Due diverse
forme di impegno intellettuale ci intrattengono come autori o come lettori, e
tranne straordinarie eccezioni tendono a escludersi a vicenda. Sono queste il
saggio e l’arte. L’antitesi tra ricerca e vocazione si evolve nella contesa di
soggetti che vengono quindi trattati e tramandati da due tradizioni parallele.
I contadini figurano tra i soggetti più emblematici di questa contesa:
frequentissimi nell’immaginario artistico e centralissimi nell’attenzione dei
saggisti.
A partire
dal XIX sec., la tradizione storiografica si interroga sull’utilità
dell’invenzione, intesa come congettura narrativa che sopperisce alla scarsità
di documentazioni intime e private dei personaggi rurali.
Nel
saggio Del romanzo storico, pubblicato pochi anni dopo la stesura
della versione definitiva de I Promessi Sposi,
Manzoni promuove la narrazione storica paragonandola a una carta topografica,
che rispetto a quella geografica vuole rappresentare alture e rilievi. Bazzoni
la intende invece come una «gran lente in un punto dell’immenso quadro tracciato
dagli storici». Il quadro è quello della sconfinata scena umana, il punto
isolato sono i contadini e la loro cultura “subalterna”. A Natalie
Zemon Davis dobbiamo il lavoro di ricerca sulla vicenda di Martin Guerre, la
storia di un furto di identità del XV sec. riproposta nel saggio Il
ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del
Cinquecento (Einaudi, 1984), e che nella sua travagliata vicenda
editoriale si è proposta come uno dei principali casi di narrazione
storiografica. Impossibile non ritrovarsi tra i lavori di Carlo
Ginzburg, Il formaggio e i vermi (Einaudi, 1976) e la
postfazione al saggio della Zamon Davis insistono sull’importanza
dell’intreccio tra realtà e finzione che consente di indirizzare la ricerca
verso scene di vita privata, costrette ai margini della scena umana
dall’analfabetismo a dagli altri fattori che hanno causato la scarsità di fonti
scritte. Per secoli, le fonti letterarie hanno inserito il contadino nello
schema della commedia, dicendo ben poco su speranze, sentimenti e percezione
dell’esistenza. A Ginzburg dobbiamo anche la splendida citazione di Céline in
apertura del suo saggio: «Tout ce qui intéressant se passe dans l’ombre… On ne
sait rien de la véritable histoire des hommes» «Tutto quello che è interessante
accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini».
Parallelamente,
la sensibilità degli artisti è solcata da sempre dalla condizione esistenziale
contadina. Nell’immaginario calvinista ad esempio, la loro esistenza è
subordinata alla redenzione, allo sfinimento e alla conquista ascetica della
salvezza. Ma nell’arte, l’idea della salvezza veicola sentimenti di
commozione e fascinazione che in particolar modo emergono prepotentemente in
due opere del XIX sec., l’Angelus di Millet e I mangiatori
di patate di Van Gogh. Sono opere immense e fondamentali per
la storia dell’arte che si sarebbe scritta dopo di loro. L’Angelus avrebbe
prodotto un importante effetto sull’inconscio di Dalí, che con le sue paranoie
aveva lo stesso rapporto che il domatore instaura con la tigre, manipolandole
secondo il metodo paranoico-critico tutto a beneficio dell’arte e di chi vuol
fruirne. A Nuenen, Van Gogh confessa al fratello di sentirsi nauseato dalla
pittura da studio: «Ma andate un po’ a sedervi fuori! Dipingete sul posto! Vi
capiteranno ogni sorta di avventure». La sua malinconia era un pericoloso
ordigno interiore, e i campi e le facce dei contadini hanno provocato la
deflagrazione dei colori «che seguono quasi da se stessi – scriveva a Theo – e
prendendo un colore come punto di partenza, ciò che ne deriva, e come mettervi
vita, mi si presenta chiaramente allo spirito». Sempre a proposito dell’impiego
del colore, vi è un altro irresistibile frammento di questa lettera (n. 429, ottobre
1885) in cui spiega di voler rinunciare al «colore locale», di partire dai
colori della tavolozza piuttosto che da quelli della natura: «della natura
conservo una certa sequenza, una certa esattezza per quanto concerne l’uso dei
colori… ma che il mio colore sia alla lettera esattamente fedele, questo conta
meno per me, purché sulla mia tela appaia bello come nella vita». Millet era
figlio di contadini, partecipava alla vita nei campi e si sbracciava al loro
fianco. Eppure guardava a quella condizione dalla prospettiva di chi non vi
appartiene e ne subisce tutto il fascino proprio in virtù dell’estraneità a
quel contesto. Quando si trasferisce a Nuenen, Van Gogh è solo
all’inizio del suo itinerario, e guarda a quel mondo dalla stessa prospettiva
di Millet, sulla scorta di una educazione protestante e dell’ispirazione di chi
ha varcato i confini di un mondo che gli è estraneo.
Eppure,
all’inizio del Novecento la letteratura ha imparato a ritrarre i contadini
rinunciando in parte all’intento speculativo sociologico, storiografico o
politologico. È bello pensare che abbia ereditato la vocazione pittorica degli
artisti che hanno rappresentato la condizione esistenziale contadina. Chi
meglio di Carlo
Levi, pittore e
scrittore, è in grado di raccontare questa evoluzione letteraria? E chi meglio
di John Steinbeck ha saputo armonizzare cronaca
e vocazione? Cristo si è fermato a Eboli e Furore sono
due romanzi molto diversi, ma entrambi convergono a mezzo di ispirazione
poetica verso l’immagine del contadino. Guardano alla sua condizione da vicino, si
percepiscono i loro sentimenti di solidarietà sociale e di commozione artistica
(in questo, più Levi di Steinbeck). Le due opere assumono la forma di un voyage
intrapreso dagli autori attraverso le tre strade che delimitano la dimensione
contadina: dolore, redenzione, salvezza. Sono opere diverse perché concepite
lungo due viaggi interiori diversi. Per Steinbeck, Furore rappresenta
il suo punto di partenza biografico, l’opera lo consacra come intellettuale e
come cronista. Per Levi, il suo Cristo rappresenta il binario
di arrivo di una vita intensa e romantica sotto il profilo dell’attivismo
politico e delle avventure che forse Steinbeck gli avrebbe invidiato.
Nascono
entrambi nel 1902. Nel 1918 Levi fa la conoscenza di Piero Gobetti, Steinbeck
si iscrive ai corsi della Stanford University che frequenta
saltuariamente. Nel 1926,
Levi aiuta i socialisti a fuggire all’estero, lo stesso anno in cui Ferruccio
Parri e i fratelli Carlo e Nello Rosselli pianificano la fuga di Turati con il
motoscafo che Adriano Olivetti aveva acquistato e testato a sue spese. Queste
erano le amicizie di Carlo Levi, che si avvicinerà al movimento «Giustizia e
Libertà». Levi aveva iniziato a dipingere a circa vent’anni, affascinato dalle
opere di Modigliani e Soutine aveva interpretato il loro grido interiore come
una forma di ribellione culturale anti-gerarchica (e quindi antifascista). In
quegli anni, Steinbeck tenta di affermarsi come scrittore svolgendo diversi
lavori per mantenersi, ma senza riuscire a riscattarsi. Nel 1934, Levi viene
arrestato (per la seconda volta) e confinato dapprima a Grassano e poi a
Galliano, in Lucania. L’anno successivo Steinbeck pubblica Pian della
Tortilla, il suo primo successo, e nel 1936 è inviato in California dal San
Francisco News per condurre un’inchiesta sui braccianti. Nel 1939, quando Levi
si reca in Francia dove scrive Paura e Libertà – un’opera
ideologicamente più impegnata del Cristo ma diffusamente
considerata come il prologo di quest’ultimo – Steinbeck pubblica Furore.
L’esperienza del confino matura nell’inconscio di Carlo Levi per circa dieci
anni, concependola pittoricamente secondo un’armonia cromatica spezzata
nell’accostamento dei colori funerei delle case e di quelli torridi del
paesaggio brullo, conservandone una certa sequenza purché la narrazione appaia
bella come nella vita.
Inizia la
stesura nel dicembre del 1943 nella sua casa di Firenze, quando era occupata
dalle truppe naziste, e lo completa nel luglio successivo. Quell’anno, Steinbeck
giunge a Londra come corrispondente di guerra, si reca poi ad Algeri e da qui
segue la campagna d’Italia, arrivando a Salerno l’11 settembre.
Attorno a
queste due opere si è addensato un pulviscolo di intellettuali che ci
supportano nel recepirne il valore. A Calvino dobbiamo una importantissima
disamina del Cristo, per Furore non si può invece
ignorare la riflessione di Harold Bloom. Proprio come Van Gogh, Carlo Levi ha
varcato i confini del proprio mondo, scoprendo un limite tanto geografico
quanto psicologico. Calvino
ci aiuta a comprendere la portata di questo impatto, e gli effetti letterari
che caratterizzano l’opera. Ci suggerisce infatti come questa sia «direttamente
legata alla testimonianza del nostro tempo. Perché testimoni del nostro tempo
ce ne sono tanti, è la peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che il
testimone della presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo, e
l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo». Si ritrova
ovvero il tema del limite che sta al centro di Cuore di tenebra.
Levi non patisce il terrore di Kurtz, ma avverte, e descrive, lo smarrimento
dovuto alla sua condizione di estraneità in un mondo alienato rispetto alla
storia cristiana occidentale. «Che il mondo vero sia quello e non il nostro,
per lui è una certezza» scrive Calvino, e noi ce ne rendiamo conto tutte le
volte che leggiamo cose come questa: «un brusio indistinto mi gira
attorno in grandi cerchi, e di là c’è un profondo silenzio. Mi par de esser
caduto dal cielo, come una pietra in uno stagno». E ancora, per
descrivere la percezione mistica del non-tempo, Levi non manca di soffermarsi a
contemplare un vecchio cane: «Migliaia di mosche anneravano l’aria e coprivano
le pareti: un vecchio cane giallo stava sdraiato a terra, pieno di una noia
secolare». La Lucania di Levi è fuori dal tempo, subordinata alla magia e
all’impotenza perenne, perfino la morale è astratta rispetto a tutti i suoi
contrari. La povertà è un male intrinseco di tutte le cose, e non vi è alcun
bene da contrapporgli.
La morale
cristiana non è pervenuta a Galliano, non vi può essere un Sermone dei Calanchi
che faccia le veci del Discorso della Montagna, non vi può essere passione ma
solo passività. Soltanto la sensibilità di un poeta può riconoscere la
bellezza che si cela nell’impotenza e nel dolore esistenziale dei contadini. A
Galliano tutti sanno che il marito della vedova è stato ucciso dalla strega
contadina sua amante attraendolo con dei filtri d’amore. Nessuno, oltre Levi,
subirebbe il fascino dello zoppo che soffia nel corpo di una capra morta, allo
scopo di sollevarne la pelle per facilitarne lo scuoiamento a un angolo della
piazzetta, dove «la capra, nuda e spelata come un santo, rimase sola sul
tavolaccio a guardare il cielo».
Può una
narrazione di questo tipo essere considerata una forma di cronaca? Calvino
riconosce a Levi il fatto che le «notizie» da lui riportate «raramente si
trovano sui giornali» e che si tratta di «notizie di paesi dove prima dell’alba
gli uomini sono in marcia per raggiungere i campi lontani, notizie di lutti, di
arresti, di occupazioni di terre, ma anche notizie di filtri d’amore, di
incantesimi, di spiriti notturni». La differenza con la cronaca redazionale che
vuole informarci dei fatti si spiegherebbe a partire dalla vocazione. In Carlo
Levi vi è la stessa vocazione pittorica che si compie non mediante
l’iridescenza del tratto ma a mezzo della forma scritta. Steinbeck aveva un
temperamento diverso rispetto a quello del medico-artista-attivista torinese.
Avvertiva una decisa vocazione letteraria, era ovvero consapevole di saper
imprimere uno stile portentoso alla scrittura. Harold Bloom riconosceva
all’opera Furore il tono biblico già presente in Whitman e
Hemingway, ma che a dispetto di quest’ultimo risulta troppo ovvio e quindi meno
sorprendente. Ma Furore è irrimediabilmente considerata una
delle più audaci cronache letterarie, che adotta come causa la migrazione
degli okies verso la California. Irrimediabile è
inoltre la lettura politologica della cronaca, che spesso rischia di imputare a
Steinbeck l’intenzione di manipolare la narrazione con finalità speculative. La
grandezza di Furore consiste sicuramente nella
rappresentazione politicamente consapevole della condizione socio-economica del
contadino del midwest, ma non per questo è priva di ispirazione poetica, anche
se meno percepibile rispetto al Cristo di Levi. È una delle
opere che meglio esprime l’audacia e l’alterità degli scrittori americani, che
impiegano il proprio talento allo scopo di progettare una struttura narrativa
portentosa retta interamente sulla forza delle allegorie. La più nota è
sicuramente quella della tartaruga, fiera e vivace mentre attraversa la strada
deserta, ma in balìa degli eventi come la famiglia Joad. Eppure c’è qualcosa
che Steinbeck non poteva progettare razionalmente. Questo straordinario
monumento contiene infatti un nucleo vitale, denso di vocazione poetica. Come
nel Cristo, il superamento del confine psicologico è raccontato
sulla scorta di un’angoscia che Steinbeck conosceva bene, quella di sentirsi
costretti a lasciare il proprio habitat perché non vi è altro che polvere, e di
intraprendere una migrazione verso una meta incerta, ma bella da sognare. La
desolazione descritta da Steinbeck è oltretutto quella più tipica
dell’immaginario americano. A leggerlo oggi per la prima volta viene quasi una
certa voglia di America, di deserto, di voglia di migrare.
Giunti alla
meta non vi è che la disillusione, il viaggio non è terminato, perché il
viaggio dei contadini è per sempre e da sempre imprigionato nella condizione
esistenziale impotente che ha commosso gli artisti più grandi e sensibili,
anche di quelli che scegliendo la forma scritta vengono relegati al ruolo di
cronisti, piuttosto che di poeti.
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