articoli di Fabio Troncarelli, Francesco Masala e Maria Teresa Messidoro
per il “giustiziere” che da un secolo ci fa compagnia nelle pagine e negli
schermi della cultura popolare
Z: 100 anni (almeno) ben portati
di
Fabio Troncarelli
Ufficialmente
Zorro nasce il 9 agosto 1919 con la comparsa della prima puntata di The
Curse of Capistrano (La maledizione di Capistrano) in «All-Story
Weekly», una rivista popolare, specializzata in romanzi di avventura, della
catena di Frank Munsey cui apparteneva il più celebre dei pulp-magazines,
«Argosy». La quarta e ultima puntata dell’opera apparve nello stesso
settimanale il 6 settembre dello stesso anno. L’autore del romanzo si chiamava
Johnston McCulley ed era un collaboratore assiduo delle pubblicazioni di
Munsey. Un anno dopo, il 28 settembre 1920, fu proiettato per la prima volta il
film che Douglas Fairbanks e Frank Niblo avevano ricavato dalla storia di
McCulley: The Mark of Zorro (Il segno di Zorro). Fu un
successo senza precedenti: nel Capital Theater di New York, all’epoca il più
grande cinema del mondo, entrarono 19.547 spettatori e prima dell’ultimo
spettacolo dovette intervenire la polizia per disperdere la folla che si
accalcava davanti al botteghino. L’incasso fu di 11.708 dollari: il più alto
guadagno in un giorno dal tempo dei Fratelli Lumières.
Da dove
avea tratto ispirazione McCulley?
Per
capirlo dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente fino al XVII
secolo.
Nel
passato si era pensato che il personaggio di Zorro fosse ispirato a vecchi
fuorilegge californiani: Domingo Hernández, Salomon Pico, Tiburcio Vázquez,
Joaquín Murieta, Jack Powers. Nessuno di questi banditi feroci e violenti è
però simile all’onesto e leale Zorro. L’eroe era un gentiluomo e non viveva
alla macchia: non può essere confuso con un brigante, anche se nella fantasia
popolare il fuorilegge può avere un carattere idealizzato. Neppure va confuso
Zorro con un personaggio come la Primula Rossa, profondamente
reazionario, perchè il nostro eroe è animato da ideali democratici ed è
soprattutto, in embrione, un capo rivoluzionario come Zapata, pur essendo di
origini aristocratiche.
Il
modello per l’eroe mascherato di McCulley è stato in realtà William Lamport, un
avventuriero irlandese che si fece chiamare Guillén Lombardo, la cui storia è
stata scoperta solo recentemente (fabio Troncarelli, La spada e la
croce. Guillén Lombardo e l’Inquisizione in Messico, Roma, ed.
Salerno, 1999). Lamport nacque in Irlanda, a Wexford, intorno al 1615.
Coltissimo, esuberante, spregiudicato, dopo una vita avventurosa fra i campi di
battaglia e le alcove delle dame della nobiltà, emigrò in Messico. Arrestato
nel 1642 e processato dall’Inquisizione per stregoneria e per aver ordito una
congiura “per divenire re del Messico”. Con l’aiuto di cinquecento armati,
Lombardo voleva impadronirsi del potere e affermava di voler liberare tutti gli
schiavi neri e gli indios dall’oppressone degli spagnoli e di voler
liberalizzare i commerci con tutte le nazioni, rompendo con il protezionismo
imposto dalla Spagna. Il progetto non era impossibile: il Portogallo si era
reso indipendente dalla Spagna nel 1640 e anche le colonie come il Brasile si
staccarono dalla Spagna. Lamport fu lasciato per molti anni in prigione senza
una sentenza. I testimoni del processo lo descrivevano come un avventuriero
ambizioso, dedito all’astrologia e alla magia, avido di apprendere i segreti
del peyote dagli stregoni indios. Lamport a sua volta si proclamava di nobile
origine e innocente. Nel 1650 riuscì a evadere con una fuga spettacolare.
Invece di andare lontano, l’uomo rimase a Città del Messico e inondò la città
di “pasquinate” contro l’Inquisizione, che vennero affisse nottetempo sulla
porta della cattedrale e sui muri delle strade. Lo scandalo fu enorme anche
perché era la prima volta che venivano svelate pubblicamente le malefatte del
tribunale avvolte deliberatamente nel più minaccioso mistero. Tradito da un suo
complice, Lamport fu ripreso. La sua prigionia fu orribile. E tuttavia,
nonostante le torture fisiche e psicologiche e i tentativi di assassinio,
Lamport riuscì a scrivere, di nascosto, usando il nerofumo della candela
sciolto in acqua come inchiostro; lenzuola, bende, cartine per preparare i
sigari come carta. Compose magnifici Salmi, in latino e altrettanto magnifiche
orazioni contro l’Inquisizione in spagnolo e latino, quasi follemente convinto
di poter far conoscere al mondo intero le sue opere. Al contrario di quello che
avvenne a Campanella che fu liberato dopo una lunga prigionia e pubblicò i
libri che aveva scritto in carcere, Lamport fu alla fine portato al patibolo e
le sue opere furono gelosamente “custodite” dagli Inquisitori.
Ma
l’avventurierio irlandese riuscì lo stesso a sopravvivere. I suoi versi, i suoi
scritti parlano in suo nome e ci rivelano un uomo a dir poco straordinario, una
sorta di Giordano Bruno emigrato in Messico, che descrive con grande vigore
visioni, lancia anatemi, profezie contro i potenti e afferma, scandalosamente,
che i popoli sono liberi di scegliere da soli il loro re, che la Spagna non ha
mai avuto diritto di assoggettare gli indios, che l’Inquisizione è il regno di
Satana.
La sua
storia, mormorata di nascosto, di bocca in bocca attraversò i secoli. Il
personaggio divenne leggendario: un vendicatore degli oppressi che operava in
segreto e beffava l’Inquisizione. Nella fantasia popolare Guillén Lombard era
l’eroe che colpiva nelle tenebre, che sfidava e ridicolizzava l’Inquisizione e
che voleva proclamarsi re per liberare gli indios e gli schiavi negri.
Vicente Riva Palacio
Il
Generale Vicente Riva Palacio conobbe da bambino, intorno al 1840, la storia di
William Lamport. Cercò di conoscere i dettagli ma non riuscì a sapere molto di
più di tradizioni leggendarie. Dopo aver combattuto con successo contro
Massimiliano, occupata Città del Messico, il Generale si impadronì dei registri
dell’Inquisizione. In essi trovò gli atti di processi celebri e l’ispirazione
per novelle e racconti: grande ammiratore di Alessandro Dumas, scrisse
romanzi-fiume che aveano per protagonisti eroi picareschi e coraggiosi che
sfidavano l’Inquisizione. Uno di loro, svelto di mano e di spada, re dei travestimenti
e delle burle, è Martin Garatuza detto el Zorro, la volpe.
Scartabellando
le carte in suo possesso il Generale scoprì con viva trepidazione di avere
trovato quello che aveva cercato tutta la vita: il processo di William Lamport.
Nel 1872 scrisse il suo migliore romanzo e in seguito – affascinato dalla
ricchezza della storia rispetto alle invenzioni della fantasia – gettò alle
ortiche la narrativa e cominciò a scrivere libri di storia, in cui narrò
l’epopea millenaria del suo Messico.
Nelle Memorie
di un impostore Lamport, chiamato Lampart, è un uomo dalla doppia vita
che di giorno fa il gentiluomo e di notte frequenta una società segreta per
sconfiggere l’Inquisizione. Il miglior amico di Lampart si chiama don Diego e
anche lui ha una doppia vita. I due lavorano in coppia e quando si scatenano
nessuno riesce a frenarli.
Il
romanzo segue da vicino la storia di Lamport-Lampart, introducendo a volte
brani autentici del processo nel corso della narrazione. Tuttavia l’insieme è
frutto della fantasia dell’autore, che fa del suo personaggio un rivoluzionario
in cerca della libertà ma anche una specie di Don Juan alla ricerca dell’amore
puro.
Lampart
è un eroe illuminista e romantico al tempo stesso: un massone che sembrerebbe
vittima dell’oscurantismo della Chiesa e un giovane che sembrerebbe vittima
dell’aridità del cuore, se non riuscisse, con un ultimo guizzo, a salvarsi come
Faust dalla dannazione, riscoprendo la parte più profonda di sè.
La
salvezza sta nel saper trovare il principio vitale, la scintilla divina che c’è
in noi, che nessuna forza può estirpare. Questa soluzione è anticipata da un
evento che assume carattere simbolico: l’eroe fugge dalla prigione piegando il
corpo a forma di “Z” per adattarsi alla apertura di una finestra dalla forma
veramente strana. La scelta della Z come simbolo di salvezza non è casuale. Riva
Palacio era massone e per i massoni la Z – abbreviazione della forma semitica
“Ziza”(splendente) – è simbolo della energia vitale. La Z iscritta nella
stella fiammeggiante o Pentagramma è per i massoni il simbolo del genio capace
di innalzare gli uomini a nobili e grandi imprese.
E’
questo il messaggio più profondo dell’opera. Anche se alla fine l’eroe muore in
una romantica aura di dannazione, il suo cuore non morirà e sarà sempre vivo
nei cuori degli uomini.
Il
romanzo del massone Palacio arrivò al masssone Johnston McCulley, appassionato
di storia e di romanzi storici sin da bambino e specializzato in letture
sull’epoca coloniale messicana. E’ verosimile che McCulley conoscesse la storia
di Lamport anche da due altre fonti pubblicate nel 1908: dal libro di González
Obregon sulle rivolte degli indios e dal volume di Lea sull’Inquisizione
coloniale, che ebbe molto successo a New York, dove lo scrittore aveva fatto il
giornalista e dove Lea era stato propretario di molti autorevoli giornali.
Tuttavia il romanzo di Riva Palacio era il modello più famoso e aveva buone
speranze di essere portato sullo schermo visto che Enrique Castilla e Ladislao
Cortés avevano realizzato negli anni dieci in Messico un film molto applaudito,
tratto proprio da una storia di Riva Palacio, che raccontava la fosca vicenda
di un diabolico spadaccino vissuto negli stessi anni di Lamport, Don
Juan Manuel (1919).
McCulley
saccheggiò senza complimenti i romanzi storici di Palacio, ripescando il
soprannome di Zorro dal Martín Garatuza ma ispirandosi
fondamentalmente alle Memorias de un impostor. Ridusse i complicati
intrighi del messicano ai meccanismi più elementari del romanzo d’azione.
Spostò l’ambientazione da Città del Messico del XVII secolo alla California
spagnola del XVIII-XIX secolo. Sfrondò i dialoghi e le descrizioni. Ma comprese
il significato del simbolo della massoneria e ne fece la chiave di volta di
tutta l’attività del suo eroe. Il fine ultimo del cavaliere dalla doppia vita è
imprimere la “Z” su tutte le cose. Il lettore pensa che sia l’iniziale del
nome. Ma l’iniziato ai misteri sa che è il simbolo della Luce che sconfigge le
Tenebre.
Johston Mc Culley
McCulley
era venuto su dal nulla o quasi, visto che i suoi unici titoli di merito erano
avere fatto il free-lance a New York, l’inviato speciale per
chi pagava meglio e il reporter per una rivista popolare ai limiti del Canard,
specializzata in orribili delitti e oscuri rapimenti, la Police
Magazine. Nel 1908 aveva avuto il coraggio di dare un calcio a tutto e
buttarsi nella narrativa con The Land of the last hopes apparso
proprio su «All-Weekly» del provvidenziale, frugale, geniale, munifico Munsey,
l’uomo che aveva lanciato Tarzan e i racconti marziani di Edgar Rice
Burroughs. Ottenuto il successo e il primo contratto serio della sua vita,
decise di dedicarsi full-time alla narrativa pulp, sfornando un racconto dopo
l’altro e svariando, con disinvoltura pari all’incoscienza, dalla detective
story al romanzo in costume.
McCulley
era un uomo diviso da un aspro conflitto e in fondo somigliava a Burroughs, il
creatore di Tarzan: aveva un cuore primitivo, romantico, ribelle, sepolto vivo,
scorticato vivo dalla brutalità dei Tempi Moderni. Come per Stevenson con Il
Dottor Jekill e Mister Hyde o Mary Shelley con il dottor Frankestein e
il Mostro, il conflitto interiore si materializzava all’esterno nello scontro
selvaggio fra due individui, l’uno l’opposto dell’altro, l’uno la metà
dell’altro, l’uno lo specchio dell’altro. Continuamente nei romanzi di questo
autore che finge di essere uno scrittore di evasione affiora il tema del sosia,
del doppio, dell’alter ego inquietante e inafferrabile che muore,
risorge e si moltiplica in un duello senza fine con la sua ombra. Questa
presenza diabolica, pur derivando da Poe e Hawthorne e dalla letteratura
tardo-romantica, si colora di una sfumatura personale quando McCulley trova il
coraggio e la forza di rivelare la propria angoscia e di confessare che il
conflitto lo spinge ai limiti della follia. In uno dei suoi romanzi più
intensi, Captain Fly-by-Night (1915) il protagonista,
scambiato a torto con il suo doppio malvagio, subisce una particolare
punizione: nessuno gli parla più e tutti fingono di non vederlo. Invisibile,
muto, sordo l’uomo vaga per la città in preda a uno sgomento senza nome,
incerto se la sua è un’allucinazione o un incubo, un incubo espressionista. La
forza vitale, tutta americana, di McCulley trasformerà quest’esperienza
drammatica da bruciante sconfitta in trionfo: la giustizia viene ripristinata e
il doppio malvagio viene punito per aver cercato di usurpare l’identità
dell’eroe
Tra riformismo e rivoluzione
McCulley
è il poeta della rivincita e i suoi personaggi sono spesso individui simili a
Zorro. Uno stesso tipo di eroe dalla doppia personalità è il protagonista
di Captain-Fly-by-Night, romanzo che ebbe un grande successo nel
1915. Nel corso della vicenda si fronteggiano due personaggi che sono l’uno
l’opposto dell’altro: da una parte vi è un avventuriero che ha preparato la
rivolta degli indios contro bianchi della California; dall’altra vi è un
gentiluomo, leale al governatore della California e pronto a battersi contro
gli eccessi dei rivoltosi. Con uno spettacolare colpo di scena si scoprirà solo
alla fine che l’avventuriero era in realtà il gentiluomo, travestitosi per
smascherare i ribelli e che il gentiluomo era l’avventuriero, travestitosi a
sua volta per cogliere di sorpresa i suoi avversari e farsi proclamare re dagli
indios. L’esito finale è ovviamente a favore del gentiluomo, che salva la sua
bella dalle grinfie dell’avventuriero e la California dagli artigli dei
rivoltosi. Ma questo happy end in ossequio alle convenzioni del genere non
riesce a dissipare i dubbi angosciosi che hanno assalito il lettore.
Il
primo dubbio è che la società dei bianchi sia in realtà crudele, dispotica,
tirannica e pronta a condannare alla morte civile chiunque non rientri nei suoi
schemi: il povero gentiluomo, nei panni dell’avventuriero, rischia la vita per
colpa dei pregiudizi e dell’ottusità di coloro che difende lealmente. Anche se
non lo dice espressamente, viene il fondato sospetto che pensi: “Gente simile
non vale la pena aiutarla!”.
Il
secondo dubbio, che scaturisce dal primo, è che la rivolta degli indios in
fondo non sia del tutto sbagliata. McCulley dà voce ai reietti che narrano con
parole accorate i maltrattamenti e le crudeltà dei bianchi e la loro spietata
gestione del potere: queste parole sono così convincenti che per un attimo il
lettore è preso da un sentimento di sacrosanta indignazione, piuttosto
inconsueto per il romanzo di avventure e certamente estraneo ai canoni della
letteratura western del tempo, nella quale gli indiani devono solo cadere come
birilli sotto i colpi della colt o del winchester. Gli indios di McCulley hanno
una fierezza paragonabile a quella dei Mohicani di Fenimore Cooper, ma anche
qualcosa di più del suo romanticismo oleografico. Simili al cane del Richiamo
della foresta di Jack London, essi sono l’incarnazione di un’energia
primordiale che i bianchi non possono frenare, figli di nessuno, senza nome e
senza dignità, che contrappongono la forza bruta a una sedicente civiltà
fondata sulla violenza. La loro rivolta è destinata al fallimento perchè è la
ribellione degli angeli, che non potranno mai riscattarsi: tuttavia, nella loro
cupa, selvaggia, solitaria spinta all’annientamento vi è una grandezza
prometeica che non può essere dimenticata.
Queste
idee sono sintetizzate in un altro romanzo di struttura assai simile, The
Caballero (1936) scritto alcuni anni dopo, che ha come protagonisti il
nobile Don Fernando e il Coguaro, bandito indio dall’animo buono e pronto alla
lotta. La violenza dei bianchi potrebbe scatenare una rivolta dei peones e
degli indiani, ma le sue conseguenze sarebbero funeste anche perchè il capo dei
rivoltosi è un uomo crudele. Don Fernando, che un tempo era un nobile superbo e
che una giusta espiazione ha reso più umano e consapevole, diviene un “doppio
rinnegato” contro la sua classe e contro i rivoltosi. Prendendosi la sua
responsabilità, l’uomo riesce a sedare una ribellione che porterebbe solo
distruzione, pur restando amico dei ribelli di cui sa comprendere le ragioni.
«La rivolta – dice Don Fernando – sarebbe sbagliata… un male! Per punire pochi
uomini ingiusti si dovrebbe fare la guerra a tutti. E’ stato già tentato altre
volte e il risultato è sempre stato un fallimento. La cosa migliore è che i
buoni e i giusti si uniscano e rendano migliore la vita dei peones e degli
indiani e questo avverrà presto. Se ci fosse una rivolta adesso tutti direbbero
che i peones e gli indiani non sono pronti per essere trattati da uomini
civili…». Il Coguaro comprende il senso delle parole del suo amico e dice con
tristezza: «Così noi continueremo a rimanere nelle nostre sofferenze … E’ una
cosa penosa, amigo, rinunciare a ogni speranza». Ma il “doppio rinnegato” lo
consola: «No, Coguaro, non si deve rinunciare alla speranza! Le condizioni
possono cambiare. Con il tempo. Cambiare per il meglio. Senza bisogno di fare
guerra, di spargere sangue…».
La
soluzione giusta sono le rifome sociali e l’egualitarismo della vera democrazia
che consentono di imbrigliare la rivolta e dare uno sbocco costruttivo alla
rabbia distruttiva che fa morire Sansone con tutti i Filistei. Ma perchè un
simile progetto possa attuarsi, perchè possa esserci convivenza tra bianchi e
indios, fra poveri e ricchi, bisogna comprendere dal di dentro le ragioni
morali della rivolta e non avere paura della fame di giustizia dei diseredati.
Non a caso il personaggio “negativo” dell’avventuriero che guida la rivolta
degli indios in Captain-Fly-By-Night verrà ripreso in chiave
“positiva” da McCulleuy trasformandosi in Zorro: ambedue hanno alle spalle la
figura ambigua e affascinante dell’avventuriero William Lamport, che nel XVII
secolo cercò di divenire re del Messico e liberare gli indios e gli schiavi
neri dalla tirannia della Spagna.
Questa
ripresa dello stesso modello per descrivere personaggi opposti ci introduce al
problema sollevato dal terzo dubbio che attanaglia il lettore di Captain-Fly-By-Night:
viene da chiedesi se l’avventuriero e il gentiluomo – così diabolicamente abili
nell’essere ognuno l’opposto di sè stesso – non siano in fondo due facce della
stessa persona. In definitiva è solo il colpo di scena finale che trasforma uno
di due nel “buono” e l’altro nel “cattivo” ma durante tutto il romanzo le loro
qualità sono state così abilmente dissimulate da non risultare affatto
visibili. Questo pezzo di bravura dello scrittore non è solo un efficace
espediente per tenere desta l’attenzione di chi legge: più o meno incosciamente,
avvertiamo la difficoltà di identificarci con un solo protagonista e la
labilità del confine tra bene e male nel cuore del singolo, così come avevamo
avvertito la labilità fra civilizzazione e barbarie nella collettività.
McCulley
è un appassionato idealista mascherato da bruto, com’era un grande idealista
Bourroughs e come in fondo lo era colui che pubblicava i suoi libri, il grande
editore Munsey. Schivo e autoritario è stato descritto da molti come un uomo di
ghiaccio, un affarista, un cinico giocatore interessato solo al denaro e al
successo. Invece questo puritano solitario e silenzioso, che aveva appoggiato
prima la lotta contro i monopoli dei repubblicani di Roosevelt e poi
addirittura i democratici se volevano la giustizia e non si accontentavano
delle idee astratte di Wilson, aveva consacrato la sua esistenza a un ideale e
solo quello: il culto del pubblico, il rispetto per i milioni di americani
senza averi e senza dignità, che avevano diritto alla felicità, uno per uno,
come avevano detto solennemente i padri della patria. Contro la tirannia dei
grandi proprietari, questo chierico laico, “milionario proletario” aveva
concepito il suo lavoro come un sacerdozio contro l’aristocrazia. Anche il cow
boy doveva leggere. Anche l’operaio aveva il diritto di sentirsi protagonista
di un’avventura L’uomo comune aveva il diritto di sognare.
Un
simile ideale comportava la lotta contro la logica brutale del capitalismo
selvaggio e contro il suo cinismo; ma ciò significava attaccare i propri pari e
il sistema stesso che aveva permesso a un outsider come Munsey di emergere.
Il segno di Zorro
A suo
tempo William Lamport suscitò speranze messianiche nel popolo. Ma anche in
seguito. Il Lampart di Riva Palacio vuole restaurre il mitico regno di Anáhuac
(V. Riva Palacio, Memorias de un impostor, México, Porrúa,
1994, pagina 131). Lo Zorro di McCulley fa nascere negli oppressi la speranza
di una rivoluzione che somiglia a quella di Zapata (J. McCulley, La
Maschera di Zorro, Milano, Mondadori, 1998, pag 197: «Verrà il giorno
in cui le persecuzioni finiranno…Verrà il giorno in cui chi ha fondato queste
missioni raccoglierà il frutto del lavoro e del coraggio, invece di vederseli
rubare dai politici corrotti… Verrà il giorno in cui ci saranno mille uomini
come Zorro e anche più»).
Questo
filone “rivoluzionario” coesiste, sin dalle prime apparizioni di Zorro nella
letteratura con un filone “riformista”.
Tanto
il Lampart di Riva Palacio che lo Zorro di McCulley sono, in accordo con la
migliore tradizione massonica, in sostanza due illuministi sotto mentite
spoglie, emuli di Salomone, il maestro di sapienza che nella tradizione
massonica lotta contro le tenebre dell’ignoranza edificando il nuovo Tempio di
Gerusalemme, il mondo nuovo dove la Giustizia e la ragione trionferanno per
sempre. Il nome di Zorro, che senza dubbio significa volpe in spagnolo, può
essere letto anche in un’altra chiave, pronunciandolo all’americana “Zoro”,
come diminutivo di Zorobabel, il restauratore del tempio di Salomone dopo
l’esilio di Babilonia: non a caso è così che lo chiamò lo stesso McCulley nel
titolo del romanzo successivo alla Maledizione di Capistrano, che
al momento della sua pubblicazione su «All Weekly» s’intitolava The
further adventures of Zoro (poi cambiato dall’autore in Zorro). Questo
personaggio ha una grande importanza nella massoneria di rito scozzese: è colui
che sopraintende alla costruzione simbolica del Tempio ed è patrono nel rito
per conseguire il Quindicesimo Grado dell’iniziazione, quando si diviene Cavaliere
della Spada , colui che oltre agli strumenti di lavoro del muratore
stringe in pugno anche la spada per combattere i nemici. Invocando il nome di
Zorro, il cavaliere con la spada, si evoca anche quello di Zorobabel, il
costruttore del Tempio e protettore del Cavaliere con la Spada massonico: cioé
colui che cerca di realizzare un mondo ideale e perfetto, nel quale siano
banditi ignoranza e pregiudizio e trionfino la ragione e la cultura. Nonostante
l’apparenza, Zorro non è un semplice uomo d’armi e d’azione: ma un eroe che
ricorre alla forza e alla spada per affermare la cultura e la saggezza. E del
resto Don Diego e La Vega non si lamenta di continuo perchè, in un’epoca di
turbamento, nessuno ascolta più la musica o legge i poeti ?
Al di
là delle connotazioni politiche, il mito di Zorro ha una valenza antropologica
che non possiamo trascurare.
L’attrattiva
di Zorro per il lettore e per lo spettatore dipende dal fatto che pur essendo
un cavaliere senza macchia e senza paura al di fuori del mondo moderno, un
personaggio “arcaico” come Robin Hood, presenta invece aspetti decisamente
moderni come la scissione fra due parti della stessa personalità e una violenta
carica antiistituzionale che si trasforma, alla prova dei fatti, in un
atteggiamento egualitario e democratico. Queste componenti moderne non
permetterebbero all’eroe di avere successo e anzi sarebbero addirittura
ostacoli contro nemici troppo forti. Ma Zorro riesce a ritrovare un’unità
proprio perchè non cerca di sanare sbrigativamente le sue scissioni, non
pretende di essere un duro e si comporta con intelligenza trasformando la
debolezza in forza: anzi, per essere più precisi, la forza di Zorro sta proprio
nella sua debolezza. Come Ulisse di fronte al Ciclope, egli riesce finalmente a
essere qualcuno perchè il suo nome è “nessuno”. Psicoanaliticamente si potrebbe
dire che accettando l’esistenza di parti scisse, senza pretendere di riunirle
forzatamente, l’eroe riesce a trovare una unità psicologica altrimenti
precaria: il suo destino è di essere l’eroe della complessità e non un
individuo tutto d’un pezzo, l’uomo senza qualità che trova l’armonia nella
disarmonia.
Per
merito dello stesso processo mentale anche la sua carica violenta e distruttiva
riesce a incanalarsi e a divenire costruttiva. Saper accettare la propria doppiezza:
questo il segreto di Zorro e questa la profonda ragione del suo fascino.
Il mio Zorro su piccolo (e grande) schermo
di
Francesco Masala
Per me
Zorro e il sergente Garcia (e Bernardo, naturalmente) sono quelli delle decine
e decine di telefilm che la televisione trasmetteva dal 1966 (QUI un episodio) con
un po’ di anni di ritardo rispetto alla versione originale: il primo amore non
si dimentica mai.
Noi
bambini interrompevamo qualsiasi gioco, come una tregua, e tutti ci fermavamo a
guardare le avventure di Zorro, magari insieme a casa di qualcuno, non tutti
avevano la televisione.
Ascoltare
la canzone della sigle iniziale – QUI la sigla in
italiano (e QUI la
sigla in inglese) – era un’emozione indescrivibile, che ci portava in un mondo
altro, dove il nostro eroe vinceva sempre.
Poi ho
saputo che ci sono state una serie televisiva statunitense del 1990 (qui)
e una serie animata francese (QUI un episodio, su
Rai Gulp dal 2016) ma non so niente di queste: so di non sapere.
Al
cinema, invece, tra i film che si trovano in rete, possiamo citare, del 1920, “Il
segno di Zorro” (The Mark of Zorro) è un film muto con
Douglas Fairbanks
ma
anche il successivo (1940) “Il segno di Zorro” di Rouben
Mamoulian, con Tyrone Power, il più famoso di tutti i film su Zorro
e il
bellissimo – almeno per chi l’ha visto da bambino – “I nipoti di Zorro”
con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia
Zorro latino americano
di
Maria Teresa Messidoro (*)
Conoscere
il personaggio attraverso gli occhi dei latinoamericani, possibilmente donne. E
anche il cinema cambia occhiali, creando uno Zorro femminile.
Partiamo dall’inizio, da un evento senza il quale Diego de la Vega non sarebbe
mai nato. Tutto cominciò in Alta California, nella missione di San Gabriel,
nell’anno 1790 di Nostro Signore. A quel tempo la missione era guidata da padre
Mendoza, un francescano con spalle da boscaiolo e un aspetto più giovanile dei
suoi quarant’anni ben spesi, energico e autoritario, per il quale la parte più
impegnativa del ministero era mettere in pratica la lezione di umiltà e bontà
di san Francesco d’Assisi. …”
Comincia
così Zorro, L’inizio della leggenda di Isabel
Allende (1).
Il
romanzo si inserisce nel filone del realismo magico, tipico della Allende,
presentandosi come il racconto dell’antefatto degli eventi comunemente conosciuti
della storia di Zorro, sia cartacei che attraverso le pellicole
cinematografiche.
Innanzitutto
– per la Allende – Zorro è un meticcio, figlio di un capitano delle Asturie e
di una guerriera amerindia Toypurnia. Inviato a Barcellona dal padre per
completare la sua educazione, Diego De la Vega, nella città occupata
dall’esercito francese napoleonico, agli inizi del 1800, scopre l’amore e la
sua innata repulsione delle ingiustizie.
Dopo la
sconfitta francese, De la Vega ritorna in California, deciso a combattere
contro il tiranno Don Rafael Moncada, in difesa dei californiani, contro i soprusi
dei nobili, padroni delle terre. Per fare questo, utilizzando quanto appreso
durante il suo soggiorno in Spagna, diventerà Zorro, sempre aiutato dal fedele
amico d’infanzia Bernardo, divenuto muto dopo aver assistito alle violenze
contro la madre, terminate con il suo assassinio, e da Tornado, il fido
cavallo.
“Desidero che Zorro sia il fondamento della mia vita, Bernardo. Mi
dedicherò a combattere per la giustizia e ti invito ad
accompagnarmi. Insieme ci moltiplicheremo per mille, confondendo i nostri nemici.
Ci saranno due Zorro, tu ed io, ma nessuno li vedrà ma insieme.”
Originale
il personaggio della nonna di Zorro, Civetta Bianca, una sciamana, guida
spirituale della sua tribù; grazie a lei Diego De la Vega scoprirà che il suo
totem, il guardiano spirituale, sarà la volpe.
“«Lo zorro, la tua volpe, ti ha salvato. E’ il tuo animale
totemico, la tua guida spirituale» spiegò. «Devi sviluppare la sua
abilità, la sua astuzia e la sua intelligenza. La luna è tua madre e le grotte
sono la tua casa. Come la volpe, avrai il compito di scoprire ciò che si cela
nell’oscurità, dissimulare, nascondendoti di giorno e agendo di notte»”
Come
sostiene Chiara Nicolazzo nella sua recensione al libro della Allende,
l’autrice riesce a dare una prospettiva più ampia al personaggio Zorro, “…
regalando al lettore la possibilità di capirlo per davvero, di entrare nel suo
cuore e di condividere le sue azioni. Leggendo delle sue
origini, questo eroe diventa, in qualche modo, necessario” (2).
Zorro è
necessario, nella cultura latinoamericana, anche per riprendere alcuni
personaggi realmente esistiti: Joaquín Murieta e Guillén Lombardo (3)
Joaquín Murieta diventa famoso suo
malgrado.
Alla
metà del 1800, precisamente nel 1848, gli Stati Uniti invadono il Messico,
sottraendogli il 55% delle sue terre: Texas, California e New Messico vengono
annessi al già potente paese nordamericano, che inizia lo sfruttamento delle
risorse minerarie della zona.
Inizia
l’epoca delle Febbre dell’Oro. Il giovane Murieta viveva come tanti in
California, insieme a sua moglie, per trarre il massimo profitto dalla
industria mineraria. Ma durante uno strano scontro armato vicino a casa sua,
perde la vita la sua sposa, probabilmente vittima di una ondata di ostilità
contro gli immigranti latini. Da quel momento, Murieta si trasforma,
lanciandosi in una serie di attacchi e saccheggi per vendicarsi..
Inizia
a trasformarsi per i messicani in una specie di Robin Hood, diventando un mito,
che ancor oggi vive, considerato un simbolo della resistenza messicana contro
l’invasore bianco.
Murieta
darà vita a quella banda che passerà alla storia come la “Banda de los
Joaquines”, composta da 5 suoi seguaci: Joaquín Botellier, Joaquín
Carrillo, Joaquín Ocomoreña, Joaquín Valezuela, a cui si aggiungerà la sua
ombra, Manuel García, Jack Tres Dedos.
Per
sconfiggerli, il Congresso della California dovrà formare un corpo speciale, i
California Ranger.
Ci
riusciranno nel 1853, quando Murieta verrà assassinato.
Secondo alcuni, questo Joaquín ha ispirato
il personaggio di Zorro a scrittori e cinematografi: resta il fatto che per i
messicani, e per tutti latino americani, questo eroe popolare a cavallo non
combatte contro la Corona spagnola ma contro gli odiati Stati Uniti.
E non è
poco.
Guillén Lombardo, invece, era un
irlandese giunto in Messico nel 1640, al tempo della Colonia. Probabilmente
agente al servizio degli spagnoli, ad appena 25 anni, è già conosciuto come un
valoroso spadaccino; coinvolto in una serie di scandali con alcune donne
dell’alta società locale, attira su di sé l’attenzione dell’Inquisizione, che
l’accusa di stregoneria, ma soprattutto di cospirazione.
Perché,
secondo la leggenda, ben presto Lombardo si era lasciato sedurre dalle mire
separatiste locali. Ed infatti, quando venne arrestato, tra i suoi effetti
personali, l’Inquisizione troverà un libretto dal titolo inequivocabile: “Proclama
por la liberación de la nueva España de la sujeción a la Corona de Castilla y
sublevación de sus naturales”.
E
sempre secondo la leggenda creatasi intorno al suo personaggio, durante gli
anni di carcere, Lombardo si distinguerà per la sottigliezza dei suoi argomenti
libertari, contro l’imposizione della Corona e per il riscatto dei messicani, e
latinoamericani in genere.
Dopo un
tentativo di fuga, viene ripreso e bruciato sul rogo nel 1659.
Quando
nel 1870, lo scrittore messicano, Vicente Riva Palacio, riprende la sua storia,
racconta che i suoi seguaci erano soliti collocare per terra il simbolo “Z”.
E
soltanto alcuni mesi fa, lo scrittore messicano Gonmzalo Lizardo pubblica il
romanzo storico “Memorias de un basilisco” (4), dedicato
a questo poeta e rivoluzionario, ardente indipendentista, bruciato
ingiustamente dalla terribile Inquisizione.
Lombardo
non è più un estraneo, un irlandese al servizio della Corona.
E’ un
messicano tra i tanti, paladino dei più deboli.
Come
Zorro.
Anzi
come il novello Zorro al femminile.
Perché
indiscrezioni recenti ci parlano di una nuova serie cinematografica, diretta da
Alfredo Barrios Junior, con i produttori Ben Silverman e Howard Owens, della
Propagat, in cui apparirà una discendente di Zorro, Sola Dominguez, una artista
underground dei giorni nostri, che lotta contro le ingiustizie ed è
costantemente minacciata dalle varie organizzazioni criminali di cui sventa i
piani.
Non
sappiamo se questa scelta è frutto o meno del empoderamiento de las
mujeres – la riappropriazione del potere da parte delle
donne (5) – ma resta il fatto che anche i difensori dei
diritti umani vestono oggi da donna, come la realtà latinoamericana insegna.
Per
piacere, non chiamiamola Zorra, saremmo attaccati di
maschilismo. (6)
Note.
1.
Zorro, l’inizio di una leggenda, Isabel Allende,
Feltrinelli, …..
2.
https://ilmiomondoinventato.com/2017/05/26/zorro-di-isabel-allende/
3.
http://ntd.la/la-verdadera-historia-de-el-zorro/
4.
Nei
bestiari e nelle leggende greche ed europee, il basilisco è una creatura
mitologica, detta anche re dei serpenti, che ha il potere di uccidere o pietrificare
con un solo sguardo diretto negli occhi.
5.
Normalmente
detta Women’s Empowerment, ma una latinoamericanista come sono io non può
ricorrere alla lingua inglese, giammai.
6.
“Zorro è un uomo astuto, zorra è
invece una prostituta. Come fulano è un tizio qualsiasi, ma
fulana è una donna di malaffare… Perché in spagnolo almeno 50 parole al
maschile denotano qualità positive ed al femminile servono per indicare le
prostitute..” Scriveva Calra Ferrero nel 2015 in questo articolo sul linguaggio
sessista https://smoda.elpais.com/moda/por-que-ser-una-zorra-es-malo-y-ser-un-zorro-es-bueno-y-otros-ejemplos-del-lenguaje-sexista/
(*)
Vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento, www.lisanga.org
DUE NOTICINE DELLA “BOTTEGA”
§
Anche
in italiano «zorra» (o «zora») ha un significato dispregiativo. Ma su
questo torneremo prossimamente … restate sintonizzati sulla “bottega”.
§
Come
colonna sonora per questo dossier è vivamente consigliato «Zorro», il
recente cd del Francesco Bearzatti Tinissima 4et: sono 37 minuti
travolgenti con Bearzatti (sax, clarinetto, flauto indiano), Giovanni Falzone
(trombe varie e flicorno), Danilo Gallo (basso e chitarre), Zeno De Rossi
(batteria, fischio e percussioni). Per saperne di più: www.CamJazz.com
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