Se l’Italia fosse davvero il paese immaginato nella sua lodata
Costituzione, il monumento all’unità nazionale sarebbe a Roma, alle Fosse
Ardeatine. In quelle cave di pozzolana c’è tutta l’Italia: furono
uccisi italiani di tutte le regioni, da Trieste a Trapani, dal Piemonte alla
Puglia, dalla Sardegna alle Marche. Furono uccisi uomini di tutte le classi
sociali, dagli aristocratici piemontesi agli ambulanti del ghetto romano.
Furono uccisi cristiani, ebrei, laici, atei. Furono uccisi comunisti, liberali,
socialisti, ex fascisti, apolitici. Furono uccisi perché avevano resistito –
con le armi o senza – all’occupazione nazista di Roma, o furono uccisi
perché (come in tutte le stragi nazifasciste di quel tempo) la loro sola
presenza sul territorio intralciava le operazioni militari. Uccisero tutti
uomini (una donna, Celeste Rasa, la uccise una sentinella tedesca fuori delle
grotte, forse perché aveva visto), e perciò a sopravvivere e ricordare sono
rimaste soprattutto donne.
Dico unità d’Italia, ma di un’Italia che sta tutta dentro una storia
europea. Una dozzina degli uccisi erano nati all’estero, e avevano
creduto di trovare rifugio in Italia dai pogrom dell’Europa orientale.
Ma secondo la Carta di Verona, il documento fondativo della Repubblica Sociale
Italiana di Mussolini, alleata dei nazisti, non era italiano nessuno dei 72
ebrei uccisi alle Fosse Ardeatine: l’articolo 7 di quel documento, infatti,
recitava: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa
guerra appartengono a nazionalità nemica». E come tali li hanno uccisi. In
questo modo, come ha ricordato recentemente lo storico Lutz Klinkhammer, le
Fosse Ardeatine (insieme alla Risiera di San Saba) segnano l’estensione della
Shoah sul territorio italiano e fanno della nostra storia una parte della
storia di tutti.
Tutto questo si riflette nella Costituzione nata dopo la Resistenza: un’idea di cittadinanza
inclusiva e partecipata, di sovranità popolare basata sull’uguaglianza, di
comunità internazionale fondata sul ripudio della guerra. Il
problema è che fra quel generoso progetto democratico e la nostra realtà di
oggi (ma anche negli ottant’anni trascorsi da allora) è venuto crescendo un
divario che si avvicina ormai molto a un rovesciamento secco: chi
governa l’Italia oggi sono gli eredi politici di quella repubblica
mussoliniana il cui ministro degli Interni quel 24 marzo del 1944
consegnò ai nazisti una lista di 50 antifascisti da uccidere alle Fosse
Ardeatine.
E allora il significato di quel monumento cambia: non è più un simbolo di
unità ma di conflitto. Lo confermano, ancora di recente, i goffi tentativi di disinnescarlo da
parte della destra «post»fascista al potere associandolo al vittimismo
nazionalista («massacrati solo perché erano italiani»: Giorgia Meloni,
presidente del Consiglio) o, per evitare di guardare in faccia la strage,
spostando ancora una volta uno sguardo ignorante su via Rasella («hanno ucciso
solo vecchi musicanti», Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato). Per
questo, oggi più ancora che in passato, ricordare le Fosse Ardeatine non è
questione di commemorazione cerimoniale. Come già il 25 aprile, dall’era di
Berlusconi a oggi, al cuore di queste ricorrenze nazionali sta una domanda
elementare: da che parte stai?
A questo infine serve la memoria: non a farci sentire bene e in
pace con noi stessi (quanto siamo stati eroici, quanto abbiamo sofferto) ma a
disturbarci, a smuovere il rimosso, a ribadire il negato, a dire la verità al
potere. Per questo, la stagione che va dal 24 marzo al 25 aprile, dalle
Fosse Ardeatine alla Liberazione è una stagione di lotta, che rinnova sul piano
democratico della memoria, della storia, della partecipazione la dolorosa e
sanguinosa lotta antifascista di allora. La domanda allora è: su che terreno si
svolge oggi questa lotta? Non credo che basti ribadire la verità dei fatti (non
erano anziani musicisti, avevano sui trent’anni ed erano armati di tutto punto)
o ripetere chi aveva ragione, ottant’anni fa, fra i combattenti della libertà e
i complici dei nazisti. Questa è una base di conoscenza e di scelta etica, ma,
da sola, non basta a determinare le scelte e gli orientamenti della
maggioranza. Oggi, quando informazione, memoria, oblio hanno tempi sempre più
accelerati, ottant’anni – quattro quinti di secolo – rischiano di sembrare a
molti un’altra epoca geologica.
Se vogliamo che la memoria delle Fosse Ardeatine e della Resistenza abbia un
significato e un impatto sul presente, perciò, è necessario riconoscere e smascherare
le modalità in cui il fascismo si ripresenta adesso, nella vita di tutti, al di
là della memoria e persino degli orientamenti politici: non nelle sue vesti
e simboli del passato, ma nella sua elementare essenza, il nudo dominio di chi
ha il potere su chi non ce l’ha. Oggi fascismo vuol dire la
legittimazione del potere dei ricchi sui poveri, degli uomini sulle donne, dei
bianchi sui neri, del capitale sul lavoro, dei capi sui subalterni, dei
colonizzatori sui colonizzati, degli armati sui disarmati, dei proprietari sui
profughi e sui senza casa, di chi possiede i media su chi è privo di ascolto,
di chi inquina su chi respira (e persino, nella logica reazionaria del
codice della strada rivisto da Salvini – dell’automobile sul pedone e sulla
bicicletta!). Il 24 marzo, il 25 aprile, durano tutto l’anno perché tutto
l’anno dobbiamo fare i conti con queste sopraffazioni quotidiane, ed è nella
memoria di quei giorni che ritroviamo le origini e le ragioni, adesso e sempre,
di questa resistenza.
Pubblicato su il manifesto del 24 marzo 2024
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