Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale
“Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che
habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di
Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti
i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione
comunicandomi il numero di essi”.
È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré
d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei
monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre
mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani
eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono
isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu
spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili
e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.
Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione
dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150
chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo
il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.
“Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché
ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo
Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e
autore del saggio “Debre Libanos
1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine
di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica
militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.
Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.
“La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi
passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che
manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase
storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria
Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice,
assieme ad Alessandro Pes di “Storia
del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai
nostri giorni” (Carocci, 2024).
Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso
dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze
furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il
mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di
distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.
Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio
passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle
richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare
e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una
ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio
l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali
a Roma, nei pressi della Stazione Termini). Temi che vengono promossi, tra gli
altri, dalla rete Yekatit 12-19
febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di
rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e
nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata
nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.
“C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade
intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di
cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come
fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo
finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono”
dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle
Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della
Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra
a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne
invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto
significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.
“Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a
occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i
dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la
Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione
della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo
questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa
violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.
Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico
né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato
su Avvenire, Graziani venne
condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica
sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie
ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre
Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.
“Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia
funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza
nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia
pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse
‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse
‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto
preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive
disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e
da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e
attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la
coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.
Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori
spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla
luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad
esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024),
un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per
concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura
coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie
negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega
ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a
esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque
abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari
per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In
larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di
cui pochi hanno parlato”.
A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo
saggio “Testimone
di un massacro” (Guerini 2022), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a
numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari
(indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni
indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa
nella memorialistica coloniale italiana.
Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte
delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi
ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi,
in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di
Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame
storico.
E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in
passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo,
anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere
-racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti
rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si
misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i
propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana
significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi
oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.
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