Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.
Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York
hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia
ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato
studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone
all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti
si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università
della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta
accampamenti in tanti altri edifici accademici.
Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro
che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono
stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i
migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane,
un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali,
c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans.
Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando
il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un
piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio
degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono
profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile
nella storia dell’ebraismo. I canti risuonavano forti, cantati da una moltitudine
che faceva eco ai “Viva la Palestina”. Né a Philadelphia né in nessun
altro campus ha sentito il minimo insulto alla condizione di ebreo o di
israeliano, nonostante ciò che dicono i media.
“Qui c’è una parte della generazione di Occupy”, dice a Brecha un
docente di origine peruviana di nome George, riferendosi al movimento Occupy
Wall Street. Aggiunge che queste sono le mobilitazioni studentesche più
grandi dalla guerra del Vietnam, un famoso commento che ormai è diventato
di buon senso. Un piccolo gruppo chiede come furono smantellate le enormi
proteste di Occupy Wall Street nel 2011, quando ci furono grandi manifestazioni
in 52 città contro l’1 per cento più ricco della popolazione. “La repressione
fu molto forte, con moltissimi arresti”, concludono in molti, ma una voce
aggiunge che ci furono anche molte dispute interne tra le varie correnti della
sinistra radicale, nella quale anarchici e marxisti inaspriscono le
mobilitazioni fino a consumarle.
La pietra nello stagno
La Columbia ha fatto il primo passo, solido, potente, con un gran numero di
studenti manifestanti, ma la reazione a catena è stata impressionante. In due settimane sono
sorti più di 100 accampamenti e giorni dopo la cifra si è andata
moltiplicando, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le occupazioni
in California sono in parte diverse da quelle della costa orientale. La più
numerosa e simbolica, quella del campus dell’Università di California, Los
Angeles (UCLA), ha mostrato un ampio nucleo militante molto ben organizzato,
capace di garantire cibo e assistenza sanitaria a centinaia di accampati, ma
con alcune caratteristiche simili a quelle dell’accampamento della Columbia.
L’ingresso dei visitatori solidali era a carico di un gruppo di sicurezza
con volti coperti e criteri stabiliti per evitare contrattempi, perché piccoli
gruppi sionisti spesso provocavano e aggredivano i campeggiatori, con
l’atteggiamento passivo e complice della polizia. Quando è stato annunciato lo
sgombero della fortezza in cui si era trasformato il campo della UCLA, barricato
da tutte e quattro i lati, i manifestanti hanno deciso di dividersi secondo tre
colori: con il rosso chi non aveva problemi ad essere arrestato, con il verde o
giallo chi non voleva. Nella lunga notte dello sgombero la polizia ha
arrestato 200 giovani, circondati da mille mani solidali che gli portavano da
mangiare, che manifestavano fuori dai commissariati contattando media o
avvocati difensori. Una meraviglia di organizzazione in cui risaltano
vastissime reti di solidarietà quasi spontanee, sorte dal senso comune
dell’autodifesa non violenta.
È stato sorprendente arrivare fino all’Occidental College, un’università
relativamente piccola in una zona benestante della città, sopra una collina.
Più di cento tende in un ambiente rilassato, senza problemi con le autorità
accademiche né con la polizia, che non si è mai presentata. L’unica guardia di
sicurezza indicava ai visitatori dove si trovava l’accampamento. Invece la
California State University, in un lontano quartiere di lavoratori e migranti,
mostrava uno stile simile a quello delle grandi occupazioni, anche se con meno
partecipanti.
Nei fatti ogni accampamento è un mondo a parte secondo il settore sociale a
cui appartengono gli studenti, anche se è evidente che hanno molto in comune,
nella forma come negli obiettivi. Uno di questi è il “disinvestimento”,
disinvestire in tutte le aziende che fanno affari con Israele e con i
fabbricanti di armi, obiettivo che alcune università sono vicine a conseguire e che è stato
una delle richieste centrali oltre il cessate il fuoco.
Come evidenzia l’analisi del portale anarchico CrimethInc, “le
università dipendono dai finanziamenti e dalle relazioni di ricerca con
militari, produttori di armi e sionisti”. In accordo con il Dipartimento di
Educazione statunitense, negli ultimi vent’anni un centinaio di università
hanno reso note donazioni da Israele o contratti con il paese per il valore di
375 milioni di dollari, una cifra che un’analisi di Associated Press considera
molto sottostimata rispetto al valore reale ancora da calcolare. La
quantità di denaro investito dalle università degli Stati Uniti in aziende e
progetti israeliani dell’industria bellica e di sicurezza è al momento
sconosciuta. Gli studenti dell’Università del Michigan affermano che la loro
istituzione invia più di 6.000 milioni di dollari a manager di investimento
legati a imprese o contraenti israeliani. Secondo CrimethInc,
che segue da vicino il movimento delle occupazioni, “la richiesta essenziale di
vedere i palestinesi come esseri umani è incompatibile con i programmi del
governo e delle università statunitensi”, perché questo paese “ha bisogno di
Israele come socio strategico per mantenere la sua presenza in Medio Oriente”.
Mentre sgomberavano la UCLA, in altri atenei si preparavano per gettarsi nella
mischia, come a Binghamton e Santa Cruz, quasi agli estremi di questa
inafferrabile geografia. Inizia a nascere un sentimento comune ai
giovani di rifiuto del massacro indiscriminato di bambini e bambine, che si
esprime appena ve n’è possibilità, e le possibilità non sono poche
nell’edificio lacerato del potere statunitense. In alcuni quartieri di New
York ci sono più bandiere palestinesi che nelle città dell’America Latina. Nel
New Jersey per esempio, anche nelle periferie come Paterson, città antesignana
dell’industrializzazione, oggi abitata da peruviani, asiatici e arabi. Le kefiah fanno
parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade della Grande
Mela.
Lo specchio del Vietnam
Le proteste contro la guerra in Vietnam, in cui gli Stati Uniti hanno avuto
un ruolo decisivo impiegando mezzo milione di soldati, sono iniziate nel 1963 e
l’anno seguente centinaia di giovani iniziarono a bruciare in pubblico le
cartoline di precetto per rifiuto al reclutamento. Con gli anni gli studenti sono
diventati il centro della protesta, a cui si sono unite madri di soldati,
afroamericani che protestavano contro la segregazione razziale, fino ai
principali ambiti della società, tra i quali spiccano i militari veterani.
Ci furono enormi azioni di massa, come quella del 21 Ottobre 1967, quando
100 mila persone si riunirono davanti al monumento a Lincoln a Washington e più
tardi almeno altre 50 mila circondavano il Pentagono. Nell’aprile del 1971
mezzo milione di persone marciò a Washington contro il coinvolgimento degli
Stati Uniti in Vietnam. L’escalation di mobilitazioni giovanili cambiò
il paese, che si polarizzò tra chi appoggiava e chi rifiutava la
guerra. Il movimento ebbe una durata notevole e una decadenza lunga e
turbolenta. Nel 1966 si era già esteso all’intero paese e a febbraio
di quell’anno 100 militari tentarono di entrare nella Casa Bianca per
restituire al presidente le loro medaglie. L’opposizione alla guerra continuò a
raccogliere seguaci, a tal punto che la maggioranza assoluta degli statunitensi
esprimeva il suo rifiuto nei sondaggi. Nonostante la repressione e
l’infiltrazione di agenzie statali come l’FBI e la CIA, le manifestazioni non
smisero di crescere e di espandersi, giocando un ruolo a parte nel formarsi di
una coscienza globale contro la guerra in Vietnam. Artisti come Joan
Baez e Bob Dylan, atleti come Muhammad Ali e moltissime altre note personalità
contribuirono a espandere la coscienza del fatto che il loro paese non avrebbe
dovuto combattere nel sudest asiatico.
Negli anni della guerra migliaia di reclute disertarono (le
stime oscillano tra 80 mila e 206 mila); si calcola che mezzo milione
di soldati abbandonò l’esercito e altro mezzo milione si licenziò
senza onori, per disobbedienza. Cifre allucinanti che portarono la Casa
Bianca a sospendere il servizio militare obbligatorio nel 1973. L’appoggio
alla guerra cadde dal 61 per cento nel 1965 al 28 per cento nel 1971, ma alcuni
fatti mostrano l’entità dell’opposizione: “Nel 1969, durante la cerimonia di
apertura del corso della prestigiosa Brown University, due terzi dei laureati
diedero le spalle a Henry Kissinger quando si alzò per pronunciare il
discorso”, ha scritto lo storico Howard Zinn.
È evidente che la memoria di questo enorme ciclo di proteste aleggia
sull’attivismo giovanile che trabocca dalle università. Però non è giusto fare
troppi parallelismi o rallegrarsi troppo. L’1 per cento della popolazione
quest’anno si sta giocando troppo. La vicinanza delle elezioni di Novembre sta
accelerando i tempi della repressione, come si vede in questi giorni in cui
sono state arrestate più di duemila persone che manifestavano nelle
università. Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento
mediatico faranno retrocedere il movimento. Il percorso di queste settimane e
già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte.
Per gli analisti più critici, come il citato CrimethInc, gli
Stati Uniti vivono una situazione inedita per l’alleanza tra repubblicani e
democratici in sostegno di Israele. “Questo crea una situazione che
potrebbe essere unica tra tutte le proteste di massa della storia recente”,
afferma il portale. Come esempio cita la ribellione davanti all’omicidio di
George Floyd nel 2020, soffocato dal ginocchio di un agente bianco. I grandi
media e i democratici hanno tollerato le proteste senza censurarle o
reprimerle, perché “pensavano di poterne approfittare per costruire una base
elettorale contro Trump durante l’anno elettorale”.
Ottobre nello specchietto retrovisore
La percentuale di votanti che approva la gestione del presidente Biden è la
più bassa mai registrata, secondo Gallup. Con il 38,7% di sostegno resta sotto
anche a Bush padre, che aveva il 41,8% e ha potuto governare per un solo
mandato. Se si osserva la grafica, è troppo piatta, e secondo l’impresa di
opinione pubblica la popolarità di Biden “non mostra segni di aumento” (Gallup
News, 26-IV-24). La stessa impresa sostiene che l’opposizione a Biden
continua a crescere e si situa già nel 58% dell’elettorato. Nel frattempo
l’indice di fiducia economica è meno del 29% e solo il 23% crede che le cose
vadano bene negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi l’immigrazione è considerata
il primo problema e a livello finanziario l’inflazione è la preoccupazione più
lontana dell’elettorato. Il fatto più noto però è che solo il 27%
approva il suo coinvolgimento nella crisi tra Gaza e Israele. Una parte
sostanziale delle critiche vengono dal suo stesso partito. La settimana scorsa
88 membri del Partito Democratico al Congresso hanno firmato una lettera diretta
al presidente in cui denunciano gli ostacoli imposti da Israele agli aiuti
umanitari nella striscia di Gaza, affermando che ci sono sufficienti prove per
dire che la legge statunitense è stata violata.
In più aleggia il fantasma delle primarie nel Michigan, lo scorso Febbraio,
quando 100 mila votanti democratici, per la maggioranza di origini arabe, oltre
a giovani e progressisti, hanno voltato le spalle a Biden per via del suo
appoggio incondizionato a Israele. “Storicamente, i capi di governo che vogliono
essere rieletti con indici di approvazione inferiori al 50% poco prima delle
elezioni, hanno perso”, evidenzia Gallup. Il ruolo degli elettori indipendenti
sarà decisivo alle presidenziali di Novembre, oltre a un 10% di democratici che
non voterebbe Biden anche se questo significasse il ritorno di Trump.
Con il passare dei giorni iniziano ad apparire dati rivelatori
sull’atteggiamento della polizia, come il caso dello sgombero alla UCLA. “La
notte di martedì un gruppo di persone in maschera ha circondato l’accampamento,
lanciando petardi e attaccando violentemente gli studenti. Studenti e
giornalisti di diverse testate hanno raccontato che le forze di sicurezza
assunte dell’ateneo si sono rinchiuse in edifici là vicino e che la polizia è
stata a guardare per ore prima di intervenire” (The Guardian,
2-V-24). Addirittura il pro Israele e lealista New York Times ha
dovuto riconoscere, dopo aver revisionato 100 video, che “dei
contromanifestanti” sionisti con indosso maschere bianche hanno attaccato l’accampamento
pro Palestina per cinque ore davanti alla passività delle forze dell’ordine.
Ovviamente il quotidiano newyorchese non ha detto che i violenti erano
sionisti, ha detto solo che erano contro i manifestanti. The Times of
Israel, edito a Gerusalemme, titola: “Studenti ebrei dicono che la violenza
pro Israele nel campo di protesta della UCLA ne ha indebolito la difesa”
(2-V-24). “La federazione ebraica di Los Angeles si è fatta portavoce del
messaggio in una rara dichiarazione in cui critica le azioni dei sionisti nel
campus”, scrive il quotidiano, e aggiunge che ora il prestigio di chi difende
Israele è caduto molto in basso. Fatti come quelli della UCLA pongono due
questioni fondamentali: che neanche i media più rispettabili possono più
nascondere le atrocità del potere, e che il discorso di Biden che accusa gli
studenti di violenza è molto lontano dalla realtà.
[10 maggio 2024]
[Traduzione per Comune di Leonora Marzullo]
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