperto di carte strappate, fra i
mucchi di volumi riportati alla luce del giorno dopo due anni di oscurità, per
condividere un po' del senso di anticipazione (anziché elegiaco) che i libri
destano in un autentico collezionista. Infatti tale è chi vi parla e parla,
perlopiù, solo di sé. Non sarebbe guasco (millantando finte spassionatezza e
oggettività) enumerarvi qui i pezzi migliori o le sezioni principali di una
biblioteca, o spiegarvi la storia della sua formazione nonché come giovi allo
scrittore? Invece io miro a un che di più evidente, di più tangibile; ciò-che-mi-sta-a-cuore
è darvi un'idea del nesso fra un collezionista & sua raccolta, un'idea del
collezionismo anziché di una particolare collezione. Che lo spunto
siano i diversi modi di procurarsi libri è affatto arbitrario. Tale svolgimento
del discorso è (come tutti) solo un argine contro l'alta marea dei ricordi che
ricopre ogni collezionista che contempli i suoi beni. Ogni passione confina col
caos, ma la passione del collezionista confina col caos dei ricordi. Di più:
caso e destino (che per me colorano il passato) ricorrono insieme, in modo
sensibile, nel consueto disordine di tali libri. Cosa infatti è tale possesso
se non un disordine con cui la consuetudine si è così familiarizzata da poter
apparire come un ordine? Sono note persone ammalatesi per la perdita dei propri
libri o altre che ne hanno acquisiti con delitto. Proprio in tali ambiti, ogni
ordine è solo uno stato di precarietà assoluta. Anatole France dice:
«Esiste un solo sapere esatto: l'anno di
pubblicazione e il formato dei libri».
In effetti all'assenza di regole di una
biblioteca corrisponde la conformità a regole del suo catalogo.
Così l'esistenza del collezionista è una
tensione dialettica fra i poli dell'ordine e del disordine.
Beninteso: è legata pure a tante altre
cose. Ha un rapporto assai enigmatico con la proprietà (su cui dovrò tornare);
e un rapporto con le cose che (slegato dal valore funzionale: la loro utilità,
adoperabilità) le studia e le ama come la scena, il teatro del loro destino. È
l'incantesimo più profondo del collezionista serrare il singolo oggetto in un
cerchio magico in cui esso s'irrigidisce, mentre l'ultimo brivido (il brivido
del venir acquistato) tosto lo lascia. Tutto ciò che è ricordato, pensato,
saputo muta in basamento, cornice, piedistallo, sigillo della sua proprietà.
Epoca, luogo, fabbrica, proprietario precedente: tutte tali cose insite ogni
singolo oggetto della sua proprietà, per il vero collezionista, si fondono in
una magica enciclopedia la cui essenza è il destino dell'oggetto. In tale
ristretto ambito si può presagire come i grandi fisiognomici (e i collezionisti
sono fisiognomici del mondo delle cose) diventino interpreti del destino. Basti
osservare come un collezionista maneggi gli oggetti della sua vetrina. Tostoché
li afferri, pare guardare ispirato attraverso di loro, nel loro passato remoto.
Tanto potrei dire del lato magico del collezionista, della sua figura di
vegliardo.
La frase Habent sua fata libelli forse
riguarda i libri in sé. Libri quali la Divina Commedia o
l'Etica di Spinoza o L'origine delle specie hanno
il loro destino. Ma il collezionista interpreta diversamente tale detto
latino: ad avere un destino sono le COPIE anziché i libri. E per
lui il destino più importante di ogni copia è l'aver incontrato lui e la sua
collezione. Non esagero: per l'autentico bibliomane acquistar un
vecchio libro significa resuscitarlo. Proprio qui sta il tratto infantile che
nel collezionista si compenetra con quello del vegliardo. Infatti i bambini
hanno la capacità di rinnovare l'esistenza in centinaia di modi infallibili.
Per i bambini collezionare è un metodo di rinnovamento fra tanti (come
dipingere gli oggetti, ritagliare, metter adesivi; insomma l'intera sfera dei
modi infantili di acquisizione: dal toccare al denominare). Rinnovare il mondo
antico: ecco il profondo desiderio del collezionista quando ha l'impulso
d'acquisir cose nuove. Indi il collezionista di libri antichi è più vicino
all'origine del collezionare di chi compra edizioni di lusso.
Ora serve spiegare: come i libri varcano
la soglia di una collezione e divengono proprietà di un collezionista? Qual è
la storia del loro acquisto?
Tra tutti i modi di procurarsi dei libri,
si stima il più lodevole scriverseli da sé. Ciò farà volentieri ricordare la
grande biblioteca che Wuz (il povero maestrino di scuola di Jean Paul) si
procurò col tempo scrivendosi da sé tutte le opere i cui titoli nel catalogo
della Fiera lo avevano interessato ma non poteva permettersi. Invero gli
scrittori non scrivono libri per povertà, bensì perché scontenti di quelli che
potrebbero comprare ma non gli piacciono. Parrà questa una definizione svitata
di scrittore. Ma è svitato tutto ciò che si dice dal punto di vista di
un vero collezionista. Tra i modi usuali d'acquisto, il più abile per il
collezionista sarebbe prenderli in prestito senza restituirli. Chi prenda in
prestito libroni (come ce li immaginiamo) risulta un incallito bibliomane più
per il fatto che i libri non li legge che per il fervore con cui custodisce il
tesoro arraffato e per la sordità con cui accoglie gli avvisi della banale
quotidianità della vita giuridica. So per esperienza che qualcuno mi abbia
riportato un libro dato in prestito senza leggerlo. Mi chiederete: sarebbe
una caratteristica del collezionista non leggere libri? Che novità. No. Gli
esperti provano che è cosa antichissima. Mi basta citare la risposta che di
nuovo France dava al borghesuccio che ammirava la sua biblioteca, per
concludere poi con la domanda obbligata:
«E li ha letti tutti, signor France? –
Manco un decimo. O forse lei mangia tutti i giorni col suo servizio di
Sèvres?».
La legittimità di un tale atteggiamento ho
verificata io stesso. Per anni (almeno per il primo terzo della sua esistenza
finora) la mia biblioteca constò di non più di due o tre file che crescevano
solo di pochi centimetri all'anno. Questa era la sua epoca marziale, vietante
l'accesso ad ogni libro senza garanzia di averlo letto. Così mai sarei giunto
alle dimensioni di una biblioteca, senza l'inflazione che (tosto spostato
l'enfasi delle cose) mutò i libri in valori materiali, assai difficili da
acquistare. Così almeno parse in Svizzera. E da lì feci in extremis i miei
primi ordini di libri, riuscendo a salvare cose insostituibili come Il cavaliere
azzurro o Il mito di Tanaquilla di Bachofen (allora
ancora disponibili appo l'editore).
Dopo tanti giri in lungo e in largo, si
dirà, dovremmo infine arrivare sulla strada maestra dell'acquisizione dei
libri: l'acquisto. È una strada sì ampia, ma scomoda. L'acquisto del bibliomane
ha poco in comune con quelli fatti in libreria dallo studente che si procura un
manuale, dal signore di mondo che fa un regalo alla sua dama o dall'uomo
d'affari che vuol alleviar la durata del prossimo viaggio in treno. I miei
acquisti più memorabili li ho fatti in viaggio, da turista. Proprietà e
possesso esigono una loro tattica. I collezionisti sono persone con un istinto
tattico; secondo la loro esperienza, quando assaltano una città straniera, la
più piccola bottega di un antiquario sta per un fortino e la più sperduta
cartoleria per un posto nevralgico. Tante città mi si sono rivelate durante le
mie marce a caccia di libri.
EEppure solo una parte degli acquisti più
importanti avviene in negozio. Un ruolo più importante spetta ai cataloghi. E
benché l'acquirente conosca un libro ordinato da un catalogo, il singolo
esemplare resta sempre una sorpresa e l'ordine un azzardo: accanto a delusioni
cocenti stanno felici ritrovamenti. Ricordo che un giorno ordinai un libro con
illustrazioni a colori per la mia vecchia raccolta di libri per l'infanzia solo
perché conteneva fiabe di Albert Ludwig Grimm e il suo luogo di pubblicazione
era Grimma (in Turingia). Ebbene: di Grimma era originario un altro libro di
favole (curato sempre da codesto Albert Ludwig Grimm) la cui copia in mio
possesso era con le sue sedici illustrazioni l'unica testimonianza degli esordi
del grande illustratore tedesco Lyser (vissuto ad Amburgo nella metà del secolo
scorso). Bene, la mia attenzione all'assonanza dei nomi fu giusta. Riscoprii
così i lavori di Lyser, specie un'opera (Linas Märchenbuch [Il
libro di fiabe di Lina]), ignota a tutti i suoi bibliografi, e degna di una
trattazione più dettagliata di questo mio primo accenno.
L'acquisizione di libri non è solo
questione di denaro o competenza. Neppur insieme bastano per creare una vera
biblioteca, che ha sempre un che di inafferrabile e di unico. Chi compri
tramite i cataloghi (nonché le qualità menzionate) deve aver fiuto. Date, nomi
di luoghi, formati, precedenti proprietari, rilegature ecc., tutto deve dirgli
qualcosa, in modo armonioso, non sfuso; dal nitore di tale armonia deve capir
se un libro fa per lui o no. Un'asta esige dal collezionista capacità
ulteriori. Al lettore del catalogo parla solo il libro e, se la provenienza
della copia è certa, tuttalpiù il precedente proprietario. Chi partecipi a
un'asta deve tener altrettanto in cale il libro e i concorrenti, nonché
mantenere i nervi saldi per non accanirsi nella lotta. Capita spesso di ritrovarsi
costretti a un pagamento eccessivo per aver offerto più di tutti, non tanto per
acquistare il libro quanto per vincere l'avversario. Invece è fra i ricordi più
belli del collezionista l'attimo in cui comprò un libro (a cui in vita sua mai
aveva rivolto un pensiero o un desiderio), solo perché stava abbandonato a sé
stesso in balia del mercato, per donargli la libertà come il principe fa con
una bella schiava ne Le mille e una notte. Infatti per il
bibliomane la libertà di tutti i libri sta dovechessia sulle sue scansie.
Monumento della mia esperienza più
eccitante ad un'asta sta ancor oggi nella mia biblioteca, su lunghe file di
volumi francesi, La pelle di zigrino di Balzac. Fu nel 1915
all'asta della collezione Rümann tenuta da Emil Hirsch, uno dei più grandi
conoscitori di libri ed insieme uno dei commercianti più distinti. L'edizione
in questione uscì nel 1838 a Parigi, place de la Bourse. Al prender in mano la
mia copia, vedo (nonché il numero della collezione Rümann) l'etichetta della
libreria in cui, oltre 90 anni fa, il primo acquirente lo comprò a circa un
ottantesimo del suo valore attuale. Cè scritto “Cartoleria I. Flanneau”. Bei
tempi, quando in una cartoleria si potevano ancora comprare opere così
preziose; infatti le siderografie di tale libro sono state disegnate dal più
gran disegnatore francese e realizzate dai più grandi incisori. Ma è la storia
dell'acquisto che racconto. Ero andato da Emil Hirsch per una visita
preliminare, mi ero fatto passare fra le mani quaranta o cinquanta volumi, questo
però con l'acceso desiderio di non farmelo scappare. Venne il giorno dell'asta.
Un caso volle che nell'ordine di licitazione apparisse (prima di questa copia
di La pelle dì zigrino) la serie completa delle sue illustrazioni,
in tiratura a parte su carta India. Gli offerenti sedevano a un lungo tavolo;
in diagonale di fronte a me sedeva l'uomo che attirò su di sé tutti gli sguardi
alla prima licitazione: il famoso collezionista monacense, barone Von Simolin.
Teneva a quella serie, aveva concorrenti; in breve, si giunse a un'aspra lotta
conclusasi con l'offerta più alta di tutta l'asta: più di 3000 marchi. Dal
fremito fra i presenti pare che niuno si aspettava una somma sì alta. Emil
Hirsch non ci fece caso e (per risparmiar tempo o per altre valutazioni)
nell'indifferenza generale passò al numero successivo. Disse il prezzo e io
(palpitante sapendo che nulla potevo contro i grandi collezionisti presenti)
feci un'offerta poco più alta. Il banditore allora, senza forzare l'attenzione
dell'assemblea, passò ad aggiudicare con la formula usuale «Più nessuno?» e i
tre colpi di martello (la cui intermittenza mi parve interminabile). Per me, da
studente, la somma era comunque eccessiva; ma la mattina successiva al monte di
pietà non fa parte di questa storia. Anzi preferisco narrar un fatto che
definirei l'aspetto negativo di un'asta. Fu a un'asta berlinese dell'anno
scorso. Veniva offerta una serie di libri eterogenea per qualità e argomento,
fra cui meritavano interesse solo certe opere rare di occultismo e di filosofia
della natura. Feci offerte per diverse di esse, ma per ognuna c'era un signore
delle file davanti in attesa di rilanciare e poi seguitare senza limiti. Avendo
ripetuto abbastanza questa esperienza, persi la speranza di acquistare il libro
che quel giorno mi stava più a cuore. Erano i Frammenti dell'opera
postuma di un giovane fisico che Johann Wilhelm Ritter pubblicò in due
volumi a Heidelberg nel 1810. L'opera mai è stata ristampata, ma ne stimo
l'introduzione (ove il curatore fa un necrologio dell'anonimo autore,
presentato come un amico defunto, e che non è altri che lui stesso) la più
importante prosa autobiografica del romanticismo tedesco. Nell'attimo in cui fu
annunciato il suo numero, mi venne un'illuminazione assai semplice: poiché la
mia offerta aggiudicava infallibilmente il libro all'altro, bastava che non
facessi alcuna. Mi trattenni; restai muto. Quanto avevo sperato successe:
nessun interesse, nessuna offerta; il libro fu ritirato. Stimai saggio far
passare qualche giorno. In effetti, quando mi presentai dopo una settimana,
trovai il libro dall'antiquario; la mancanza d'interesse dimostratagli mi tornò
utile nell'acquisto.
Quanti ricordi si affollano nella mente
avvicinandomi alla montagna di casse per trarne i libri alla luce, anzi al buio
notturno! Nulla potrebbe esporre il fascino di tale disfare più della
difficoltà d'interromperlo. Avevo iniziato a mezzogiorno ed era già mezzanotte
prima d'arrivar alle ultime casse. Al che mi finirono fra le mani due volumi
rilegati in sbiadito cartone, a rigore non destinabili a una cassa di libri:
due album di figurine che mia madre incollò da bambina, e che io ereditai. Sono
i semi di una collezione di libri per l'infanzia che cresce ancor oggi, benché
non più nel mio giardino. Non c'è biblioteca vivente che non ospiti un certo
numero di creature libresche provenienti da aree di confine. Non devono essere
album con figurine o album di famiglia, né manoscritti autografi o legature con
pamphlet o con testi religiosi; alcuni saranno affezionati a volantini o a
prospetti, altri a facsimili di manoscritti o a copie dattiloscritte di opere
introvabili; e di certo le riviste possono costituir i bordi prismatici di una
biblioteca. Ma per ritornar a quegli album: è proprio un'eredità il modo
migliore di farsi una collezione. Infatti l'atteggiamento del
collezionista verso gli oggetti della sua raccolta viene dal sentimento
d'obbligazione che lega il proprietario alla sua proprietà. Cioè è
l'atteggiamento dell'erede, nel senso più elevato. E la nota caratteristica di
una collezione sarà sempre rappresentata dalla sua ereditabilità. Dicendo
ciò, so (e dovete sapere) quanto il mio discorso sul modo di pensare proprio
del collezionare rafforzerà in molti di voi la convinzione dell'inattualità di
tale passione, la diffidenza verso il collezionista come tipo sociale. Nulla mi
è più estraneo che scuotervi da tale convinzione e da tale diffidenza. Faccio
solo notar una cosa: il fenomeno del collezionismo perde il suo senso al venir
meno del suo soggetto. Se le collezioni pubbliche possono esser meno
controverse dal punto di vista sociale e più utili da quello scientifico
rispetto a quelle private allora gli oggetti ottengono i loro diritti. So
che è in arrivo la fine pel tipo sociale del collezionista (di cui ho fatto un
po' da rappresentante ufficiale). Ma come dice Hegel: la
nottola di Minerva (la comprensione) spicca il volo solo di notte (a cose
fatte).
Solo estinguendosi il collezionista può
essere compreso.
La mezzanotte è passata da tempo e sto
davanti l'ultima cassa mezza vuota. Mi vengono pensieri diversi da quelli di
cui ho parlato finora. Non pensieri, ma immagini, ricordi. Ricordi delle città
in cui ho fatto tante scoperte: Riga, Napoli, Monaco, Danzica, Mosca, Firenze,
Basilea, Parigi; ricordi dei sontuosi locali di Rosenthal a Monaco, dello
Stockturm di Danzica dove abitava il defunto Hans Rhaue, dell'intanfita cantina
di libri di Süßengut a Berlino-Neukölln; ricordi delle stanze in cui tali libri
sono stati: la mia camera da studente a Monaco, la mia stanza a Berna; ricordi
della solitudine di Iseltwaid sul lago di Brienz e infine della mia camera di
ragazzo, da cui provengono solo quattro o cinque delle diverse migliaia di
libri stanno per torreggiare intorno a me. Felicità del collezionista, felicità
dell'uomo privato! Da nessun altro ci si è aspettato di meno e nessuno è stato
meglio di chi ha potuto seguitare a condurre la sua malfamata esistenza, sotto
una maschera à la Spitzweg1.
Perché nel suo intimo si sono insediati degli spiriti, o almeno degli
spiritelli, che fanno sì che per il collezionista (quello autentico intendo, il
collezionista come deve essere) il possesso sia il rapporto più
profondo che in assoluto si possa avere con le cose. Non che le cose siano
viventi in lui, bensì è lui che abita in loro. E io vi ho presentato una
delle sue dimore, i mattoni della quale sono i libri; e ora, com'è giusto, egli
vi si ritira.
Note
1. Carl Spitzweg è pittore
di quadretti di genere, piena espressione del Biedermeier. “À la Spitzweg” sta
per l'immagine del buon borghese pacificamente ritirato nella quiete
dell'ambiente domestico↩
Traduzione indiretta
dall'inglese di: Leonardo Maria
Battisti, febbraio 2020. (Fonte: Walter Benjamin: Illuminations, translated by Harry Zohn and
edited by Hannah Arendt,
Mariner Books, 2019)
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