I portuali dicono no a
questo sistema di affari e sfruttamento sulle banchine. E hanno ragione – Giorgio
Cremaschi
Dopo la corruzione la svendita. La vicenda
criminale del porto e del sistema politico ed imprenditoriale genovese, del
partito unico degli affari che imperversa ovunque, ripropongono un modello che
più volte abbiamo sperimentato e vissuto nel paese, sempre con gli stessi
risultati. Pessimi. Il sistema
industriale e dei servizi delle Partecipazioni Statali subì scandali e ruberie
e, anche usando l’indignazione pubblica verso questa corruzione, fu
privatizzato. Oggi il poco che resta di quel sistema, che spesso era la parte
tecnologicamente più avanzata del paese, è in mano a multinazionali.
La sanità pubblica fu colpita da affari illeciti della classe politica, si
affermò quindi la sua aziendalizzazione sul modello dell’impresa capitalista e
si aprì la porta alla sanità privata. Il risultato
è che la corruzione è rimasta, ma la sanità pubblica no.
La linea che ha adottato tutta la classe politica in questi decenni, di
fronte al rapporto corrotto tra imprenditori e politici, non è mai stata quella
di colpire le radici economiche e di potere della corruzione, bensì quella
di colpire il sistema pubblico. Una razionale follia
liberista, come se gli abitanti di un condominio, di fronte alle ruberie
dell’amministratore, decidessero di buttar giù la casa invece che licenziare il
ladro e definire nuove regole contro i furti.
I porti sono un bene comune, come le spiagge, le
strade, l’acqua, come tutto ciò che secondo l’economia rappresenti un “monopolio naturale”, cioè un bene unico che
deve essere usato da tutti e che, in quel luogo e secondo quella esigenza, non
ha alternative. O mangi questa minestra o salti dalla finestra dice il
proverbio. Per questo al capitalismo piacciono immensamente i beni comuni,
perché una volta acquisiti danno luogo ad un profitto sicuro, senza vera
concorrenza. La competizione tra i capitalisti c’è, ma per acquisire il
monopolio, non dopo che se lo siano accaparrato. E per
questa competizione, e per trasformare un bene comune in monopolio privato, si
sprecano le mazzette ai politici.
I porti italiani erano pubblici fini al 1994. All’inizio di
quell’anno il governo Ciampi, uno dei responsabili dello smantellamento
liberista del sistema pubblico, varò la legge 84, che aprì
la via alla privatizzazione dei porti. In realtà quella legge maturava da
tempo, sotto la doppia pressione del sistema liberista europeo e del padronato
italiano. Nei porti pubblici il lavoro dei portuali era rigorosamente
regolamentato e soprattutto a Genova ogni
imprenditore doveva fare i conti con il sistema di tariffe e diritti che ruotava attorno alla
compagnia dei portuali, la CULMV.
Negli anni Ottanta, con la complicità e il consenso di Cgil Cisl Uil e dell’ala
migliorista del Pci, era cominciato l’attacco al monopolio
del lavoro della compagnia e dei sindacati dei portuali,
accusati di impedire il libero mercato. La Compagnia, antica istituzione
egualitaria che trattava alla pari coi padroni, doveva diventare un’impresa
capitalista che si confrontasse alla pari con le altre imprese… e ovviamente lo
sfruttamento del lavoro doveva accompagnare il trionfo del mercato.
Alla fine, come su tutti gli altri fronti del lavoro, liberisti e padroni
vinsero, anche grazie alla promessa rilanciata dai mass media che mercato e
flessibilità avrebbero portato lavoro ben pagato e maggiore benessere.
Oggi, come da tempo denunciano i portuali del Calp, il collettivo autonomo dei lavoratori del porto
che ha deciso di opporsi al sistema di affari e sfruttamento, nelle banchine
c’è la giungla. Tra appalti, subappalti, contratti a giornata, si viene licenziati la sera e riassunti al mattino,
interinali, precari di tutti tipi senza diritti e con paghe vergognose. Questo
mentre il lavoro nei porti diventa sempre più duro e insicuro, poco tempo fa
c’è stato un omicidio di lavoro, e prima una strage su una torre investita da una
nave in manovra.
L’Autorità del Porto, che secondo la legge del 1994 avrebbe dovuto essere
il controllo pubblico sui processi di privatizzazione, come abbiamo visto
nell’inchiesta in corso è diventata il crocevia degli affari.
Non c’è da stupirsi, quando i profitti delle imprese private diventano
prioritari per il potere pubblico, anche quest’ultimo finisce per fare affari.
Ma non è finita. Nel 2023 il ministro Tajani ha
annunciato che il governo dovrà realizzare la privatizzazione totale di porti.
Questa ha un esempio cavia nel porto del Pireo, in Grecia, che quel paese è
stato costretto a vendere alla multinazionale cinese Cosco, quando il governo
greco doveva obbedire ai memorandum usurai della Troika di Ue, Bce e Fondo
Monetario Internazionale.
Sulla stampa specializzata ci sono già “esperti” del settore che spiegano
che la Grecia ha fatto un colossale affare con il suo
porto e che dovremmo farlo anche noi. Naturalmente la fedeltà euroatlantica
impedirà di vendere i nostri porti alla Cina, ma ci sono la danese Maesnk, la
svizzera Msc e altre multinazionali nord atlantiche già pronte ad intervenire.
E quando i porti saranno tutti privati non ci sarà più bisogno della corruzione
dei politici per ungere gli affari, i profitti arriveranno da
soli.
Vedremo cosa faranno i “sovranisti” della Lega, che con Salvini e Rixi
stanno preparando la riforma dei porti.
Finora il film è quello di sempre: distruzione del pubblico, conseguente
commistione di affari tra classe politica indecente e imprenditoria stracciona
e infine tutto il potere alle multinazionali.
La parte più attiva e consapevole dei lavoratori portuali da anni si batte contro questa deriva, e contro le complicità
politiche e sindacali che la consentono. I portuali del Calp sono quelli che
hanno scioperato contro le navi cariche di armi e contro lo sfruttamento
selvaggio nel porto e per questo hanno subìto ostracismo, minacce, persino repressione poliziesca. E il sistema di potere
consociativo del porto non vuole testimoni scomodi nè tantomeno contestazioni.
La lista, corredata da più di duecento firme certificate di lavoratori,
presentata dalla Usb per le elezioni delle rappresentanze sindacali nella più
importante impresa del porto, con un cavillo assurdo è stata rigettata, di
comune accordo, da padronato e Cgil Cisl Uil.
Il sistema si difende, ma le inchieste della magistratura dimostrano che i
portuali hanno avuto e hanno ragione. O
si ricostruisce il sistema pubblico dei porti e con esso la dignità del lavoro,
o gli sporchi affari, magari sotto altri nomi e bandiere, continueranno.
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