Proprio
questi giorni Ilan Pappe è stato fermato e interrogato dall’FBI, all’aeroporto
di Chicago(leggi qui).
A
lui è andata meglio che a Robert Fico, Ilan Pappe è uscito dall’aeroporto
camminando sulle sue gambe.
Ho
letto recentemente La prigione più grande del
mondo. Storia dei territori occupati, pubblicato qualche anno
fa.
Leggerlo
durante il genocidio di Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, è un’esperienza a tratti
insostenibile, quando si avvera tutto quello che lo storico aveva già previsto
e scritto.
È Ilan
Pappe che parla di genocidio incrementale, Lo stato d’Israele nasce con lo
scopo della pulizia etnica nel suo DNA, ma i palestinesi sono testardi, non se
ne vanno, e allora Israele ruba quante più terre palestinesi, possibili, giorno
dopo giorno. I territori occupati diventano la più grande prigione a cielo
aperto del mondo, senza trascurare di costruire e riempire prigioni di tortura
dove mettere gli ostaggi palestinesi, molti per uno sguardo, un’idea, una
pietra, uno slogan.
Nel
libro si spiegano le strategie di pulizia etnica, colonizzazione, genocidio
incrementale; essendo lo stato d'Israele uno stato razzista e coloniale la miglior
strategia da usare dal 1948 in poi è quella degli odiati (un po’)/amati (molto)
britannici, che di colonialismo e razzismo sono maledetti maestri. La strategia
è quella di asfissiare i palestinesi, togliergli l’acqua (non solo in senso metaforico),
dividerli, trattarli peggio degli schiavi, senza nessun diritto civile, uccidendo
(o rendendo inoffensivo) qualsiasi Spartaco appaia all’orizzonte.
E poi
c’è l’istituto coloniale della detenzione amministrativa, di segno anglo-sionista,
una misura al di fuori della decenza umana, ma va bene per distruggere i palestinesi.
“Non ci sono civili innocenti
a Gaza", ha detto il 13 ottobre 2024 il presidente
di Israele, Isaac Herzog, ecco la sintesi del genocidio,
di un paese guidato da assassini senza pietà.
Per quanto doloroso, non si può
fare a meno di leggere il libro di Ilan Pappe.
L’importanza delle parole: il ‘genocidio incrementale’
dei palestinesi continua - Ilan Pappé
Sto scrivendo questo editoriale il 10
marzo, 2023. In questo giorno, settantacinque anni fa, il comando militare sionista
divulgò il Piano Dalet – o Piano D – che, tra le altre disposizioni, istruiva
le forze sioniste, che erano in procinto di occupare centinaia di villaggi
palestinesi e diverse città e quartieri della Palestina storica, a:
“ Distruggere i villaggi (dandoli alle
fiamme, facendoli saltare in aria e, poi, piazzando mine sotto le macerie),
soprattutto in quei centri abitati che sono difficili da controllare in modo
permanente.
“Organizzare operazioni di
setacciamento e controllo attenendosi alle seguenti disposizioni: si accerchia
il villaggio e si fanno perquisizioni al suo interno. In caso di resistenza, le
milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori
dei confini dello Stato”.
Disposizioni simili furono fornite anche
per le operazioni condotte nei centri urbani, anche se si trattava di una
versione più morbida rispetto agli ordini veri e propri che venivano impartiti
alle unità sul campo. Ecco un esempio di un ordine inviato a un’unità
incaricata di occupare tre grandi villaggi della Galilea occidentale,
nell’ambito degli ordini previsti dal Piano D:
“La nostra missione è di aggredire
allo scopo di occupare… uccidere gli uomini, distruggere e dare alle fiamme
Kabri, Umm al-Faraj e An-Nahr”.
Il neo-ministro delle finanze di Israele,
Bezalel Smotrich, dunque, non sta dicendo nulla di nuovo quando chiede che il
villaggio di Huwwara venga cancellato. Si è scusato perché un commento del
genere doveva rimanere in ebraico, dimenticando però che siamo nel 2023, e le
sue parole sono state tempestivamente tradotte in inglese. Smotrich si è
scusato perché (il suo commento) è stato tradotto, non per averlo pronunciato.
Gli studiosi palestinesi hanno prontamente
capito che la narrazione sionista ad uso e consumo domestico è molto diversa da
quella che viene presentata all’esterno. Su una traiettoria storica che dal
Piano D conduce alle attuali uccisioni quotidiane di cittadini palestinesi,
alla demolizione delle loro abitazioni, e agli incendi appiccati alle loro
attività commerciali, sono stati in grado di rintracciare, qua e là,
espressioni simili, se non peggiori.
Walid Khalidi portò il Piano Dalet
all’attenzione dei lettori inglesi, ed Edward Said – nel suo libro seminale “La
questione palestinese” – catalizzò la nostra attenzione su un’intervista,
pubblicata nel 1978 su un quotidiano israeliano locale, con l’allora capo di
stato maggiore israeliano Mordechai Gur. L’intervista fu condotta all’indomani
della prima – e perlopiù passata inosservata- invasione israeliana del Libano
di quell’anno. Il capo dell’esercito israeliano dichiarò:
“Non sono (una) di quelle persone dalla
memoria selettiva. Crede che finga di non sapere cosa abbiamo fatto in tutti
questi anni? Cosa abbiamo fatto lungo tutto il Canale di Suez? Un milione e
mezzo di rifugiati!… Abbiamo bombardato Ismailia, Suez, Porto Said e Porto
Fuad”.
Sono sicuro che pochissimi dei nostri
lettori sanno che, a seguito della guerra di giugno, Israele creò un milione e
mezzo di rifugiati egiziani.
E poi, a Gur è stato chiesto se ha operato
una distinzione tra popolazione civile e combattenti:
“Sia serio, per favore. Non lo sapeva
che, dopo la guerra d’attrito [con la Giordania], l’intera valle del Giordano è
stata svuotata dai suoi abitanti?”
Il giornalista ha proseguito con una
domanda: “Allora lei afferma che la popolazione civile dovrebbe essere punita?”
“Ovviamente. E non ho mai avuto dubbi su
questo… Sono passati ormai 30 anni da quando abbiamo conquistato la nostra
indipendenza combattendo contro la popolazione civile [araba] che abitava i
villaggi e le città…”
Questo avveniva nel 1978 e, come sappiamo,
questa politica continua tutt’oggi passando attraverso alcune atroci pietre
miliari che includono [i massacri] di Sabra e Shatila, di Kafar Qana in Libano,
di Jenin e nella Striscia di Gaza. Eppure, esaminando quelle atrocità – sia io
che altri – le abbiamo definite, con una certa equidistanza, pulizia etnica; o,
come fece Edward Said, un progetto di accumulazione (di terra e potere) e
dislocamento (di persone, della loro identità e della loro storia).
Ho esitato a utilizzare il termine
“genocidio” per indicare tutti questi capitoli bui. L’ho usato solo una volta
quando, per descrivere la politica israeliana nella Striscia di Gaza a partire
dal 2006, ho utilizzato l’espressione genocidio incrementale. Ma la recente
furia omicida che ha caratterizzato Israele dall’inizio dell’anno, unita al
triste anniversario sopra citato, giustificano un utilizzo più ampio del
termine, non solo in riferimento agli atroci attacchi di Israele nella Striscia
di Gaza e al suo ermetico assedio.
Il nesso tra le uccisioni che si verificano
in un arco temporale di pochi mesi – quando “solo” poche persone vengono uccise
su base quotidiana – e i massacri che si sono consumati in oltre 70 anni di
storia non viene facilmente accettato come prova delle politiche di genocidio.
Eppure, quella storia rappresenta la
genealogia del genocidio secondo l’articolo 2 della “Convenzione ONU per la
prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, in cui si stabilisce
che gli atti elencati di seguito sono da intendersi come genocidio se vengono
commessi “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso”:
1. uccidere membri del gruppo;
2. causare gravi lesioni fisiche o psicologiche ai membri del gruppo;
3. sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita tali da provocarne
la distruzione fisica totale o parziale;
4. imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
5. trasferire in maniera forzata i bambini del gruppo a un altro.
Sono sicuro che molti dei nostri lettori
reagirebbero dicendo che sanno che si tratta di un genocidio. Ma nessuno di noi
membri dello staff del Palestine Chronicle e, più generalmente, del movimento
di solidarietà con il popolo palestinese, è qui per sfondare una porta aperta.
Abbiamo tutti preso parte allo sforzo
collettivo – guidato dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le
sanzioni (BDS) – per convincere la società civile internazionale a etichettare
Israele come uno stato di apartheid. Questo non è un semplice risultato, anche
se la maggior parte dei governi di tutto il mondo continua a rifiutarsi di
farlo. Si tratta di un progetto di valore poiché, quando avrà successo, porterà
a sanzioni significative.
Allo stesso modo, lo sviluppo lampante
delle politiche genocide israeliane non solo nella Striscia di Gaza, ma anche
in Cisgiordania, e non solo di recente, ma a partire dal 1948, potrebbe
finalmente permetterci di far valere il diritto internazionale in Palestina –
anche sulla base di prove fornite dagli stessi alti generali israeliani –. Per
anni, le istituzioni e i tribunali principali hanno deluso il popolo
palestinese, concedendo a Israele l’immunità, principalmente con il pretesto
che il suo sistema giudiziario sia forte e indipendente.
Se questa affermazione risulta infondata
nella migliore delle ipotesi, in questo preciso momento storico, considerate le
ultime riforme legislative varate in Israele, risulta proprio ridicola.
Anche se il supporto delle istituzioni
internazionali al popolo palestinese fosse stato più genuino, sarebbe stato
comunque complesso processare i leader o i soldati israeliani sulla base delle
accuse di pulizia etnica contro la popolazione palestinese. L’espressione
“pulizia etnica” non è un termine giuridico, nel senso che i suoi esecutori non
possono essere assicurati alla giustizia sulla base di questa specifica accusa;
nella fattispecie, non si qualifica come crimine di diritto internazionale.
Questo è ingiusto e potrebbe cambiare nel tempo, ma è la realtà con cui
dobbiamo fare i conti al momento. Al contrario, il diritto internazionale
qualifica il crimine di apartheid come un crimine contro l’umanità, e i suoi
esecutori possono essere di fatto assicurati alla giustizia.
È importante prendere in considerazione
l’utilizzo del termine anche per un altro motivo. Secondo il Sionismo liberale,
quanto è avvenuto in Palestina è una piccola ingiustizia commessa per rimediare
a una più orribile. Questa assurda giustificazione è stata recentemente
arricchita dalle nuove definizioni operative di negazionismo dell’Olocausto
adottate da molti paesi e università, che non ammettono alcun confronto tra
l’Olocausto e la Nakba; un’equazione che verrebbe etichettata come
antisemitismo.
Questi due presupposti sono sbagliati per
due motivi. In primo luogo, questa “piccola” ingiustizia è ancora in corso; in
fin dei conti, non conosciamo ancora quanto gravi saranno le sue conseguenze,
ma sappiamo che non è affatto piccola e che rientra nella definizione di
genocidio.
In secondo luogo, non si tratta di fare un
confronto con l’Olocausto. Si tratta piuttosto di insistere sul fatto che si
permette ancora di commettere un crimine contro l’umanità, ben definito nel
diritto internazionale. E affinché’ si ponga fine a questo crimine, non è
sufficiente parlare di apartheid e pulizia etnica.
Possiamo, e dobbiamo, usare un linguaggio
più incisivo e preciso, alla luce dei fatti che vediamo accadere
quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove vengono uccisi
soprattutto giovani uomini e bambini. Ciò è necessario anche alla luce del
continuo processo di colpevolizzazione degli Arabi del 1948, nei cui villaggi e
città le forze di sicurezza israeliane consentono a bande locali – purtroppo
formate da cittadini Palestinesi – di uccidere per conto dello Stato.
(Traduzione di Rossella Tisci. Questo articolo
è stato originariamente pubblicato sul Palestine Chronicle)
Leggere Ilan Pappé è un’esperienza che affascina. Non solo
per la lucidità dell’analisi, la ricchezza delle fonti e la scorrevolezza della
prosa, ma anche – o soprattutto – per l’abitudine a rovesciare, di continuo,
significati e significanti della storia scritta dai vincitori. Di questo
controverso e acutissimo storico insomma si può ben dire, foucaultianamente,
che all’annalistica del memorabile preferisce la memoria della contraddizione e
del conflitto: alla costruzione di mitologie trionfali, il grido che ricorda
come ogni ordine nasca dalla sopraffazione. Come nel rovescio della legge,
talora, si nasconda l’abuso…
…Basandosi sulle fonti originarie si
chiarisce quanto sia importante inquadrare la situazione israelo-palestinese
secondo verità, ma per farlo serve coraggio, onestà intellettuale e, non
ultimo, un certo grado di empatia verso il popolo vittima di una montagna di
ingiustizia e di soprusi. E quest’empatia Pappé l’ha dichiarata, è nelle sue
opinioni, ma non inficia minimamente la correttezza della ricerca storica su
cui si basano i suoi lavori. La ricostruzione storica di tutto l’apparato
politico, burocratico e militare mette in mostra la decisione di escludere
Cisgiordania e Gaza da qualsiasi eventuale futuro negoziato di pace, decisione
che smaschera il cosiddetto “processo di pace” che ha consentito a Israele di
rosicchiare senza interruzione i Territori palestinesi occupati, sostituendo di
fatto l’insediamento coloniale permanente all’occupazione che, solo
verbalmente, veniva definita temporanea. Un progetto che in modo
scientemente programmato, con un apparato burocratico enorme affiancato a
quello militare, ha origine nel XX secolo, ma che i documenti esaminati
mostrano essere già presente, almeno come obiettivo da raggiungere, nel lontano
1882. Dagli archivi declassificati emerge la verità sulla guerra
dei sei giorni, l’evento che ha permesso la realizzazione del progetto che
avrebbe fatto di Cisgiordania e Gaza una prigione senza via d’uscita. Il
criminale capolavoro di rendere i palestinesi dei detenuti in casa propria, una
casa che si è fatta sempre più stretta grazie ai “cunei” ideati da Ygal Allon e
all’espandersi degli insediamenti coloniali fino a diventare quasi
delle città, non fu immediatamente compreso o non volle essere compreso dalle
democrazie occidentali che osannavano (e osannano) Israele, così come non fu
compresa la reale dinamica della guerra dei sei giorni grazie – anche – al
lucido piano di contraffazione lessicale. In quasi 400 pagine, di cui nessuna
superflua, Ilan Pappé spiega il meccanismo carcerario cui è sottoposto il
popolo palestinese compreso lo stesso presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Il
sistema premi-punizioni, ove i premi sono soltanto un minor accanimento
vessatorio e le punizioni sono veri e propri crimini di guerra e contro
l’umanità è ciò che i palestinesi sono costretti a vivere e a cui una buona
percentuale di loro si ribella pagando con l’arresto e, quasi quotidianamente,
con la vita, la non accettazione delle leggi imposte dal loro carceriere…
…Per capire in che misura gli aspetti più
discutibili della politica israeliana nei confronti del popolo palestinese
siano l’esito logico dell’ideologia sionista, argomenta Pappé, occorre risalire
allo spirito della “colonizzazione messianica” fra fine Ottocento e primo
Novecento. È la visione di un ritorno ai tempi (e ai luoghi) biblici a
rappresentare il fondamento del sionismo. Nato come ricerca di un rifugio
sicuro contro l’antisemitismo e di un territorio che desse forma di nazione
all’ebraismo, il sionismo non sarebbe andato incontro alle attuali
degenerazioni se, per realizzare le sue legittime aspirazioni, non avesse
scelto un territorio già abitato, il che lo ha inevitabilmente trasformato in
un progetto colonialista (per inciso: in America e in Australia analoghi
progetti hanno implicato lo sterminio sistematico delle popolazioni autoctone).
Realizzare il progetto significava
ottenere il controllo sulla maggior parte della Palestina storica e ridurre
drasticamente il numero dei palestinesi che ivi vivevano; l’obiettivo era
insomma l‘edificazione di uno Stato ebraico “puro” dal punto di vista
etnico-religioso, il desiderio (da alcuni nascosto, da altri dichiarato) era
che nell’antica terra di Israele vi fossero solo ebrei. Di qui la pulizia etnica
del 1948 resa possibile: 1) dalla decisione britannica di abbandonare i
territori che governava da 30 anni; 2) dall’impatto dell’Olocausto
sull’opinione pubblica occidentale; 3) dal marasma politico nel mondo arabo
palestinese. Cogliendo l’opportunità una leadership sionista fortemente
determinata espulse larga parte della popolazione nativa distruggendone i
villaggi e le città, tanto che, in tempi brevissimi, l’80% della Palestina
sotto mandato britannico era diventata lo Stato ebraico di Israele.
Passando alle decisioni draconiane sulla
gestione dei Territori Occupati assunte dal governo che guidava il Paese
durante la guerra del 67, Pappé sottolinea come esso comprendesse tutte le
correnti ideologiche: laburisti, liberali laici, religiosi e ultra religiosi,
rappresentando dunque il più ampio consenso sionista possibile. Sulla durezza
di tali decisioni torneremo più avanti, ciò che importa sottolineare in primo
luogo è l’assenza di differenze sostanziali fra destra e sinistra. Un’unità di
intenti sancita dal fatto che nemmeno l’alternanza fra Laburisti (che
governarono fino al 1977) e destre (il Likud dominò il decennio successivo, dal
77 all’87), produsse alcun cambiamento sostanziale se non nella “narrazione”: i
Laburisti furono abili nell’ingannare il mondo sulle intenzioni di pace di
Israele (Shimon Peres vi riuscì tanto bene da essere premiato con il Nobel) ma
non cambiarono una virgola della strategia adottata nel 67; quanto al Likud,
l’unica vera novità consistette nell’allacciare legami sempre più stretti con
il movimento dei coloni (Gush Emunim). Nel decennio in questione gli ultra
ortodossi vennero autorizzati a formare enclave teocratiche dotate di regole e
procedure giuridiche diverse da quelle in vigore in Israele. Il fondamentalismo
ebraico venne di fatto autorizzato a svolgere un ruolo di “militarizzazione”
dei coloni, fino a creare squadre di vigilantes che eseguivano spedizioni
punitive ctollerate dallo Stato (su 48 omicidi ad opera dei coloni violenti che
agivano in bande organizzate, segnala Pappé, solo un colpevole venne
incriminato e processato)…
L'espressione La prigione più grande del mondo indica
i territori occupati dallo stato sionista, di cui Ilan Pappé presenta la storia
militare e politica.
La prefazione è incentrata sulla collina di
descrive per sommi capi la situazione urbanistica di Givat Ram -un quartiere di
Gerusalemme ricco di sedi istituzionali e universitarie edificato dopo il 1948
su terreni confiscati al villaggio palestinese di Sheikh al Badr- e ricorda
come nel 1963 si sarebbe tenuto proprio in una sede universitaria un corso di
preparazione destinato a personale militare da adibire al controllo della
Cisgiordania come zona militare occupata. Ilan Pappé nota che quattro anni
prima dell'effettiva occupazione lo stato sionista -nell'immediato timore di un
crollo dell'assetto hashemita che avrebbe reso instabile la Giordania- avrebbe
già iniziato a prepararsi a sovrintendere alla vita di un milione di
palestinesi tramite le necessarie infrastrutture giudiziarie e amministrative.
Secondo l'A. la élite militare e politica dello stato sionista era fin dal 1948
in cerca del momento storico opportuno per l'occupazione della Cisgiordania; il
piano per la sua amministrazione si sarebbe chiamato "piano Shacham"
e avrebbe previsto la divisione della Cisgiordania in otto distretti,
sottoposti a un governo militare secondo la legge mandataria britannica,
sottoposta agli aggiustamenti terminologici indispensabili, e secondo la
vigente normativa giordana epurata dai provvedimenti in contrasto con gli
obiettivi dello stato sionista. Un nuovo gruppo di allievi avrebbe seguito nel
1964 un analogo corso nella stessa località, e avrebbe imparato a reprimere gli
"elementi ostili" e a comportarsi in modo da incoraggiare l'emergere
di una leadership locale collaborazionista. Nei tre anni successivi lo stato
sionista avrebbe approntato una squadra pronta a gestire una occupazione
militare, e nel 1967 l'occupazione della Cisgiordania ebbe effettivamente
luogo. L'A. scrive che al piano Shacham sarebbe stato a quel punto aggiunto un
piano Granit, sua traduzione operativa. Ogni potenziale governatore militare e
ogni consigliere avrebbe ricevuto nel maggio 1967 una serie di testi normativi;
alcuni erano quelli in uso nella Germania occupata, ma vi figurava anche un
testo di Gerhard von Glahn in cui si stabiliva che l'occupazione non cambia lo
status de jure di un'area e che gli occupanti possono solo usare i beni
presenti ma non entrarne in possesso. In pratica, anche per evitare fastidiose
eccezioni da parte degli estimatori di von Glahn, l'occupazione sarebbe
consistita nell'estensione alla Cisgiordania dell'autorità militare già imposta
ai palestinesi entro lo stato sionista, attuata secondo i regolamenti di
emergenza mandatari emessi a suo tempo dagli inglesi; norme che all'epoca della
loro introduzione i sionisti avevano cosiderato degne di un paese nazionalsocialista.
Un governatore militare avrebbe avuto controllo illimitato su ogni aspetto
della vita degli individui e avrebbe potuto decretare espulsioni, convocare
chiunque in una stazione di polizia, dichiarare "aree militari
chiuse" le località oggetto di manifestazioni o pubbliche riunioni e
praticare arresti amministrativi, ovvero detenzioni a tempo indeterminato senza
motivazioni né processo. I tribunali chiamati ad applicare i regolamenti di
emergenza mandatari sarebbero stati formati da militari non necessariamente in
possesso di una formazione giuridica…
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