venerdì 10 maggio 2024

Una memoria che parla di conflitto - Alessandro Portelli

 

Se l’Italia fosse davvero il paese immaginato nella sua lodata Costituzione, il monumento all’unità nazionale sarebbe a Roma, alle Fosse ArdeatineIn quelle cave di pozzolana c’è tutta l’Italia: furono uccisi italiani di tutte le regioni, da Trieste a Trapani, dal Piemonte alla Puglia, dalla Sardegna alle Marche. Furono uccisi uomini di tutte le classi sociali, dagli aristocratici piemontesi agli ambulanti del ghetto romano. Furono uccisi cristiani, ebrei, laici, atei. Furono uccisi comunisti, liberali, socialisti, ex fascisti, apolitici. Furono uccisi perché avevano resistito – con le armi o senza – all’occupazione nazista di Roma, o furono uccisi perché (come in tutte le stragi nazifasciste di quel tempo) la loro sola presenza sul territorio intralciava le operazioni militari. Uccisero tutti uomini (una donna, Celeste Rasa, la uccise una sentinella tedesca fuori delle grotte, forse perché aveva visto), e perciò a sopravvivere e ricordare sono rimaste soprattutto donne.

Dico unità d’Italia, ma di un’Italia che sta tutta dentro una storia europea. Una dozzina degli uccisi erano nati all’estero, e avevano creduto di trovare rifugio in Italia dai pogrom dell’Europa orientale. Ma secondo la Carta di Verona, il documento fondativo della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, alleata dei nazisti, non era italiano nessuno dei 72 ebrei uccisi alle Fosse Ardeatine: l’articolo 7 di quel documento, infatti, recitava: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». E come tali li hanno uccisi. In questo modo, come ha ricordato recentemente lo storico Lutz Klinkhammer, le Fosse Ardeatine (insieme alla Risiera di San Saba) segnano l’estensione della Shoah sul territorio italiano e fanno della nostra storia una parte della storia di tutti.

Tutto questo si riflette nella Costituzione nata dopo la Resistenza: un’idea di cittadinanza inclusiva e partecipata, di sovranità popolare basata sull’uguaglianza, di comunità internazionale fondata sul ripudio della guerra. Il problema è che fra quel generoso progetto democratico e la nostra realtà di oggi (ma anche negli ottant’anni trascorsi da allora) è venuto crescendo un divario che si avvicina ormai molto a un rovesciamento secco: chi governa l’Italia oggi sono gli eredi politici di quella repubblica mussoliniana il cui ministro degli Interni quel 24 marzo del 1944 consegnò ai nazisti una lista di 50 antifascisti da uccidere alle Fosse Ardeatine.

E allora il significato di quel monumento cambia: non è più un simbolo di unità ma di conflitto. Lo confermano, ancora di recente, i goffi tentativi di disinnescarlo da parte della destra «post»fascista al potere associandolo al vittimismo nazionalista («massacrati solo perché erano italiani»: Giorgia Meloni, presidente del Consiglio) o, per evitare di guardare in faccia la strage, spostando ancora una volta uno sguardo ignorante su via Rasella («hanno ucciso solo vecchi musicanti», Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato). Per questo, oggi più ancora che in passato, ricordare le Fosse Ardeatine non è questione di commemorazione cerimoniale. Come già il 25 aprile, dall’era di Berlusconi a oggi, al cuore di queste ricorrenze nazionali sta una domanda elementare: da che parte stai?

A questo infine serve la memoria: non a farci sentire bene e in pace con noi stessi (quanto siamo stati eroici, quanto abbiamo sofferto) ma a disturbarci, a smuovere il rimosso, a ribadire il negato, a dire la verità al potere. Per questo, la stagione che va dal 24 marzo al 25 aprile, dalle Fosse Ardeatine alla Liberazione è una stagione di lotta, che rinnova sul piano democratico della memoria, della storia, della partecipazione la dolorosa e sanguinosa lotta antifascista di allora. La domanda allora è: su che terreno si svolge oggi questa lotta? Non credo che basti ribadire la verità dei fatti (non erano anziani musicisti, avevano sui trent’anni ed erano armati di tutto punto) o ripetere chi aveva ragione, ottant’anni fa, fra i combattenti della libertà e i complici dei nazisti. Questa è una base di conoscenza e di scelta etica, ma, da sola, non basta a determinare le scelte e gli orientamenti della maggioranza. Oggi, quando informazione, memoria, oblio hanno tempi sempre più accelerati, ottant’anni – quattro quinti di secolo – rischiano di sembrare a molti un’altra epoca geologica.

Se vogliamo che la memoria delle Fosse Ardeatine e della Resistenza abbia un significato e un impatto sul presente, perciò, è necessario riconoscere e smascherare le modalità in cui il fascismo si ripresenta adesso, nella vita di tutti, al di là della memoria e persino degli orientamenti politici: non nelle sue vesti e simboli del passato, ma nella sua elementare essenza, il nudo dominio di chi ha il potere su chi non ce l’ha. Oggi fascismo vuol dire la legittimazione del potere dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, del capitale sul lavoro, dei capi sui subalterni, dei colonizzatori sui colonizzati, degli armati sui disarmati, dei proprietari sui profughi e sui senza casa, di chi possiede i media su chi è privo di ascolto, di chi inquina su chi respira (e persino, nella logica reazionaria del codice della strada rivisto da Salvini – dell’automobile sul pedone e sulla bicicletta!). Il 24 marzo, il 25 aprile, durano tutto l’anno perché tutto l’anno dobbiamo fare i conti con queste sopraffazioni quotidiane, ed è nella memoria di quei giorni che ritroviamo le origini e le ragioni, adesso e sempre, di questa resistenza.


Pubblicato su il manifesto del 24 marzo 2024

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