mercoledì 9 dicembre 2020

Nella memoria della rete - Massimo Gaggi

 

(Questo articolo è stato pubblicato su «la Lettura» #390 del 19 maggio 2019)

«Con la distruzione della biblioteca di Alessandria andò persa una parte della conoscenza del mondo. Non deve più accadere. Oggi abbiamo tante biblioteche con i volumi di carta, ma le loro versioni digitali — il formato che dovrebbe rendere questi tomi eterni — sono sul web: ciò che è in rete ci pare sia ovunque, ma, in realtà, il sistema è centralizzato e potenzialmente vulnerabile. Vanno evitate altre distruzioni. Per questo — racconta a “la Lettura” Brewster Kahle mentre entriamo nella sede della sua audace impresa tecnologica che ha l’aspetto di un candido tempio marmoreo —, stiamo costruendo l’Internet Archive e siamo impegnati nella battaglia per decentralizzare il web».

Kahle dimostra più dei suoi 58 anni ed è comprensibile: questo scienziato-umanista, che ha cominciato a studiare l’intelligenza artificiale negli anni Settanta con i precursori Marvin Minsky e Daniel Hillis, ha vissuto più vite contemporaneamente. Dapprima quella di computer scientist del Mit di Boston che, negli anni Ottanta, sviluppò i supercomputer di quel tempo da ingegnere capo della Thinking Machines, creando poi, con sue aziende, Wais, un sistema di pubblicazione precursore di quello oggi dominante con la sigla www, e Alexa Internet, un primitivo motore di ricerca acquistato da Amazon nel 1999. Poi quella dell’imprenditore della conoscenza che si trasforma in filantropo e, come dice lui, in bibliotecario digitale con il suo InternetArchive.org concepito come il luogo della conoscenza universale accessibile a tutti gratuitamente. Infine quella dell’attivista impegnato a proteggere il cittadino navigatore digitale dallo strapotere dei big tech cercando di creare le condizioni — tecnologiche e politiche — per una decentralizzazione del web. La sua cattedrale della memoria è un luogo strano. Costruito per essere chiesa della Christian Science, con la facciata sovrastata da un imponente colonnato, l’edificio venne acquistato da Kahle, alla ricerca di una sede più grande per il suo archivio, una decina d’anni fa, quando la comunità religiosa lo abbandonò. La struttura rispecchia la doppia missione di questo intellettuale della tecnologia: al piano inferiore, una sorta di enorme cripta, una settantina di tecnici — stipendiati e volontari — sono impegnati (insieme a quelli di una trentina di scanning center, sparsi in otto Paesi) nella digitalizzazioni di milioni di libri, video, brani musicali, pagine, videogiochi e programmi di software.

Al piano di sopra l’aspetto è ancora quello della chiesa, solo che ora qui non si radunano i fedeli di una religione ma quelli che credono nella necessità di superare i monopoli digitali democratizzando il web. Ai lati della navata due folle di statue di gesso colorate rappresentano non santi ma tutti coloro che, oggi e negli ultimi 22 anni, hanno contribuito a costruire l’Internet Archive. Al centro l’altare è sostituito dal podio delle conferenze per un nuovo internet. In fondo, davanti alle vetrate, gli enormi armadi lampeggianti e fruscianti delle power unit che gestiscono il traffico: «Ogni giorno — spiega Kahle — 4 milioni di utenti si rivolgono a noi. Gli elaboratori stanno lì perché il vento fresco della baia funziona da sistema di raffreddamento a basso costo».

Un po’ tutto è low cost in questa impresa filantropica che, racconta il suo fondatore, «ha un bilancio annuale di 18 milioni di dollari: un decimo di quello della Public Library di San Francisco». Soldi che vengono da benefattori e, in piccola parte, dallo stesso patrimonio di Kahle i cui sforzi sono comunque lontani dall’obiettivo di digitalizzare tutta la conoscenza. Che poi era il progetto — «tutta la conoscenza del mondo alla portata di un click» — perseguito da Google con ben altri mezzi. «Google — spiega ancora — ha digitalizzato 25 milioni di libri, ma non li dà a tutti e ha rallentato, anche per problemi di copyright: si può accedere a quei contenuti attraverso il motore di ricerca. Noi siamo molto più indietro come volumi: digitalizziamo ogni giorno mille libri e mezzo miliardo di pagine web, ma siamo ancora a tre milioni di libri archiviati. Funzioniamo, però, come una vera biblioteca: diamo in uso l’intero libro gratis per due settimane. Per quelli coperti da copyright, se qualcuno li sta già leggendo, ci si deve mettere in lista d’attesa e aspettare che la copia digitale venga restituita, proprio come avviene con quelle fisiche. Ma nei nostri archivi c’è anche molto altro: 4 milioni e mezzo di file audio, compresi 180 mila concerti live, e ora abbiamo cominciato a digitalizzare anche vecchi dischi a 78 giri, compresi quelli prima del 1905, con la registrazione da un solo lato. E, ancora, 4 milioni di video, 200 mila programmi di software, miliardi di pagine dei social media, comprese tutte quelle Twitter relative alle presidenziali Usa del 2016».

Cosa anima gli sforzi di Kahle? Voglia di rivincita? Alcune delle sue prime innovazioni finirono in Mosaic, il primo browser (il programma per navigare in internet), creato assemblando — come dice il nome stesso — componenti di provenienza diversa. Un sistema poi confluito in Netscape Navigator e, infine, soppiantato da Explorer di Microsoft. Le soluzioni erano geniali, ma il World Wide Web (www) creato nel 1989 da Tim Bernes Lee si impose per la sua semplicità e divenne lo standard universale. E Alexa Internet, tuttora usata da Amazon per certi tipi di ricerche aziendali, vide calare la sua rilevanza quando — come racconta lo stesso Kahle — Larry Page e Sergey Brin idearono «un motore di ricerca più potente ed efficiente».

Nella sua battaglia per l’archivio e contro i monopoli digitali, Kahle non è spinto da astio nei confronti dei giganti tecnologici: cerca di coinvolgere anche Google nel disegno di un web decentrato e si dice riconoscente nei confronti di Jeff Bezos che, tra l’altro, ha dato il nome della società acquistata da Kahle, Alexa, al popolarissimo assistente vocale di Amazon. «Quando, vent’anni fa, Bezos propose di acquistare la mia società ero incerto: volevo vendere, ma non potevo perdere l’accesso alle sue ricerche, molto utili per il digital archive che già stavo costruendo da un paio d’anni. Gli dissi di sì a un patto: ottenere gratuitamente, con un ritardo di sei mesi, tutti i risultati delle ricerche fatte su Alexa Internet. Era una richesta senza precedenti: mi aspettavo un rifiuto. Invece accettò e in questi vent’anni ha rispettato alla lettera l’impegno».

E allora? Torniamo alla suggestione della biblioteca di Alessandria, talmente forte per Kahle da averlo indotto a scegliere quel nome per la sua principale realizzazione tecnologica, Alexa. «Il mondo — dice — non può vivere un’altra devastazione culturale come quella che colpì quel luogo, distrutto non da un incendio ma dall’emergere, nei secoli, di forze sociali e politiche ostili al desiderio di conoscenza profonda e universale che aveva portato a quella straordinaria realizzazione dell’umanità. Oggi la civiltà digitale ci ha dato un senso di sicurezza del quale abbiamo cominciato a percepire la falsità: troppo potere concentrato in poche mani mentre la nostra presenza su internet, un sistema in teoria decentrato, passa attraverso poche porte d’accesso che possono essere facilmente controllate dai governi a fini di sorveglianza politica e censura. O possono essere chiuse senza preavviso dalle società che ne detengono le chiavi se i relativi business non sono più redditizi». Di recente gli utenti di MySpace hanno visto svanire dai loro archivi 50 milioni di brani musicali e molto altro materiale. Errore tecnico, dice la società: pochi ci credono. Intanto anche Google+, Tumblr e Flickr cominciano a svuotare gli scaffali digitali. Presto lo faranno anche altri, come YouTube. L’Internet Archive è una corsa contro il tempo per cercare di digitalizzare questo materiale prima che venga cancellato: la sua Wayback Machine registra e archivia mezzo miliardo di pagine al giorno.

«È importante mantenere la memoria di internet e anche dei social network», sostiene Kahle. «Non solo per soddisfare una schiera di nostalgici. Dopo l’elezione di Trump noi e le altre due organizzazioni del web etico, non profit, Wikipedia e la Electronic Frontier Foundation, ci riunimmo per discutere di come il nostro ruolo sarebbe cambiato. Wikipedia aveva le idee chiare già allora. D’ora in poi, dissero, sarà più difficile certificare la realtà: i resoconti dei fatti verranno sfidati in modo sempre più aperto. È andata proprio così. Il nostro archivio cerca di funzionare da baluardo della certificazione dei fatti, anche quando i contenuti vengono cancellati da internet». «Per questo — dice Mark Graham, direttore del team che gestisce la Wayback Machine — i giornalisti ci consultano ogni giorno. Ad esempio la stampa ha attinto da noi tutte le informazioni sulle tasse non pagate, le pesanti frasi sulle donne e altro ancora che hanno costretto il commentatore economico conservatore Stephen Moore a ritirarsi dopo che Donald Trump l’aveva designato per il board della Federal Reserve».

Kahle guarda avanti: decentrare la rete, l’ambizioso obiettivo di sottrarsi al controllo dei gatekeeper di internet, soprattutto Google e Facebook. Un’operazione complessa che richiede nuove infrastrutture tecniche e non priva di rischi, a cominciare dall’ulteriore diffusione del bullismo digitale e di nuovi usi criminali della rete, in assenza di una governance ben definita. Ma lui, che ha già organizzato conferenze su questo nelle ultime due estati ottenendo anche la collaborazione dei browser Chrome e Firefox, è convinto che si possa arrivare a una soluzione equilibrata. Lo appoggia anche Tim Bernes Lee, il creatore del World Wide Web, contrariato per come la sua creatura è stata strumentalizzata e impegnato con la sua nuova impresa, Solid, a sviluppare app per restituire autonomia agli utenti delle reti sociali e di internet, a partire dal controllo dei loro dati personali.

Prossima tappa, il DWeb Camp: un nuovo raduno convocato da Internet Archive per metà luglio, stavolta in una fattoria sulla riva dell’oceano, con i tecnologi ospitati in tenda. Forse il progetto di Kahle non arriverà in porto, ma lui lo porta avanti con lucidità e audacia, cercando alleati forti. Perché Chrome, che è di Google, dovrebbe aiutarvi in una battaglia antimonopoli? «Perché Google è, in parte, diversa: a differenza di Facebook o Amazon che possono prosperare anche nei loro vasti recinti privati, Google ha bisogno di un web aperto, davvero universale, per alimentare il suo motore di ricerca».

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