Abbiamo sempre sottolineato che questa enorme crisi geopolitica in corso abbia una origine di tipo economico e monetario. Del resto solo le persone ingenue possono credere che agenti razionali come sono gli USA (o per meglio dire le sue élites) possano rischiare la distruzione di buona parte del mondo a causa di una guerra termonucleare per delle mere rivendicazioni territoriali peraltro relative a paesi neanche particolarmente ricchi e importanti come l'Ucraina. Si può rischiare il mondo per quale stato – tra Ucraina e Russia – avrà la sovranità su Mariupol o Krivoy Rog? Senza offesa per queste ridenti e senza dubbio graziose cittadine ipotizzare che si possa rischiare di uccidere miliardi di persone per quale stato debba controllarle è letteralmente impensabile.
Molto più congrua e razionale invece è l'ipotesi che il vero “Nodo di
Gordio” che sta portando il mondo sull'orlo del baratro sia di natura economica
e monetaria.
Gli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale hanno assunto il
ruolo prima di finanziatore di ultima istanza per consentire la ricostruzione
delle aree del mondo distrutte dal conflitto e poi, successivamente, hanno
assunto il ruolo di “compratore di ultima istanza” (uso un'espressione molto
felice coniata dall'economista Marcello De Cecco), ovvero sia, si sono
incaricati il ruolo di assorbire le merci in eccesso prodotte nel resto del
mondo inondando contemporaneamente il mondo di dollari. Divisa americana
peraltro ben accetta da tutti i paesi del mondo essendo l'unica ad essere convertibile
in oro (come da accordi di Bretton Woods) e conseguentemente utilizzata come
moneta di scambio di tutti i commerci internazionali; anche quelli dove gli USA
non c'entravano nulla, per intenderci.
E' chiaro che un simile meccanismo poteva consentire un equilibrio
economico-monetario tra diverse aree del mondo e diverse nazioni fino a quando
gli USA avessero mantenuto il loro vantaggio tecnologico che consentiva loro di
rimanere competitivi sfornando nuovi prodotti e servizi e così riequilibrare i
conti con l'estero a partire dalla bilancia commerciale. Le prime avvisaglie
della rottura del meccanismo descritto le abbiamo avute negli anni 80 del
secolo scorso con l'esplosione dell'export giapponese ottenuto grazie
all'innovazione tecnologica legata soprattutto alla robotica e al settore
meccanico in generale. Lo squilibrio come sappiamo, è stato relativamente
sanato grazie ai cosiddetti Accordi del Plaza del Settembre del 1985 con i quali si decise la
rivalutazione dello Yen giapponese rispetto alle altre divise (ed in
particolare del Dollaro USA) consentendo così di decelerare la
competitività del sistema produttivo nipponico rispetto a quella dei sistemi
produttivi del resto del mondo.
Nel corso degli anni, dopo questi accordi, comunque emersero altri
competitors che riuscirono ad erodere la competitività americana e che dunque
di fatto minarono il sistema degli scambi internazionali “dollarocentrico”. Ci
riferiamo da un lato alla Germania e ai paesi nordeuropei che grazie all'unione
monetaria europea e al costo energetico bassissimo grazie all'import di gas
dalla Russia riuscirono a guadagnare enormi mercati di sbocco (le prime vittime
furono i paesi del sud Europa della UE) ed enorme competitività a livello
globale e, dall'altro lato, alla Cina assisa al ruolo di fabbrica del mondo e
al Giappone, alla Corea del Sud e a Taiwan sempre drive importantissimi per
quanto riguarda l'innovazione tecnologica.
Come si può vedere, siamo di fronte ad una schiera di competitors degli USA
temibile e che, infatti, è riuscita ad erodere completamente la competitività
del Made in USA e a devastare – nel corso dei decenni – i suoi conti con
l'estero fino a farle raggiungere la spropositata cifra di quasi ventimila
miliardi di posizione finanziaria netta negativa dei nostri giorni. Una cifra
che obbliga gli USA da anni a rifornirsi per una cifra equivalente dai mercati
finanziari esteri per ristabilire l'equilibrio fondamentale tra risparmi e
investimenti (R = Y).
Naturalmente fino a quando si trovano investitori disposti a finanziare
questo squilibrio le cose apparentemente vanno bene; il problema emerge in
tutta la sua virulenza quando il paese affetto da questo male si vede i
cosiddetti “investitori internazionali” voltargli le spalle. Cosa questa che è
esattamente ciò che sta avvenendo, almeno in parte, agli USA: la Russia non
investe più negli USA (anche per ragioni legate al regime sanzionatorio
susseguito alla guerra in Ucraina), la Cina ha fermato platealmente gli
afflussi di nuovi capitali verso gli USA, così come allo stesso modo stanno
mordendo il freno gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita entrati clamorosamente
nell'orbita dei BRICS.
Una situazione drammatica che gli USA hanno fino ad ora tamponato grazie
all'emissione di nuovi dollari stampati dalla FED e utilizzati per acquistare
soprattutto titoli di stato USA di nuova emissione e ormai snobbati da molti
investitori internazionali.
Una verità questa non più nascondibile, tanto è vero che, proprio ieri il Fondo Monetario Internazionale non ha più potuto esimersi
dal sottolineare che il Deficit USA pone seri rischi all'economia mondiale
perché aumenta l'inflazione a livello globale. Proprio questo
rimando all'inflazione lascia intendere che il problema è la stampa di nuovi
dollari per l'acquisto di titoli di stato da parte della FED (o del sistema
bancario USA) il nodo del problema non più eludibile. Il FMI a mio avviso per
ragioni politiche indora la pillola amara somministrata agli USA sottolineando
che anche la Cina dovrebbe frenare la propria spesa pubblica, dimenticandosi
però di dire che Pechino non ha bisogno di nuovi Yuan emessi dalla banca
centrale per finanziarlo, avendo una posizione finanziaria netta positiva per
migliaia di miliardi di dollari, e conseguentemente risparmio libero da
investire a livello domestico.
Ciò che comunque lascia particolarmente sbalorditi dei rilievi mossi dal
Fondo Monetario a Washington è il tono utilizzato: quello tipico usato nei
confronti dei paesi ad un passo dalla bancarotta e che fino ad ora era a triste
appannaggio di paesi come la Grecia oppure anche l'Italia.
Ovviamente, siccome è impensabile che gli USA smantellino le centinaia di
basi militari sparse per il mondo o che ridimensionino quell'idrovora
mangiasoldi che è il Pentagono con la finalità di ridurre la domanda aggregata
attraverso l'abbattimento della spesa pubblica che in prospettiva comporta
anche minori importazioni e dunque un miglioramento dei conti con l'estero, non
possiamo fare altro che ipotizzare un aumento della conflittualità in giro per
il mondo, soprattutto nelle aree dove confinano gli avversari strategici (Russia
e Cina soprattutto), così da far bruciare – nelle intenzioni – l'enorme debito
in un immenso falò bellico.
Chi spera in un ritorno della pace grazie a trattative su questioni
territoriali, siano esse in Ucraina o nel Mar Cinese Meridionale, farebbe bene
a riflettere sulle problematiche economiche, che sottolineo, non sono legate
“ai soldi” dei ricchi capitalisti, ma al benessere di interi popoli e dunque
alla stabilità sociale di intere nazioni. Sono facile profeta: gli USA prima di
essere ridotta ad una enorme Argentina venderanno cara la pelle.
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