Sul numero che trovate oggi online di Diogene, di venerdì 17 oltretutto, abbiamo dedicato molto spazio alla libertà di stampa. Avviso subito che non apparteniamo alla schiera di coloro che vedono fascismo e dittatura dappertutto, ma è nostro dovere, proprio per la natura del nostro quotidiano e dell’agenzia stampa a esso collegata, denunciare la scomparsa dell’elemento principale del nostro lavoro: le notizie.
Ciò che accade è diverso dalla semplice censura. Censura è quando
volontariamente si omettono informazioni. Ne sono protagonisti, ad esempio, i
telegiornali nazionali, che hanno un concetto del diritto alla protesta molto
preciso: non ne parlano. Anzi, senza timore per il ridicolo, è il governo, il
governo non antifascista, per sua stessa definizione, che grida alla censura.
La scomparsa delle notizie è invece un problema culturale, geografico ed
economico che va oltre quello politico. E forse è anche più difficile da
affrontare. Su Diogene non trovate quasi mai le prime quattro o cinque notizie
che hanno tutti i giornali. non avrebbe molto senso, a meno che non decidiamo
di offrire una nostra lettura particolare su di un fatto relativo al nostro
ambito d’interesse, ovvero la povertà.
In compenso la nostra giornata inizia con la lettura di un centinaio di
giornali da tutto il mondo e di una decina di agenzie internazionali. Provate a
discutere di premierato in italia sapendo quanto accade in Nuova Caledonia, per
esempio. Magari pensando che il colonialismo sia un frutto del novecento,
mentre una delle democrazie più avanzate in Europa è in realtà ancora oggi una
potenza coloniale.
Che la Nuova Caledonia sia “una proprietà extratteritoriale francese”
(“collettività francese d’oltremare sui generis”, la definisce Wikipedia) non è
molto chiaro dai giornali. Come non è molto chiaro che in un paese dove vige il
semipresidenzialismo, che in qualche modo assomiglia al confuso progetto di
Giorgia Meloni e del suo Gran Consiglio, il “capo”, in questo caso il
presidente, può inviare sull’isola le forze armate per sedare la ribellione
senza consultare il Parlamento. Potrebbe farlo in italia se passasse il
progetto Meloni?
Sarebbe uno spunto interessante per parlare di politica. Invece no. Perchè
nelle redazioni hanno appreso dell’esistenza della Nuova Caledonia dalle
agenzie stampa. Si generalizza naturalmente, e non è giusto, naturalmente, ma
aprite i sei quotidiani principali italiani e provate a trovare qualche
ragionamento che vada oltre la violenza della protesta.
Soltanto in rete sono reperibili centinaia di giornali da ogni parte del mondo. Di notizie, che renderebbero diversi e caratterizzati i giornali italiani e con un pubblico più largo, che significa soldi, ce ne sono migliaia. Ma passano sotto gli occhi di redattori e caporedattori come se il resto del mondo non esistesse.
Così come per un Assange che finisce dietro le sbarre ci sono altri cento
Assange in tutto il mondo che sono abbandonati a se stessi sempre per la
pigrizia di non cercare le notizie. Oggi su Diogene parliamo del caso di David McBride finito in una
galera australiana per aver rivelato i crimini commessi in Afghanistan
dall’esercito di Canberra. Perchè se Assange è il simbolo di una lotta più
generale, sono proprio gli Assange che nessuno conosce quelli da far conoscere
e tutelare all’opinione pubblica.
Difficile, ad esempio, immaginare che nell’ex democratica Inghilterra
diventi reato criticare la sentenza di un processo penale. Ne abbiamo parlato in un articolo dove raccontiamo
l’incredibile vicenda del servizio dello statunitense, nonchè prestigioso, New
Yorker, che ha sollevato dubbi su un processo recente, con il risultato che
quella pagina non è più consultabile dal Regno Unito perchè la legge lo
permette. Nella patria di John Locke.
Se queste due notizie, due tra tante, ci ricordano quanto si stia
stringendo intorno al collo dei giornalisti il cappio del controllo della
politica e della magistratura sul loro lavoro, e non soltanto in Italia come
abbiamo visto, dovremmo essere incentivati ancora di più a guardarci intorno e
a raccontare ciò che vediamo.
Ma nelle redazioni impera oggi, al di là delle scelte degli editori, una
tipologia di stronzetti che confonde il marketing con il giornalismo, e
soprattutto confonde la propria limitata conoscenza del condominio in cui vive
con il mondo. Il layout è più importante delle notizie. L’articolo deve essere
breve. Sulla pagina devono esserci le stesse notizie del quotidiano
concorrente. Rapporti confidenziali con le Procure a parte.
La povertà fa tristezza e la omettono, tranne per il barbone che vince la
lotteria e fa simpatia, ci redime. L’informazione scientifica viene sempre più
usata a scopo terroristico e non di conoscenza. Ma soprattutto, riprendendo il
tema portante del ragionamento, cercando di piegare le notizie a un piccolo angolo
di terra anzichè rapportarle al mondo.
Te lo insegnano appena entri in una scuola di giornalismo, che un morto
occidentale ne vale almeno un centinaio nel sud-est asiatico. Il piccolo
problema è che nel sud-est asiatico si sta riorganizzando l’intera produzione
mondiale di beni e finanche di servizi, informatici e finanziari, e magari
parlarne aiuterebbe a capire anche cosa accade a Corviale o a Tor Bella Monaca
o al Giambellino o a Rogoredo.
Soluzioni non ne abbiamo, se non quella di fare ogni giorno Diogene,
provando a dare un respiro globale ai problemi locali. Ma sarebbe onesto prima
di parlare di censura del potere interrogarsi sull’autocensura dei sudditi, che
porta alla mancanza di una dialettica che contrapponga le redazioni alle
direzioni sui contenuti.
Il giornalista e partigiano Massimo Rendina, che ebbe nell’Anpi molti ruoli
apicali, raccontava sempre che la prima cosa che facevano i partigiani quando
entravano nelle città liberate era di aprire un giornale. Era quello secondo
lui il segnale culturale di maggiore discontinuità con la dittatura. Oggi
invece se ne chiudono sempre di più. Tirate voi le conclusioni.
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