Dalle navi dei folli a quelle in cui vengono rinchiusi i migranti, passando per Foucault e Wallace: una breve storia di prigioni in alto mare
Se fino alla primavera scorsa, in questa parte del mondo, si registrava una
tendenza a pensarsi in un presente iperconnesso post-ideologico e in qualche
maniera extrastorico, il 2020 ci ha risbattuti, di violenza, nel nostro essere
nella storia. Da mesi, ci troviamo collettivamente nella situazione perturbante
di non poter progettare se non a cortissimo raggio, mentre viviamo esperienze
di vita – il coprifuoco, l’isolamento, i bollettini serali – che percepiamo
come così profondamente storiche, così intrinsecamente narrabili, e che eravamo
certi non ci sarebbe capitato di vivere mai.
Tra questi oggetti catapultati nel Ventunesimo secolo da qualche decennio o
secolo fa, c’è la quarantena, che letteralmente indica un
isolamento di quaranta giorni ma si è estesa a indicare periodi di isolamento
di lunghezza variabile e relativa (di quattordici giorni prima, ora di dieci,
in Francia di sette). Si tratta di un termine che viene dal mare: durante la
peste del Trecento, le navi provenienti da zone colpite dal morbo venivano
sottoposte a trenta giorni di contumacia, che vennero estesi a quaranta dal
Senato di Venezia nel 1488 – in veneto, una quarantena.
Durante l’epidemia del 2020, la quarantena è un’esperienza che –
generalmente – ognuno vive sulla terraferma, a casa propria. Tuttavia, due
categorie di persone si sono trovate o si stanno trovando a viverla a bordo di
una nave: si tratta dei crocieristi e dei marittimi bloccati a bordo delle navi
da crociera, da un lato, e delle persone in arrivo dalla costa sud del
Mediterraneo, costrette a una quarantena coatta in mare dal governo italiano e
da altri governi europei.
Nel libro dedicato alla nascita della prigione, Sorvegliare e punire, Michel Foucault
presenta due strategie adottate nella storia per la gestione delle grandi
epidemie: quella per la lebbra e quella per la peste. Il primo modello è
fondato sul rituale dell’esclusione e del rigetto dei lebbrosi,
nell’esilio-clausura nei lazzaretti ai margini delle città; il secondo si basa
invece sull’organizzazione dello spazio cittadino, sull’isolamento degli
individui (malati e potenziali malati) in casa, sul controllo sociale
all’interno dello spazio della città. Stando a uno dei regolamenti diffusi in
Francia nel Seicento, quando la peste si manifestava in città:
Il giorno designato, si ordina che ciascuno si chiuda nella propria casa:
proibizione di uscire sotto pena della vita. […] Ogni famiglia avrà fatto le
sue provviste, ma per il vino e il pane saranno state preparate, tra la strada
e l’interno delle case, delle piccole condutture di legno, che permetteranno di
fornire a ciascuno la sua razione, senza che vi sia comunicazione tra fornitori
e abitanti; […] Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della
guardia e, anche tra le cose infette, da un cadavere all’altro i «corvi» che è
indifferente abbandonare alla morte […]. Spazio tagliato con esattezza,
immobile e coagulato. Ciascuno è stivato al suo posto. E se si muove ne va
della vita, contagio o punizione.
Se è vero che, come scrive Foucault, «esiliare il lebbroso e arrestare la
peste non comportano lo stesso sogno politico» perché «l’uno è quello di una
comunità pura, l’altro quello di una società disciplinata», le navi-quarantena
per i profughi e le profughe del Mediterraneo sono oggi esattamente uno spazio
di segregazione della lebbra nell’ambito della gestione generale di una
pestilenza.
La nave dei folli e la nave dei batôsi
Nel corso dei secoli, varie navi della segregazione hanno solcato i mari
europei. Il viaggio di Storia della follia nell’età
classica di Michel Foucault, per esempio, parte
dalla stultifera navis, la nave dei folli: si trattava di uno
«strano battello che fila[va] lungo i fiumi della Renania e i canali
fiamminghi», trasportando i matti da una città all’altra, in una specie di
esilio naturale consegnato al potere esoterico delle acque.
I folli avevano allora spesso un’esistenza vagabonda. Le città li
cacciavano volentieri dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare lontani,
quando non li si affidava a un gruppo di mercanti o di pellegrini. […] Accadeva
spesso che venissero affidati a battellieri […] affidare il folle ai marinai
significa certamente evitare che si aggiri sotto le mura della città,
assicurarsi che andrà lontano, renderlo prigioniero della sua stessa partenza.
Ma a tutto questo l’acqua aggiunge la massa oscura dei suoi valori particolari;
essa porta via, ma fa ancora di più: essa purifica; e inoltre la navigazione
abbandona l’uomo all’incertezza della sorte; là ognuno è affidato al suo
destino, ogni imbarco è potenzialmente l’ultimo.
Se quella era un’imbarcazione della follia, che navigava tra reale e
leggenda e che si fissò in racconti e rappresentazioni artistiche, un’altra
imbarcazione – molto più recente, ma comunque capace di farsi localmente mito –
stette ancorata nel porto di Genova per quasi un secolo: la Garaventa, sulla
quale i ragazzini della città venivano minacciati di venire mandati, se si
comportavano male. Nel 1883, a Genova, un professore di matematica del liceo
Doria di nome Nicolò Garaventa, si mise in testa che ai batôsi, i
minori delinquenti dei caruggi e del porto, bisognasse dare un’istruzione: dopo
aver fondato la Scuola officina Redenzione, la trasferì su una nave-scuola
della Marina militare che battezzò Nave redenzione Garaventa.
Sulla Garaventa, si aveva da mangiare, un’istruzione e s’imparava
un mestiere, quello di marinaio, al quale toccava poi in genere dedicarsi
per il resto della vita. Negli anni in cui il paradigma lombrosiano della
criminalità congenita, per quanto mai egemone, aveva largo seguito nel mondo
istituzionale e amministrativo, Nicolò Garaventa attribuiva al contrario la
delinquenza a cause sociali e ambientali e proponeva una soluzione pratica per
il controllo e il disciplinamento del sottoproletariato urbano: confinare i
suoi figli su una nave. Con il sostegno economico della ricca borghesia
industriale e mercantile genovese, la nave o, meglio, le navi che presero quel
nome e quella funzione, succedendosi, stettero ormeggiate nel porto di
Genova per quasi cento anni: dal 1883 al 1977 (!), imbarcando quasi
dodicimila ragazzi, a ciurme di un centinaio all’anno. La nave era nei fatti un
riformatorio con le regole di un’accademia militare appena travestita da
scuola, ispirata a un progetto insieme caritatevole e disciplinare; non a caso
piacque molto al Fascismo che la inserì nell’Opera nazionale balilla.
Se la Garaventa, il «vascello fantasma», come la soprannominò don Andrea
Gallo, cappellano su quella nave dal 1960 al 1963, è stata la nave dei
ragazzini, qualche mese fa è apparsa sulle scene, a riflesso dell’andamento
demografico di questo secolo in Europa, la nave dei vecchi.
La nave dei vecchi
Ad aprile 2020, verso la fine del lock-down primaverile, Massimiliano Fedriga
e Riccardo Riccardi – governatore e assessore alla salute della regione
Friuli-Venezia Giulia – proposero di allestire una «nave di vecchi» nel golfo di Trieste, tra il Porto
vecchio e la Stazione marittima, dove deportare più di centosessanta anziani
positivi al virus dalle varie case di riposo della città. Per essere
riconvertito in ospizio galleggiante, il traghetto, l’Allegra della Grandi navi
veloci (Gnv), necessitava di una revisione dell’impianto di areazione e della
sostituzione della moquette con materiali lavabili e sarebbe stato affittato
per 700mila euro al mese, più 500mila per la gestione.
Il grande internamento degli anziani, fenomeno strutturale del vecchio continente
– in Italia si calcolano 400mila le persone anziane in strutture pubbliche e
private accreditate – sarebbe così saltato di livello, sia sul piano del
profitto sia su quello del simbolico. Come scriveva la psichiatra Giovanna Del Giudice,
il progetto della nave dei vecchi confermava «la logica della segregazione,
della delega e della rimozione di fasce di cittadine e cittadini invisibili,
non elettori, privi di potere contrattuale per condizione sociale o per
disabilità, considerati solo oggetto di profitto».
La «nave-lazzaretto», che ormai era entrata nel novero del possibile
richiamando l’immaginario di un altro morbo (la lebbra), poi, non si fece:
c’era stata una certa opposizione di gruppi di cittadine e cittadini, la
valutazione negativa del comitato tecnico-scientifico, levata ad alibi dalla
Giunta regionale, e i dubbi della Capitaneria di porto. Nella città dove si erano spalancate ai matti le porte dei manicomi, si evitò il rischio
di aprire una nuova istituzione totale, dove rinchiudere
quella classe di persone – anziane, ospedalizzate o costrette nelle case di
riposo – che aveva già immolato più vite sull’altare della gestione criminale
dell’emergenza sanitaria. Piuttosto, di lì a poco, altre navi-lazzaretto si
sarebbero potute vedere dai porti siciliani e calabresi; si tratta delle
navi-quarantena per i più dannati della terra: quelle e quelli che attraversano
il Mediterraneo da sud a nord.
Le navi-prigione dei migranti
L’immaginario delle migrazioni mediterranee è già costruito, evidentemente,
intorno all’oggetto-barca (i barconi, i gommoni, le navi
SarAR delle Oong, le navi della cosiddetta Marina militare libica, quelle della
Marina italiana), mentre la detenzione coatta di persone senza cittadinanza
italiana è già prassi in Italia nei Centri di permanenza
per il rimpatrio e sulle navi search&rescue alle quali non
viene concesso l’accesso ai porti dopo un salvataggio in mare. La somma di
questi immaginari e queste pratiche ha portato all’istituzione, senza troppo
rumore, delle navi-quarantena per i naufraghi e le naufraghe del Mediterraneo.
Ad aprile, il governo ha disposto che i porti italiani non potessero essere
considerati place of safety a causa dell’epidemia che stava
colpendo in particolare l’Italia (decreto interministeriale 150/2020), cioè ha
nei fatti chiuso i porti; ha ammesso la possibilità dell’utilizzo delle navi in
funzione contenitiva (decreto della Protezione civile 1287/2020); ha avviato la
procedura per il noleggio di navi per l’assistenza e la sorveglianza sanitaria.
A metà mese, veniva stipulato il primo accordo tra lo Stato italiano e una
compagnia di navigazione privata: la ‘Raffaele Rubattino’ della Compagnia
italiana navigazione (Cin) diventava la prima nave-quarantena. Annalisa Camilli
segnalava a luglio su Internazionale che non erano
chiari i protocolli seguiti a bordo delle navi-quarantena; che il confinamento
non era efficace per limitare il contagio, come mostravano studi medici; e che la conformità alle leggi era dubbia,
come scriveva Fulvio Vassallo Paleologo.
La ‘Raffaele Rubattino’, in funzione da metà aprile a inizio maggio, ad
aprile imbarcò 222 persone, tutte negative al Ccoronavirus,
trasferite dalla Alan Kurdi (della Oong Sea-eye) e da Aita Mari (della Oong
Salvamento maritimo humanitario), per un costo di 420mila euro al mese, come ha
ricostruito Altreconomia.
La nave – coincidenza che squarcia il velo del rimosso – portava il nome di
Raffaele Rubattino, il fondatore e armatore della compagnia navale che aveva
acquistato «apparentemente a suo nome, ma realmente nell’interesse e nel conto
del Governo, [alcuni] tratti di terreno situati nella baia di Assab», in
Eritrea, dando il via all’espansione coloniale italiana in Africa orientale. La
striscia di terra della baia di Assab, acquistata privatamente dalla Rubattino per farne un
deposito di carbone, divenne nel 1882 la prima colonia italiana, dalla quale si
estese il tentativo di colonizzazione del Corno d’Africa dell’Italia liberale,
interrotto più volte dalle vittorie della resistenza etiope, come nelle
battaglie di Dogali (1887) e Adua (1896).
Tra le navi-quarantena, al momento sono attive: la Costa Allegra (Costa
crociere), a Palermo; il traghetto Rhapsody (Gnv), a Bari (prima era a
Lampedusa); l’Azzurra (Gnv), ad Augusta; l’Aurelia (Gnv), ad Augusta; la Snav
Adriatico, a Trapani. La Moby Zazà (Cin), invece, è stata operativa dal maggio
a luglio, noleggiata per un milione di euro. Nelle scorse settimane, varie
persone hanno tentato la fuga, come ha raccontato a Vita.it anche il deputato tunisino Majdi Karbai: in
uno dei tentativi di fuga dall’Azzurra, il 4 ottobre, una persona ha perso la
vita in mare. Il 20 maggio, era annegato Bilal Ben Masoud, ventiduenne tunisino che
tentava di raggiungere la costa a nuoto, lanciandosi dalla Moby Zazà. Tra i
morti delle navi-quarantena, c’è anche Abou, quindicenne ivoriano, costretto
all’isolamento sulla Costa Allegra, morto in ospedale a Palermo il 29
settembre.
Nel giro di poco tempo, su quelle navi di contenimento sanitario, si sono
cominciate a svolgere procedure di identificazione e richiesta asilo: in breve,
le navi-quarantena sono state trasformate così in navi-hotspot, rendendo prassi,
grazie al pungolo emergenziale, un procedimento completamente illegale. In più,
a ottobre si sono cominciati a trasferire sulle navi i richiedenti asilo positivi al virus, con
mezzi della Croce Rossa, in presenza di personale di polizia. Il trasferimento
di vari richiedenti asilo dall’hotspot di Lampedusa e da Roma alle
navi-quarantena, irrazionale dal punto di vista sanitario, ha mostrato la reale
intenzione dietro all’istituzione delle navi-quarantena: non già il contenimento
dell’epidemia, ma piuttosto il trasferimento off-shore della selezione degli
esseri umani all’ingresso in Europa, che rientra nel generale progetto europeo
di esternalizzazione delle frontiere, a sud del Mediterraneo, e fuori dall’area
Schengen lungo la Rotta balcanica. L’obiettivo è creazione di molte Ellis
Island mediterranee, isole galleggianti lungo la rotta migratoria più mortale
del mondo dove sbrigare le pratiche burocratiche dello smistamento umano,
facilitando le pratiche di espulsione, svolte grossolanamente sulla base della
nazionalità delle persone e non considerando le storie individuali, come
prevederebbe il diritto d’asilo.
Dall’11 al 18 marzo 1995, lo scrittore statunitense David Foster
Wallace si sottopose «volontariamente e dietro compenso […]
alla crociera Sette Notti ai Caraibi (7nc) a bordo della m.n. Zenith,
una nave da 47.255 tonnellate, di proprietà della Celebrity Crociere»: gli era
stato commissionato un reportage letterario dalla rivista Harper’s,
che poi uscì con il titolo di Una cosa divertente che non farò
mai più. David Foster Wallace, in quella geniale tragicommedia
statunitense che tratteggia uno dei non-luoghi mobili per eccellenza del tardo
capitalismo (la nave da crociera), racconta che
La nave era così bianca e pulita che sembrava sterilizzata. Il blu del mare
dei Caraibi variava dal color coperta-di-neonato-maschio fino al fosforescente;
lo stesso per il cielo. Le temperature erano uterine. Persino il sole sembrava
programmato per le nostre esigenze.
Quelle stesse navi da crociera, incarnazione di un turismo di massa del
consumo, quelle stesse navi da crociera che mostrano il volto farsesco e
insieme violento del capitalismo quando entrano – enormi, mostruose – nel
canale della Giudecca, devastando i fondali e inquinando la laguna, sono
diventate – in questo incubo della paura, della povertà e della sorveglianza –
le gabbie dove trattenere, nell’illegalità resa legale col pretesto
dell’emergenza, le persone che stanno tentando di raggiungere l’Europa. Queste
navi-quarantena procedono lungo le rotte tracciate nei secoli dalla nave dei
folli, dalla Garaventa, la nave-riformatorio, dal progetto della
nave-lazzaretto per gli anziani delle residenze e, procedendo, rendono lo Stato
italiano – tutto, non solo un suo ex ministro dell’Interno – responsabile
autoassolto del sequestro di centinaia di persone, che stanno ora in mezzo ai
mari, intrappolate, a dire con la loro esistenza che non è uguale per tutti, il
virus.
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