(Questo articolo è stato pubblicato su «la Lettura» #390 del 19 maggio 2019)
«Con la distruzione della biblioteca di
Alessandria andò persa una parte della conoscenza del mondo. Non deve più
accadere. Oggi abbiamo tante biblioteche con i volumi di carta, ma le loro
versioni digitali — il formato che dovrebbe rendere questi tomi eterni — sono
sul web: ciò che è in rete ci pare sia ovunque, ma, in realtà, il sistema è centralizzato
e potenzialmente vulnerabile. Vanno evitate altre distruzioni. Per questo —
racconta a “la Lettura” Brewster Kahle mentre entriamo nella sede della sua
audace impresa tecnologica che ha l’aspetto di un candido tempio marmoreo —,
stiamo costruendo l’Internet Archive e siamo impegnati nella battaglia per
decentralizzare il web».
Kahle dimostra più dei suoi 58 anni ed è
comprensibile: questo scienziato-umanista, che ha cominciato a studiare l’intelligenza
artificiale negli anni Settanta con i precursori Marvin Minsky e Daniel Hillis,
ha vissuto più vite contemporaneamente. Dapprima quella di computer scientist del Mit di Boston che, negli
anni Ottanta, sviluppò i supercomputer di quel tempo da ingegnere capo della
Thinking Machines, creando poi, con sue aziende, Wais, un sistema di
pubblicazione precursore di quello oggi dominante con la sigla www, e Alexa
Internet, un primitivo motore di ricerca acquistato da Amazon nel 1999. Poi
quella dell’imprenditore della conoscenza che si trasforma in filantropo e,
come dice lui, in bibliotecario digitale con il suo InternetArchive.org concepito come il luogo della
conoscenza universale accessibile a tutti gratuitamente. Infine quella
dell’attivista impegnato a proteggere il cittadino navigatore digitale dallo strapotere
dei big tech cercando di creare le condizioni — tecnologiche e politiche — per
una decentralizzazione del web. La sua cattedrale della memoria è un luogo
strano. Costruito per essere chiesa della Christian Science, con la facciata
sovrastata da un imponente colonnato, l’edificio venne acquistato da Kahle,
alla ricerca di una sede più grande per il suo archivio, una decina d’anni fa,
quando la comunità religiosa lo abbandonò. La struttura rispecchia la doppia
missione di questo intellettuale della tecnologia: al piano inferiore, una
sorta di enorme cripta, una settantina di tecnici — stipendiati e volontari —
sono impegnati (insieme a quelli di una trentina di scanning center,
sparsi in otto Paesi) nella digitalizzazioni di milioni di libri, video, brani
musicali, pagine, videogiochi e programmi di software.
Al piano di sopra l’aspetto è ancora
quello della chiesa, solo che ora qui non si radunano i fedeli di una religione ma quelli che
credono nella necessità di superare i monopoli digitali democratizzando il web.
Ai lati della navata due folle di statue di gesso colorate rappresentano non
santi ma tutti coloro che, oggi e negli ultimi 22 anni, hanno contribuito a
costruire l’Internet Archive. Al centro l’altare è sostituito dal podio delle
conferenze per un nuovo internet. In fondo, davanti alle vetrate, gli enormi
armadi lampeggianti e fruscianti delle power unit che gestiscono il traffico:
«Ogni giorno — spiega Kahle — 4 milioni di utenti si rivolgono a noi. Gli
elaboratori stanno lì perché il vento fresco della baia funziona da sistema di
raffreddamento a basso costo».
Un po’ tutto è low cost in questa impresa
filantropica che, racconta il suo fondatore, «ha un bilancio annuale di 18 milioni di
dollari: un decimo di quello della Public Library di San Francisco». Soldi che
vengono da benefattori e, in piccola parte, dallo stesso patrimonio di Kahle i
cui sforzi sono comunque lontani dall’obiettivo di digitalizzare tutta la
conoscenza. Che poi era il progetto — «tutta la conoscenza del mondo alla portata
di un click» — perseguito da Google con ben altri mezzi. «Google — spiega
ancora — ha digitalizzato 25 milioni di libri, ma non li dà a tutti e ha
rallentato, anche per problemi di copyright: si può accedere a quei contenuti
attraverso il motore di ricerca. Noi siamo molto più indietro come volumi:
digitalizziamo ogni giorno mille libri e mezzo miliardo di pagine web, ma siamo
ancora a tre milioni di libri archiviati. Funzioniamo, però, come una vera
biblioteca: diamo in uso l’intero libro gratis per due settimane. Per quelli
coperti da copyright, se qualcuno li sta già
leggendo, ci si deve mettere in lista d’attesa e aspettare che la copia
digitale venga restituita, proprio come avviene con quelle fisiche. Ma nei
nostri archivi c’è anche molto altro: 4 milioni e mezzo di file audio, compresi
180 mila concerti live, e ora abbiamo cominciato a digitalizzare anche vecchi
dischi a 78 giri, compresi quelli prima del 1905, con la registrazione da un
solo lato. E, ancora, 4 milioni di video, 200 mila programmi di software,
miliardi di pagine dei social media, comprese tutte quelle Twitter relative
alle presidenziali Usa del 2016».
Cosa anima gli sforzi di Kahle? Voglia di
rivincita? Alcune delle sue prime innovazioni finirono in Mosaic, il primo
browser (il programma per navigare in internet), creato assemblando — come dice
il nome stesso — componenti di provenienza diversa. Un sistema poi confluito in
Netscape Navigator e, infine, soppiantato da Explorer di Microsoft. Le
soluzioni erano geniali, ma il World Wide Web (www) creato nel 1989 da Tim
Bernes Lee si impose per la sua semplicità e divenne lo standard universale. E
Alexa Internet, tuttora usata da Amazon per certi tipi di ricerche aziendali,
vide calare la sua rilevanza quando — come racconta lo stesso Kahle — Larry
Page e Sergey Brin idearono «un motore di ricerca più potente ed efficiente».
Nella sua battaglia per l’archivio e
contro i monopoli digitali, Kahle non è spinto da astio nei confronti dei
giganti tecnologici: cerca di coinvolgere anche Google nel disegno di un web
decentrato e si dice riconoscente nei confronti di Jeff Bezos che, tra l’altro,
ha dato il nome della società acquistata da Kahle, Alexa, al popolarissimo
assistente vocale di Amazon. «Quando, vent’anni fa, Bezos propose di acquistare
la mia società ero incerto: volevo vendere, ma non potevo perdere l’accesso
alle sue ricerche, molto utili per il digital archive che già stavo costruendo
da un paio d’anni. Gli dissi di sì a un patto: ottenere gratuitamente, con un
ritardo di sei mesi, tutti i risultati delle ricerche fatte su Alexa Internet.
Era una richesta senza precedenti: mi aspettavo un rifiuto. Invece accettò e in
questi vent’anni ha rispettato alla lettera l’impegno».
E allora? Torniamo alla suggestione della
biblioteca di Alessandria, talmente forte per Kahle da averlo indotto a
scegliere quel nome per la sua principale realizzazione tecnologica, Alexa. «Il
mondo — dice — non può vivere un’altra devastazione culturale come quella che
colpì quel luogo, distrutto non da un incendio ma dall’emergere, nei secoli, di
forze sociali e politiche ostili al desiderio di conoscenza profonda e
universale che aveva portato a quella straordinaria realizzazione dell’umanità.
Oggi la civiltà digitale ci ha dato un senso di sicurezza del quale abbiamo
cominciato a percepire la falsità: troppo potere concentrato in poche mani
mentre la nostra presenza su internet, un sistema in teoria decentrato, passa
attraverso poche porte d’accesso che possono essere facilmente controllate dai
governi a fini di sorveglianza politica e censura. O possono essere chiuse
senza preavviso dalle società che ne detengono le chiavi se i relativi business
non sono più redditizi». Di recente gli utenti di MySpace hanno visto svanire
dai loro archivi 50 milioni di brani musicali e molto altro materiale. Errore
tecnico, dice la società: pochi ci credono. Intanto anche Google+, Tumblr e
Flickr cominciano a svuotare gli scaffali digitali. Presto lo faranno anche
altri, come YouTube. L’Internet Archive è una corsa contro il tempo per cercare
di digitalizzare questo materiale prima che venga cancellato: la sua Wayback
Machine registra e archivia mezzo miliardo di pagine al giorno.
«È importante mantenere la memoria di
internet e anche dei social network», sostiene Kahle. «Non solo per soddisfare una
schiera di nostalgici. Dopo l’elezione di Trump noi e le altre due
organizzazioni del web etico, non profit, Wikipedia e la Electronic Frontier
Foundation, ci riunimmo per discutere di come il nostro ruolo sarebbe cambiato.
Wikipedia aveva le idee chiare già allora. D’ora in poi, dissero, sarà più
difficile certificare la realtà: i resoconti dei fatti verranno sfidati in modo
sempre più aperto. È andata proprio così. Il nostro archivio cerca di
funzionare da baluardo della certificazione dei fatti, anche quando i contenuti
vengono cancellati da internet». «Per questo — dice Mark Graham, direttore del
team che gestisce la Wayback Machine — i giornalisti ci consultano ogni giorno.
Ad esempio la stampa ha attinto da noi tutte le informazioni sulle tasse non
pagate, le pesanti frasi sulle donne e altro ancora che hanno costretto il
commentatore economico conservatore Stephen Moore a ritirarsi dopo che Donald
Trump l’aveva designato per il board della Federal Reserve».
Kahle guarda avanti: decentrare la rete,
l’ambizioso obiettivo di sottrarsi al controllo dei gatekeeper di internet, soprattutto Google e
Facebook. Un’operazione complessa che richiede nuove infrastrutture tecniche e
non priva di rischi, a cominciare dall’ulteriore diffusione del bullismo
digitale e di nuovi usi criminali della rete, in assenza di una governance ben
definita. Ma lui, che ha già organizzato conferenze su questo nelle ultime due
estati ottenendo anche la collaborazione dei browser Chrome e Firefox, è
convinto che si possa arrivare a una soluzione equilibrata. Lo appoggia anche
Tim Bernes Lee, il creatore del World Wide Web, contrariato per come la sua
creatura è stata strumentalizzata e impegnato con la sua nuova impresa, Solid,
a sviluppare app per restituire autonomia agli utenti delle reti sociali e di
internet, a partire dal controllo dei loro dati personali.
Prossima tappa, il DWeb Camp: un nuovo raduno
convocato da Internet Archive per metà luglio, stavolta in una fattoria sulla
riva dell’oceano, con i tecnologi ospitati in tenda. Forse il progetto di Kahle
non arriverà in porto, ma lui lo porta avanti con lucidità e audacia, cercando
alleati forti. Perché Chrome, che è di Google, dovrebbe aiutarvi in una
battaglia antimonopoli? «Perché Google è, in parte, diversa: a differenza di
Facebook o Amazon che possono prosperare anche nei loro vasti recinti privati,
Google ha bisogno di un web aperto, davvero universale, per alimentare il suo
motore di ricerca».
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