Omaggio a Walter Benjamin, “Il
capitalismo come religione” - Alessandro Visalli
Il 26
settembre 1940, Walter Benjamin che aveva compiuto da poco i suoi quarantotto
anni, si uccise alla frontiera spagnola per il timore di cadere, lui ebreo,
nelle mani della polizia politica nazista. La Francia era caduta e il filosofo
tedesco, come molti altri, cercava di riparare negli Stati Uniti. Theodor W.
Adorno e Max Horkheimer vi riuscirono, ma lui, che degli amici e colleghi
francofortesi era il più anziano, se pur di poco, no.
Il frammento[1] di cui
vorremmo per lo più parlare è del 1921, ed è forse parte di un progetto più
ampio di “politica” che venti anni dopo non ha ancora compiuto e la morte
impedirà. Anche gli anni nei quali è scritto sono anni tragici e violenti (alla
violenza sono intestati alcuni altri frammenti dell’opera mai nata), la Prima
guerra mondiale, questo conflitto senza precedenti che ha frantumato il senso
dell’Europa, è terminata solo da pochissimi anni, ma anche i tre brevi anni di
pace sono stati, per chi vive in Germania una continua tragedia. Dal 1918 al
1919 fu in corso una continua guerra civile a bassa intensità tra le forze che
si contendevano il potere: le destre che poi troveranno sbocco nel nazismo, le
sinistre divise sull’onda dell’esempio della rivoluzione russa. Dal 1919 è
attiva la Repubblica di Weimar, che fatica a stabilizzarsi.
Nel 1921 vengono costituite le Sturmabteilung (SA).
Ma non c’è
solo il tempo, in questo scritto. C’è anche la dinamica del pensiero,
nell’inseguirsi dei testi e delle controversie. Si tratta di un tema che,
infatti, è molto presente nella riflessione critica sul capitalismo. Nel 1904
Max Weber aveva scritto “L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo”[2], nel 1902
Werner Sombart aveva pubblicato “Il capitalismo moderno”[3], nel quale
il termine stesso è presentato.
L’avvio con
questo doppio testo della scuola storica tedesca è citato[4] da
Benjamin nell’avvio del suo frammento. Ma il tema centrale, quello
dell’illimitatezza del desiderio disperato che la “forma di vita” del
capitalismo introduce nel mondo, rinvia alla riflessione sulle radici che in
quegli stessi anni Sombart inquadra. Il sociologo tedesco distingue tra
“mentalità economica precapitalistica” come “erogazione”, equilibrio tra
quel che si spende e quel che si ottiene nella produzione di beni necessari
all’uomo “vivo”, e “capitalismo”, che è una “organizzazione economica di
scambio” caratterizzata da una nuova collaborazione dominata dal principio del
profitto e dal razionalismo economico. Ovvero dominata dal “calcolo”.
In altre
parole, l’obiettivo “immanente l’idea di organizzazione capitalistica”[5] è il
semplice aumento della quantità di denaro. Questo è il suo “scopo oggettivo”.
Non sfuggirà la relazione di questa riproposta sombartiana con la lezione
marxiana. Il “modo di produzione capitalista”, infatti, anche in Marx (che
Sombart, allora socialista, legge con attenzione) si contraddistingue per
l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di capitale) del tutto indifferente
ai suoi mezzi. La formula tradizionale è rovesciata, il fine ultimo
dell’economia non è più “vivere bene” (nel proprio ruolo), ma creare
“valore”, in linea di principio indefinito ed illimitato. Il
“valore” per il capitalismo non è dettato da una struttura antecedente di
ruoli, o dalla parola di Dio, ma è direttamente una forma sociale, un modo di
creare unità e dissolvere le differenze che diventa visibile nella metrica del
“denaro”. La finalità di tutto diventa quindi creare la massima quantità
possibile di valore, cioè di denaro che lo rappresenta.
Ancora nella
classica lettura di Sombart, ripresa infinite volte, l’uomo nella cultura
tradizionale è invece sotto determinato, incorporato, in una rete sociale di
ruoli e dominato dall’idea “che il tenore di vita debba essere
conforme al proprio ceto sociale”. Ovvero debba essere conforme ai propri
doveri. “Lusso” e “nutrimento” sono le coppie di forme sociali che Sombart
individua, l’uomo non ha sempre lavorato per il profitto, non lo ha fatto per
diventare “ricco”. Anche il “lusso” si capisce male con le categorie
contemporanee, su questo Mauss, con la sua descrizione del “potlatc” aiuta[6] in un
altro testo che esce in quel torno di anni. Il “lusso” è in effetti una
relazione sociale, un dovere ed una responsabilità verso dio e gli
uomini. Verso la fine Benjamin dirà che il capitalismo non ha vie di
uscita, nessuna via “comunitaria” è possibile, resta solo
l’“individuale-materiale”.
Lo stesso
concetto di “economia” è radicalmente diverso nel mondo tradizionale, come
quello di denaro[7]. Lo
scriverà bene Mauss, si vive dentro le proprie creazioni; l’uomo
non è separato dalle sue azioni, non lo è dalle sue cose (c’è
in realtà un legame nelle due direzioni, delle “cose”), ed anche quindi il
“lavoro” (concetto eminentemente capitalista) non è mai separabile dal legame
sociale, dai ranghi, dai ruoli, dai vincoli, dalle responsabilità, dai doveri,
dagli amori. Quando si lavora si dona se stessi, si esercita e si viene
esercitati da una lealtà. Ricorda Luigino Bruni, rileggendo Antonio
Genovesi[8], che ciò
che può essere solo donato (il proprio tempo, ovvero la propria vita) richiede
reciprocità. Pretende riconoscimento e rispetto, pretende cioè riconoscenza.
“Incentivi” e tanto meno “controlli” non possono ottenerla. L’uomo, davvero,
non lavora per il denaro. Questa semplicissima verità era chiara ancora nel
XVIII secolo, anche agli scozzesi, ma oggi non è più capita (anche quando è
enunciata). La nostra religione non ce lo consente più.
Su questa
linea si incontrano quindi anche le riflessioni, coeve di Marcel Mauss
sull’economia del dono e di Gyorg Lukacs sulla reificazione[9], entrambe
pubblicate nel 1923.
Dunque, come
bene dirà una ventina di anni dopo Polanyi ne “La grande trasformazione”[10], testo di
poco successivo alla tragica morte di Benjamin, parlando della rivoluzione
industriale: “separare il lavoro dalle altre attività della vita ed
assoggettarlo alle leggi del mercato significa annullare tutte le forme
organiche”[11], ovvero
estrarre parte della vita dalle relazioni sociali, dalle strutture “totali”,
per distillare un elemento, attraverso lo strumento del “contratto” e la sua
particolare “libertà”[12].
Rispetto a
queste notazioni, tutte di critici, Max Weber all’epoca amico di Sombart prende
una linea meno netta, qualificando l’attività di lucro come un insieme di
atteggiamenti e tecniche, di orientamenti basati sul calcolo continuo, ma su
quello che chiama “un agire sobrio, riflessivo, costante, ma anche audace”[13]. Dove il
socialista Sombart evidenzia anche lo spirito di rapina, l’aggressività
illimitata, l’irrazionalismo (come farà, appunto, Benjamin), il momento selvaggio,
Weber sottolinea l’ambivalenza, ma è affascinato dagli esiti. Inoltre, pone
(sulla base di una limitata ricerca empirica) una relazione tra insorgere del
capitalismo e spirito protestante, luterano e calvinista. La pulsione a
connettere tempo e denaro (Benjamin Franklin, citato a p.76) è trasmettere a
questo la natura “feconda e fruttuosa” del tempo, purché si rispetti l’ethos
della “diligenza e moderazione”. L’irrazionale, ma leale e degno, “guadagnare
denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni
piacere spontaneo” (Franklin[14]), è davvero
spoglio da ogni considerazione eudemonistica o edonistica; si tratta di un
semplice e chiaro “fine a se stesso con tanta purezza, da apparire
come alcunché di totalmente trascendente, in ogni caso, e senz’altro
irrazionale, di fronte alla <felicità> o all’<utilità> del singolo
individuo”.
Il punto è
che questa irrazionalità anche per Weber contiene dei “sentimenti” connessi a
“certe rappresentazioni religiose”. Lo stesso Benjamin Franklin (che era un
deista e quindi non seguiva la confessione calvinista del padre, nella quale
tuttavia era stato educato) se lo chiede, e nell’autobiografia risponde che gli
“uomini” devono “fare denaro” come espressione dell’essere “spediti nelle
proprie faccende” (un versetto della Bibbia) e dell’abilità nella professione
(“beruf”). Deve farlo, insomma, per “dovere professionale”, un dovere
verso il contenuto della propria stessa professione, una serietà interna.
Queste idee, questa etica, questa valorizzazione del “beruf”, del dovere
non è, però, un semplice rispecchiamento, o una sovrastruttura di condizioni
economiche. Per Weber (che polemizza evidentemente con Marx, o, per meglio
dire, lo rovescia) lo precede.
Questo
spirito è, nella sua ambivalenza, quello che lega un interprete contemporaneo
di Weber, come Jurgen Habermas, alla sua sempre riaffermata fiducia (da ultimo
“Verbalizzare il sacro”[15]) nei
“potenziali spirituali” della modernità (globalizzata), pur nella contemporanea
presenza di ben viste “tendenze autodistruttive”. La mossa kantiana che ne
deriva, l’universalismo egualitaristico e individualistico al contempo, muove
quindi dalla perdita di questo “senso religioso” e quindi dallo “sganciamento
degli enunciati morali dal contesto sostanzialistico (cosmologico ed
escatologico)”[16] al quale
erano connessi nel senso ricordato con Sombart e Weber. Di qui, per conservare
comunque la “coscienza normativa”, che è “struttura dello spirito”, si viene
alla unica fondazione residualmente disponibile, basata sulla “razionalità
procedurale”.
Ma si è
davvero perso questo “senso religioso”? La scala è stata davvero gettata dopo essere
“saliti” sulla piattaforma della razionalizzazione del mondo, o piuttosto non
dobbiamo concludere che l’incantesimo ci trattiene ancora. E nella stessa
mossa, inseparabile, la “razionalizzazione” incorpora, in modo bastardo e
irriconoscibile, un “senso religioso” pervertito? Le “tendenze
autodistruttive” di cui parla Habermas (rinviandosi al dibatto
dell’inizio secolo, ovvero alla prima generazione della sua stessa scuola), sono
davvero solo un’aggiunta ai “potenziali spirituali” della modernità, o ne sono
piuttosto il codice?
Per aiutarci
in queste domande andiamo al testo del 1921 di Walter Benjamin: prenderemo le
citazioni dalla raccolta “Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940)”,
sono solo sei pagine, da p.42 a 47, ma sono intensissime. Mentre Weber, secondo
il nostro, vedeva il capitalismo come “una conformazione determinata dalla
religione” (ovvero coevoluta insieme alla trasformazione delle sensibilità
religiose), esso è per Benjamin proprio “un fenomeno essenzialmente
religioso”.
Nel
capitalismo, cioè, “può ravvisarsi una religione”. Oppure, come scrive il
teologo Hugo Assmann, la razionalità economica “ha sequestrato e reso
funzionale certi aspetti essenziali del cristianesimo”[17].
Ciò
significa che “il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle
medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le
cosiddette religioni”. Ma che genere di religione è?
Per Benjamin
si tratta di una “pura religione cultuale”, la più estrema. Un puro
riferimento al culto, a quello che Habermas chiama “il rito” (la ripetizione
dei gesti, delle forme, delle pratiche, denso in sé di significati trattenuti,
congelati in essi, non verbalizzati), senza avere “una teologia”. Il
capitalismo in sé non ha infatti una vera e propria dottrina, si presta ad ogni
possibile vestizione. Si veste anche di socialismo (ad un certo punto,
fulmineamente, dirà). È in effetti più il contrario: ogni dottrina che
scaturisce dal culto, dal rito, ha una sorta di “tonalità religiosa”, è una
“verbalizzazione” che non conclude l’intero campo del culto. Così ha una
tonalità religiosa per Benjamin “l’utilitarismo” (noi potremmo oggi dire il
liberismo).
Secondo
carattere è che si tratta di un culto “senza tregua e senza pietà”.
Ininterrotto, costante, onnipresente, che entra in ogni cellula e tutto
cattura.
Terzo, è un
culto che “genera colpa” (la parola usata è schuld, della quale il
nostro segnala “l’ambiguità demoniaca”) cioè anche “debito”. Come dice “il
capitalismo è verosimilmente il primo caso di culto che non purifica ma colpevolizza
[ed indebita]. Così facendo, tale sistema religioso precipita in un moto immane”.
Cioè anche in una “immane coscienza della colpa [del debito] che non sa
purificarsi [da cui non ci si redime], fa ricorso al culto non per espiazione
in esso di questa colpa, ma per renderla universale, per martellarla nella
coscienza e infine e soprattutto per coinvolgere dio stesso in questa colpa e
interessarlo infine all’espiazione”. Ma questa espiazione non arriva mai;
infatti “sta nell’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo,
resistere sino alla fine, fino alla definitiva, completa, colpevolizzazione di
dio, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo”. Fino alla
“autodistruzione” dello “spirito” (normativo) di cui parla Habermas con
riferimento allo spettacolo dello scatenamento del capitale nella forma
finanziaria che con i suoi “flussi” distrugge sempre di nuovo il mondo.
Ecco, per
Benjamin, dove trova luogo “l’elemento storicamente inaudito del
capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in
frantumi”[18]. La vera e
propria “estensione della disperazione a stato religioso del mondo”, una
disperazione da cui, assurdamente, doversi “attendere la salvezza”. Siamo
nell’assoluta solitudine della fine della trascendenza, e quindi della
implicazione di dio nel destino umano. Nietzsche e Freud sono citati a supporto
di questo codice, pensieri che “appartengono al dominio sacerdotale di questo
culto”. Non si trova più salvezza nella umkehr (nel
‘rivolgimento’, ‘capovolgimento’, ‘conversione’ e quindi ‘pentimento’,
‘metaonia’, e ‘ripartenza’), ma nel “potenziamento”, costante, illimitato. Un
potenziamento che non fa salti, e attraversa il cielo.
Il teologo
della liberazione sudamericano Assmann, pur senza citare Benjamin, né il
dibattito degli anni venti-quaranta (al di fuori del solo Polanyi che, in
qualche modo, ne tira i fili) dirà cose molto simili. La promessa di
autoregolazione senza alcun intervento umano intenzionale assume nel
capitalismo il carattere di “buona novella” e di idolatria. Una buona novella
strettamente connessa ad una “ideologia sacrificale” a danno sistematico della
vita concreta.
Questa
strada della redenzione attraverso il potenziamento, la crescita, è proprio
anche di Marx. Per Benjamin, infatti: parimenti in Marx “il capitalismo che
non inverte la rotta diviene, con interessi ed interessi composti che sono
funzioni della colpa (si badi all’ambiguità demoniaca di questo concetto),
socialismo”. Insomma, anche il socialismo (nella sua versione
industrialista e progressista, ipostatizzante la tecnica e lo sviluppo materiale
delle “forze produttive”) “appartiene al dominio sacerdotale di questo culto”.
Partecipa al culto.
Ma, infatti,
come dice Benjamin “il capitalismo è una religione di mero culto, senza
dogma”[19].
Del resto
del legame tra capitalismo e religione era ben cosciente lo stesso Marx, che
nel terzo volume de “Il Capitale”, alla fine del capitolo trentacinquesimo
sull’argomento dei metalli preziosi e il corso dei cambi scrive
improvvisamente: “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema
creditizio è essenzialmente protestante. <The Scotch hate gold>. Come
carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’
la fede che rende beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel
valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di
produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione
come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il
protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così
il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario”[20].
In effetti,
qui la tesi sembra affine a quella di Weber, ma se ne discosta, “il
capitalismo – come va dimostrato non solo per il calvinismo, ma anche per gli
altri indirizzi cristiani ortodossi – si è sviluppato in occidente in modo
parassitario sul cristianesimo, in modo tale che alla fin fine per
l’essenziale la storia di quest’ultimo è la storia del suo parassita, il
capitalismo”. Come abbiamo cennato su questa relazione tra capitalismo e
religione, oltre il protestantesimo, si potrebbe anche rileggere il bel libro
di Luigino Bruni “Il mercato e il dono”, che è imperniato sulla figura
di un sacerdote e teologo settecentesco, il napoletano Antonio Genovesi (morto
nel 1769), che dal 1755 regge nella prestigiosissima (all’epoca) Università di
Napoli la prima cattedra europea (ovvero mondiale) di “economia” e scrive “Lezioni
di economia civile”[21] che
anticipa di nove anni la più famosa “La ricchezza delle nazioni”[22] (peraltro
anche essa scritta da un autore che insegnava filosofia morale a Glagow
connessa con la chiesa scozzese). Bruni, che legge anche Benjamin e lo cita,
sostiene che il capitalismo “è nato dalla ricerca o dal desiderio del paradiso,
e ancora oggi continua a vivere con promesse di altri paradisi”, paradisi
secolari fondati su quei potentissimi simboli, codici e sogni che sono le merci
ed il denaro stesso. Il capitalismo ha natura, insomma, “religiosa, simbolica e
spirituale” e nulla come la finanza, con la sua auto programmazione
impermeabile a qualsiasi ratio umana lo mostra. Insomma, “nell’età della
riforma il cristianesimo non ha favorito l’emergere del capitalismo, ma si è
trasformato nel capitalismo”.
Ciò che
manca, ciò che è stato sottratto, per guadagnare l’illimitatezza, e dunque
l’ansia che la rende necessaria, sistematicamente, è la “mancanza di una via di
uscita comunitaria, non individuale-materiale”[23].
L’incapacità
del capitalismo di riconoscere l’uomo vivo, con i suoi bisogni non traducibili
nella metrica del valore-denaro, per tradurlo in uomo astratto è fondato su
questa spiritualità necrofila nascosta. Come dio nascosto è il “capitale”.
Note
[1] - Walter Benjamin, “Capitalismo come religione”, 1921, ora in “Senza
scopo finale”, Castelvecchi, 2017, p.42.
[2] - Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[3] - Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902.
[4] - Con riferimento a Weber ed alla tesi della dipendenza del
capitalismo dallo spirito protestante.
[5] - Sombart, cit, p. 162
[6] - Marcel Mauss, “Saggio sul dono”, 1923.
[7] - Sombart, cit, p.130.
[8] - Luigino Bruni, “Il mercato e il dono”, Bocconi, 2016.
[9] - Gyorg Lukacs, “Storia e coscienza di classe”, 1923, Cit. in
Axel Honneth, “Reificazione”,
[10] - Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1942.
[11] - Polanyi, cit., p. 210
[12] - su questo si può leggere anche la
ricostruzione fatta da Axel Honneth in “Il diritto della libertà”, Codice ed. 2015
[13] - Max Weber, cit., p.92
[14] - Max Weber, cit. p.76.
[15] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro”, Laterza 2015.
[16] - Habermas, cit., p. 179
[17] - Hugo Assmann, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi 2020,
ed or. 1990.
[18] - Benjamin, cit., p.43
[19] - cit., p. 45
[20] - Karl Marx, “Il Capitale”, Editori
Riuniti, p.690.
[21] - Antonio Genovesi, “Lezioni di economia
civile”, 1765
[22] - Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”,
1776
[23] - Luigino Bruni, cit., p.46
Walter Benjamin, un pensiero per
tempi bui - Dario
Gentili
Il filosofo morto 80 anni fa è un'icona,
nonostante la complessità del suo pensiero. Ciò accade perché, anche in una
fase in cui non parevano esserci vie di fuga dall'oppressione, intravide la
possibilità di invertire il corso della storia
Le ricorrenze rappresentano talvolta l’occasione per strappare – per
qualche settimana o per qualche mese – all’oblio o a una trasmissione affidata
esclusivamente agli specialisti il pensiero e l’opera di un autore. Quella
della rammemorazione delle ricorrenze – se non godono di per sé di una
celebrazione già solennemente imbastita – è un esercizio a cui si è dedicato
anche Walter Benjamin. A ottant’anni dalla sua morte, tuttavia, il suo non è
certo il caso di un pensatore scomparso dai radar delle mode culturali (e
dunque non solo accademiche) e di cui ci si augura o si promuove la riscoperta.
Anzi, a partire dagli anni Sessanta (vale la pena ricordare che, in vita e fino
ad allora, era un autore praticamente disconosciuto), Benjamin è uno dei pochi
filosofi che ha oltrepassato i confini dei circuiti accademici per far capolino
non di rado nella cosiddetta cultura popolare. È stato ed è fonte d’ispirazione
se non oggetto di film, rappresentazioni teatrali, romanzi, racconti, dipinti,
e la sua stessa immagine è stata riprodotta – per mezzo di quella
«riproducibilità tecnica» che lui indicò come destino dell’arte – in vari stili
e fattezze. Per non parlare della frequenza con cui le citazioni tratte dai
suoi scritti campeggiano ovunque, dalle mostre d’arte alle pagine Facebook. E
sarebbe da rilevarne l’ironia della sorte per un pensatore i cui scritti sono
stati spesso tacciati di oscurità ed ermetismo, aspetto che tra l’altro fece da
argomento per la sua bocciatura all’abilitazione per l’accesso all’università
tedesca (ben prima che il suo essere ebreo potesse comunque precludergliela).
Ora, non si tratta affatto di denunciare snobisticamente l’abuso del suo
pensiero laddove tale utilizzo non sia suffragato da sufficiente conoscenza e competenza.
Sarebbe anzi una posizione, questa, molto poco benjaminiana, considerando come
per lui la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte avesse un potenziale
rivoluzionario e come fosse una delle prerogative del comunismo – l’ha definita
«politicizzazione dell’arte» – affermare una tecnica che fossero le grandi
masse a padroneggiare piuttosto che esserne disciplinate e governate. Non da
meno vedeva nelle forme d’espressione all’epoca più pop – Charlie Chaplin,
Mickey Mouse, il jazz – una portata sovversiva e le anticipazioni di
quell’«uomo nuovo» che avrebbe dovuto soppiantare il soggetto borghese.
Detto ciò, resta il fatto che oggi Benjamin è diventato una sorta di icona.
Ma icona di cosa, che cosa il suo pensiero e la sua figura sono arrivati a
rappresentare? Di certo la sua morte – suicida a Portbou in fuga dai nazisti,
appunto ottant’anni fa – ha contribuito a farne un simbolo della resistenza
estrema contro il nazifascismo e poi di tutti i profughi perseguitati (così,
«profugo», lo definì Bertolt Brecht in una poesia dedicata alla sua morte).
Eppure, difficile sarebbe stabilire che cosa la sua vita è chiamata a
simboleggiare per quanto – a suo dire – fosse dominata suo malgrado dai
dispetti della sorte (che attribuiva a un «omino con la gobba», personaggio
delle filastrocche della sua infanzia berlinese) e – soprattutto nel suo esilio
parigino – dalla precarietà lavorativa ed esistenziale di freelance,
perennemente alla ricerca del miglior compromesso tra le richieste della
committenza e ciò che delle sue concezioni non era negoziabile. Fosse stato per
lui avrebbe trascorso un’esistenza da studioso minuzioso da spendere per la
gran parte nelle biblioteche di quelle metropoli nella cui folla desiderava
rendersi invisibile e sparire. E se non bastasse, a proposito delle Affinità
elettive di Goethe, ha sostenuto categoricamente che mai la vita
dell’autore deve spiegarne l’opera. Insomma, se i posteri hanno elevato la sua
morte a simbolo, mai avrebbe concesso che lo diventasse la sua vita. E allora
cosa è chiamata a suscitare l’icona «Walter Benjamin»? Se sarebbe da evitare –
per rispetto, ripeto, verso una sua inequivocabile presa di posizione teorica –
che lo sia la sua vita, una valenza iconica la riveste paradossalmente proprio
il suo pensiero: la postura teorica e politica del suo pensiero.
Quello di Benjamin è un pensiero per tempi bui: per quei tempi in cui
l’oppressione e l’ingiustizia non solo risultano insopportabili e non sembra
lascino alcuna via di scampo o di fuga, ma sono diventati norma sociale. Il suo
è il pensiero dell’imprevista chance rivoluzionaria, della
possibilità estrema di salvezza, dell’ultima speranza che balena nella più cupa
disperazione. Ecco perché, tra l’altro, la sua vita e soprattutto la sua morte
non possono rappresentare il senso della sua opera; anzi, il suo pensiero
sembra si ponga come redenzione della sua stessa morte. Non a caso la ricerca
di Benjamin si focalizza sulle «epoche di decadenza», in quanto è in esse che
va a rintracciare e far emergere le potenzialità ancora inespresse, che
reclamano l’attualizzazione nel presente. E tale attualizzazione – in cui si
compenetrano conoscenza storica e prassi politica – ha una portata
rivoluzionaria, in grado di invertire il corso della storia, dettato dal continuum del
dominio dei vincitori, il cui corteo trionfale calpesta e destina all’oblio la
memoria di generazioni di sconfitti. Ebbene, questo cumulo di ingiustizia e
oppressione che costituisce la storia è di per sé già sufficiente perché
ogni attimo sia propizio per la rivoluzione, già adesso la
potenza del passato può essere messa in atto nel presente. L’attesa dello
sviluppo delle condizioni oggettive per la rivoluzione deve precipitare
nell’istantaneità della rivolta, che trova il suo innesco in quelle congiunture
in cui il progresso – il continuum della storia – incappa in
punti ciechi e arresti, regredisce, e pertanto le stigmatizza come epoche di
decadenza.
Epoche di decadenza sono state oggetto dei suoi lavori (il Seicento tedesco
in Dramma barocco tedesco; la Parigi della «controrivoluzione» nel
progetto sui passages e su Charles Baudelaire); ma epoche di
decadenza e di crisi sono pure quelle che ha vissuto: la Prima guerra mondiale,
la Repubblica di Weimar, l’avvento del nazifascismo. Benjamin scava nelle epoche
di decadenza del passato per portarne alla luce i motivi più profondi per
salvarli dalla damnatio memoriae che il progresso ha
pronunciato, ma questa operazione da cronista o archivista non mira alla mera
conservazione, bensì a rendere disponibili per il presente tali frammenti di
passato affinché vi rintracci – per usare il termine a lui caro di Baudelaire
– corrispondenze o, detto altrimenti, quell’«indice segreto»
che, all’interno del continuum della storia, ne individua e
collega i momenti di discontinuità. Insomma, lungi da Benjamin
quell’atteggiamento borghese, accidioso e lamentoso, che ha definito – con una
di quelle sue espressioni diventate ormai notorie – «malinconia di sinistra».
Perché quello di Benjamin è sì un pensiero della chance rivoluzionaria
in tempi bui, ma è altrettanto un’analisi delle ragioni per cui le rivoluzioni
del passato non si sono realizzate o sono state sconfitte. Magari al tempo non
erano ancora stati affinati gli strumenti per metterne a fuoco la fotografia
(politica, sociale, economica, artistica), ma viene senz’altro quel tempo che
ne rappresenta l’«ora della leggibilità», che afferra finalmente la fisionomia
di quanto appariva in passato sfocato. Questo è il compito dello storico
materialista, che così si pone a servizio della prassi politica.
Non è destinato soltanto al suo presente storico il lavoro di scavo nelle
epoche di decadenza, che Benjamin ha condotto per farne emergere le
potenzialità rivoluzionarie ancora da attualizzare. Se il suo pensiero ancora
oggi ci sollecita e ci scuote dalla nostra malinconia di sinistra, è perché
esso affida al punto di vista che si assume ora la capacità di
cogliere la leggibilità del passato. Si tratta appunto di una postura ben
situata nel presente, in quelle zone lasciate in ombra e ai margini dalla
narrazione dominante, in quelle forme di vita che il carro dei vincitori lo
vedono sfilare senza potervi prendere posto. E ai margini della strada, con il
passare del tempo, ci si ritrova sempre più numerosi. Parlo ad esempio dei bohémiens di
oggi, di tutti coloro a cui si concede, «nel migliore dei casi, di prendere
parte al godimento, ma mai al potere». Sono parole, queste, con cui Benjamin
descrive la condizione della Bohème nella Parigi di Baudelaire. All’epoca si
trattava di una forma di vita minoritaria, escrescenza della vita
metropolitana, che, in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx
disprezzava definendola «schiuma di tutte le classi». E che però per prima ha
fatto esperienza della mercificazione della sua forma di vita e della messa a
valore capitalista del godimento. Potremmo tuttavia sostenere oggi che una
frase come quella di Benjamin si attagli esclusivamente ad artisti,
sfaccendati, eccentrici, dandy, outsider, opportunisti? Non si
tratta piuttosto di una condizione comune e diffusa, quella di far parte del
mercato del godimento? E in cambio del godimento (o della sua promessa), oggi
come allora, la rinuncia alla politicizzazione della propria forma di vita. È
quanto per Benjamin è accaduto a Baudelaire, il quale nel 1848 era dalla stessa
parte delle barricate del proletariato capeggiato da Louis-Auguste Blanqui.
Nella successiva fase controrivoluzionaria, però, si è venduto sul mercato,
facendosi «impresario di sé stesso» (come non sentire risuonare in
quest’espressione di Benjamin l’«imprenditore di sé stesso» con cui Michel
Foucault definisce la soggettività neoliberale). Ecco, per Benjamin, uno dei
motivi del fallimento della fase rivoluzionaria nella Francia dell’Ottocento è
stato l’aver perso Baudelaire e la Bohème alla causa rivoluzionaria e
comunista, lasciandoli preda del mercato. Una congiuntura «corrispondente» –
l’ora della leggibilità della vicenda di Baudelaire e della Bohème – Benjamin
la troverà poi nell’avvento del cinema, che avrebbe dovuto rappresentare quella
«politicizzazione dell’arte» che le masse avrebbero dovuto condurre e invece –
altra occasione perduta – la tecnica cinematografica è diventata strumento
dell’industria capitalista.
Quelle di Benjamin sono diagnosi che hanno sempre valenza di prognosi. Riporto
un brano ancora tratto dal lavoro su Baudelaire:
Nel momento in cui l’uomo, come forza lavoro, è merce, non ha certo bisogno
di mettersi deliberatamente al posto della merce. Quanto più prende coscienza
del fatto che questo suo modo di essere gli è imposto dal sistema produttivo –
quanto più si proletarizza –, tanto più lo attraversa l’alito gelido
dell’economia mercantile […]. Ma la classe dei piccolo borghesi cui apparteneva
Baudelaire non era ancora arrivata a questo punto. Aveva solo iniziato la
discesa della scala gerarchica di cui stiamo parlando. Molti suoi membri si
sarebbero inevitabilmente accorti, un giorno, della natura di merce della loro
forza lavoro.
Non suona forse – a noi oggi – questa prognosi di Benjamin come una
diagnosi? Magari si fa ancora in tempo.
QUI si può leggere "Per la critica della violenza", di Walter Benjamin
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