Intervista di Gian Giacomo Migone
Quando ho letto la delibera del Senato che
rende accessibili al pubblico segreti sottratti agli stessi membri delle
commissioni parlamentari d’inchiesta, non credevo ai miei occhi. Come storico
dei rapporti tra Stati Uniti e Italia, constatare la partecipazione di un
colonnello dei carabinieri e di agenti della Cia alla programmazione e
all’esecuzione della strage di Piazza Fontana non è scoperta di poco conto,
anche a mezzo secolo di distanza. Soprattutto apprenderlo dalla bocca di Paolo
Emilio Taviani, per anni ministro dell’Interno e della Difesa, vice presidente
del Consiglio in carica all’epoca della strage, rende i fatti da lui citati
pressoché inoppugnabili, oltre che uno stimolo a ulteriori ricerche.
Diversamente, ma altrettanto importante, la testimonianza di Taviani della
piena conoscenza, da parte del Governo e dei vertici della sicurezza
dell’epoca, del ruolo da protagonisti di elementi neofascisti, e la conferma
che la pista anarchica del caso Valpreda, del sacrificio della vita di Giuseppe
Pinelli era un lucido disegno di occultamento della verità da parte del potere
costituito dell’epoca. Gianni Marilotti, presidente della commissione
Biblioteca e Archivio del Senato, con i suoi collaboratori, è stato il
principale responsabile di questa preziosa innovazione nella prassi della
nostra Repubblica.
(Gian Giacomo Migone)
Il Senato ha assunto la decisione,
fortemente innovativa, di mettere gli archivi a disposizione degli studiosi e
dei cittadini, anche negli aspetti finora secretati, delle proprie commissioni
d’inchiesta. Può descrivere natura e limiti anche temporali di questa
decisione?
Normalmente le Commissioni d’inchiesta,
sia bicamerali che monocamerali, al termine della legislatura appongono sui
documenti consegnati all’archivio un segreto funzionale. Ciò evidentemente
nella previsione di una ripresa delle attività nella legislatura successiva.
Tuttavia la maggior parte di esse hanno completato il proprio lavoro, o non
sono state più istituite. Assistevamo, dunque, a un paradosso: un’istruttoria
seria, durata anni, con centinaia di audizioni, conclusasi con una relazione
approfondita capace di far luce su eventi tragici del nostro passato, era
destinata a non essere conosciuta a causa di questo segreto funzionale che
nessuno poteva più togliere. Nessuno tranne il Parlamento stesso. Nasce da qui
la proposta stralcio, della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico
del Senato, di eliminarlo. Non è stato facile, ci sono state alcune resistenze,
ma poi – a un anno esatto dalla presentazione della nostra proposta – il
Consiglio di presidenza del Senato l’ha accolta. Alla Camera il presidente Fico
ha agito di concerto. È un risultato importante, ma ancora c’è molto da fare.
Ci può offrire uno o più esempi
sintetici nel merito delle conoscenze ora a disposizione?
Le sedute delle Commissioni d’inchiesta
erano pubbliche solo in parte: segreti restavano i resoconti dei gruppi di
lavoro, dei comitati ristretti, degli uffici di presidenza, delle stesse
plenarie quando era disposto il passaggio in seduta segreta. Eppure dietro
“l’impegno d’onore” col testimone, a non rendere noto quanto diceva, si possono
nascondere elementi utili alla ricostruzione storica. Ad esempio, se Taviani
parla di un ufficiale dei carabinieri a piazza Fontana, lo storico può focalizzare
la sua ricerca su altri fondi: può, per dire, trovare nel fondo Rumor – pure
esso presente all’Archivio storico del Senato – la lettera del comandante
generale che, 27 giorni prima della strage, paventa il malcontento dei ranghi
intermedi dell’Arma verso il Governo.
È scontato il contributo alla ricerca
storica. Nello stesso tempo, si tratta anche di una conquista democratica? La
conoscenza di un passato, anche nei suoi aspetti più occulti, può illuminare il
presente, e il futuro delle stesse istituzioni?
Il diritto alla conoscenza è un diritto
fondamentale: la sua attuazione segna il passaggio da una società di sudditi a
una di cittadini attivi e consapevoli. Lo Stato ha il diritto di proteggere con
la riservatezza fatti o documenti particolarmente delicati, anche se non per
sempre. Ci deve essere però un equilibrio tra questi due diritti, equilibrio
che molto spesso non c’è. Io credo che la credibilità delle istituzioni si
nutra anche di atteggiamenti improntati alla chiarezza e trasparenza nell’esercizio
del potere.
Il Parlamento non può mettere a
disposizione documenti governativi coperti da segreto di Stato, non altrimenti
disponibili o sottoposti alla sua giurisdizione. Tuttavia, la desecretazione
della documentazione prodotta e messa a disposizione da un ramo del Parlamento
può favorire la corretta e specifica formulazione di richieste in altro senso
dirette, sul modello del Freedom of Information Act negli Stati Uniti? La
vostra decisione potrebbe stimolare una legislazione innovativa in questo
senso?
Le Commissioni stragi hanno prodotto un
volume cartaceo di oltre un milione di pagine. Con la desecretazione del
segreto funzionale stiamo procedendo a inventariare, digitalizzare e mettere in
rete i documenti che abbiamo reso finalmente liberi. Ve ne sono altre, però,
tra queste carte, che sono coperte da segreti “eteronomi”, cioè che provengono
da altre istituzioni: ministeri, servizi segreti, Stati esteri. Su questi vi è
una classifica di segretezza che ci obbliga all’interpello ogni qual volta uno
studioso, un giornalista d’inchiesta, un parente delle vittime di strage o
terrorismo ce ne fa richiesta. Nella grande maggioranza dei casi gli interpelli
si risolvono in un diniego; spesso, questo vale soprattutto per governi
stranieri, nemmeno rispondono. Qualche volta quei documenti vengono
desecretati. Ma il ritmo di queste desecretazioni è troppo lento: abbiamo
calcolato che – con questo ritmo – occorreranno oltre centocinquant’anni per
arrivare a conoscere aspetti essenziali della nostra storia.
Più in generale, qual è lo stato
dell’arte in fatto di desecretazione, dopo gli annunci in proposito del Governo
Renzi?
La direttiva Renzi era stata presentata
come un provvedimento coraggioso, in grado di dare un grande impulso al diritto
alla conoscenza per fatti legati al terrorismo o alle stragi. Essa sembrava un
bel passo avanti rispetto alla legge sui servizi segreti del 2007: questa
prevedeva che il tempo della secretazione non potesse essere più lungo di
quindici anni, più altri quindici, mentre per la magistratura inquirente
dovevano essere messi immediatamente a disposizione. La direttiva Renzi
sembrava un bel passo avanti anche rispetto al Codice Urbani, che per il
segreto di Stato prevede il limite di 50 anni, e alla legge sulla privacy che
ne prevede 70. Purtroppo la direttiva non è stata costruita per operare
automaticamente: una commissione composta da alti funzionari – della quale
presumibilmente facevano parte funzionari dei servizi segreti – ha avuto il
potere di dire quali documenti potevano essere liberi dal segreto e quali no.
Il risultato è che, quando sono inviati all’Archivio centrale dello Stato, i
documenti dei servizi spesso ci arrivano pieni di schermature di dati, nomi,
contenuti, fino a diventare illeggibili, come ha lamentato tra gli altri
l’onorevole Bolognesi. Insomma, la situazione attuale è che non solo la
direttiva Renzi è di fatto inapplicata, ma lo stesso Codice Urbani a sua volta
non viene rispettato. La prova è che sulla strage di Piazza Fontana, avvenuta
più di 50 anni fa, vi sono ancora documenti coperti dal segreto; non lo
chiamano più di Stato, ma sempre sottrazione all’occhio pubblico è.
Le National Archives britanniche
mettono a disposizione la competenza di giovani ricercatori che assistono
cittadini e studiosi nel formulare richieste meglio istruite, più specifiche e
meno eludibili. È ipotizzabile un servizio simile, anche nel nostro Paese?
Direi che non solo è possibile, ma anche
auspicabile: se è giusto che le risorse dell’art bonus vadano in
primo luogo ai poli museali, sarebbe bene non dimenticare che il patrimonio
culturale del nostro Paese include gli archivi e le molteplici professionalità
in grado di poterli valorizzare. Sotto il profilo delle pubbliche
amministrazioni, mi permetta di spendere qualche parola sul grande lavoro che
stanno svolgendo gli archivisti del Senato. Di fronte a una massa così
imponente di materiale cartaceo prodotta dalle commissioni parlamentari
d’inchiesta non è facile raccapezzarsi. Si tratta di un lavoro delicato anche
perché occorre distinguere tra le fonti, istituzionali e non, al fine di non
alimentare le fake news con affrettati conferimenti su
internet: a volte negli atti delle commissioni d’inchiesta c’è materiale
aggiunto non per facilitare la ricerca della verità, ma al contrario per
renderla vana; ci sono poi tentativi di depistaggio che si mischiano con
documenti autenticamente veritieri. Solo il lavoro certosino degli archivisti
può mettere lo storico o il giornalista d’inchiesta nelle condizioni di
svolgere un proficuo lavoro.
Ci può dire la sua personale posizione
(e le sue motivazioni) sul tema della trasparenza, storica e non? Ho visto che
è stato protagonista di un’iniziativa sul caso Assange dell’Assemblea
Parlamentare del Consiglio d’Europa di cui è membro.
La ringrazio per questa domanda che mi
permette di raffrontare il caso di una persecuzione, politica e giudiziaria, a
quanto detto a proposito del segreto di Stato. Julien Assange, l’editore di
“WikiLeaks”, è da oltre dodici anni privato della libertà e, da ultimo, rinchiuso
in un carcere di massima sicurezza nel Regno Unito: sta subendo un processo
sulla base della richiesta di estradizione negli Stati Uniti con l’accusa di
aver con le sue rivelazioni minacciato la sicurezza nazionale. Rischia, se
estradato, una condanna all’ergastolo se non, come ha invocato Trump, la pena
di morte. Queste rivelazioni, riprese da tante testate giornalistiche, ci
consentirono di sapere “verità nascoste” sulla guerra in Afghanistan, i 15.000
morti civili nella guerra in Iraq precedentemente sconosciuti, gli orrori di
Guantanamo. Al processo, Trevor Timm, fondatore della Freedom of the Press
Foundation, ha dichiarato che negli USA ci sono stati numerosi tentativi da
parte del Governo di usare l’accusa di spionaggio contro i giornalisti, ma
nessuno ha avuto successo. Ha aggiunto che se le accuse ad Assange fossero
retrodatate agli anni Settanta i giornalisti del Watergate avrebbero
potuto essere sbattuti in prigione e ha concluso che lui stesso ha sostenuto
fughe di notizie nei casi in cui il sistema di segretezza degli Stati Uniti
nascondeva abusi, corruzione o illegalità: eppure nessuno lo ha accusato di
commettere un atto criminale. Il professor Mark Feldstein, nella sua
deposizione, ha a sua volta affermato: «Noi insegniamo ad acquisire documenti
segreti nella scuola di giornalismo». È evidente l’accanimento
politico-persecutorio nei confronti di un giornalista reo di aver fatto bene il
suo mestiere. Credo che la battaglia per la liberazione di Assange, come
richiesta anche dal Consiglio d’Europa, debba vedere tutti i democratici
impegnati in modo determinato.
L’intervista è tratta
da “L’Indice” del novembre 2020
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