1. La strategia Next Generation Eu varata un anno fa dalla nuova
Commissione europea e il suo principale strumento operativo, il Recovery
and Resilience Facility da 672,5 miliardi di euro, tra sovvenzioni a
fondo perduto e prestiti a tassi contenuti e rimborsabili a lunga scadenza,
entro il 2058, hanno aperto speranze e aspettative, pur permanendo
ancora molte incertezze sulle modalità concrete di erogazione.
Il combinato disposto tra le necessità di fronteggiare la crisi
sanitaria (attraverso il Programma anti-pandemico della Banca centrale europea Pandemic
Emergency Purchase Programme, PEPP) e il riscaldamento climatico (con
il piano di investimenti dell’European Green Deal) ha scardinato
l’impianto teorico del neoliberismo e il suo dogma monetarista. Si chiude
un lungo ciclo quarantennale di politica economica codificato in Europa dal
Trattato sull’Unione di Maastricht del 1992. Il Patto di stabilità è
stato “sospeso”, l’austerity sembra un brutto ricordo e la Banca centrale
europea è stata autorizzata a creare moneta attraverso l’acquisto dei titoli
del debito pubblico degli stati e l’erogazione di “stimoli monetari” “non
convenzionali”, inaugurati già da Mario Draghi con il Quantitative Easing.
Così gli stati potranno tornare al “deficit spending” secondo un
rinverdito keynesismo. Già si parla di rendere permanente la “monetizzazione”
del debito pubblico, sterilizzando il pagamento degli interessi e dilazionando
sine die i piani di rimborso. Staremo a vedere quali altre alchimie (giri
contabili tra i bilanci del sistema delle banche centrali e quelli degli stati
nazionali) usciranno dagli alambicchi dei segreti gabinetti dell’alta finanza
per creare capitale ex nhilo e consentire agli stati di indebitarsi “a costo
zero”, evitando, miracolosamente, a un tempo, depressione e inflazione e,
ovviamente, continuando a garantire buoni rendimenti agli investitori privati,
poiché temo che i possessori dei titoli di credito – per quanto “pazienti”
possano essere diventati – difficilmente rinunceranno ai loro bravi ROI (Return
on investment). La moltiplicazione dei pani e dei pesci è uno
scherzo da bambini in confronto a ciò che produce la “fabbrica della finanza”
che è già riuscita a mettere in circolazione 2,2 milioni di miliardi di
prodotti finanziari derivati, cioè privi di “sottostanti” reali, pari a 33
volte il Pil mondiale. Mah! Perdonate lo scetticismo, ma temo che vi sia
una base di verità anche nel pensiero liberista quando afferma grevemente che
“non c’è pasto gratis” e che ogni decisione di spesa comporta un costo che
qualcuno, in qualche parte del mondo, in qualche momento dovrà pagare.
Rinunciamo, quindi, per ora, a capire le misteriose incoerenze della
macroeconomia post-fordista e post-moderna e accontentiamoci di prendere ciò
che di buono ha provocato la crisi sanitaria, economica e climatica. Dopo
decenni di demonizzazione il debito pubblico non è più un tabù, il denaro
non è più un problema e gli stati possono tornare a spendere qualche soldo a
favore delle cittadine e dei cittadini.
Sovvenzioni e prestiti
2. Si prevede che in Italia con il Recovery Fund possano
arrivare 208 miliardi (81 di sovvenzioni e 127 da prestiti),
tre volte tanto quanto usualmente ne mette a disposizione l’UE. In più vi sono
45 mld residui da fondi strutturali non spesi (l’Italia infatti è riuscita ad
utilizzarne solo 28 dei 72 mld messi a disposizione dalla Ue nella
programmazione 2014-2020) e alti che potrebbero venire dai programmi Life,
Green Deal Cal, ReacEU (politiche regionali di coesione), Azioni urbane
innovative, Bando Shift2rail (vedi il bene informato sito: www.economiacircolare.com). Tutti i programmi
della Ue sono ispirati al Green Deal e dovranno sostenere interventi mirati
alla mitigazione e all’adattamento climatico (al fine di raggiungere la
neutralità delle emissioni di gas climalteranti entro il 2050), all’innovazione
digitale, alla inclusione sociale e alla “giusta transizione”. Progetti e
investimenti saranno quindi valutati e vagliati dalle Direzioni generali della
Ue secondo i parametri della sostenibilità ambientale e della coesione sociale.
La road map è già da tempo stata tracciata dall’Accodo di Parigi – che Joe
Biden sicuramente rilancerà –, dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile
dell’Onu del 2015 e dal Green Deal di Ursula von der Leyen che in occasione del
suo primo discorso sullo stato dell’Unione ha affermato: “La missione del Green
Deal comporta molto di più che un taglio di emissioni, si tratta di creare un
mondo più forte in cui vivere. Dobbiamo cambiare il modo in cui trattiamo la
natura” (dai giornali del 15 settembre 2020) .
Siamo quindi finalmente giunti alla vigilia del Great Reset del
sistema capitalistico mondiale, come annunciato dal fondatore e presidente del
World Economic Forum, Klaus Schwab? La tragedia della pandemia e il rischio
catastrofico del riscaldamento globale sono shock capaci di innescare una vera
inversione di rotta da una economia di crescita predatoria, estrattivista ed
odiosamente discriminante a un nuovo modello di “sviluppo sostenibile”? Vi sarà
una trasformazione sostanziale delle strutture di potere dominanti in direzione
di un riequilibrio delle forze tra Nord e Sud del mondo, tra capitale e lavoro,
tra i generi, tra le generazioni e tra il genere umano e Gaia? Vedremo,
insomma, un grande riaggiustamento dei meccanismi di sviluppo all’altezza
dell’urgenza e della gravità delle crisi sistemiche che attraversa il percorso
di civilizzazione del mondo che abbiamo fin qui conosciuto?
Il quadro complessivo
3. Sappiamo che il market system è capace di
fare cose che noi umani nemmeno sappiamo immaginarci, parafrasando
l’androide Roy in Blade Runner di Ridley Scott. Abbiamo visto, e probabilmente
vedremo anche in futuro, molte “varieties of capitlism”. È bene quindi
prendere sul serio la sfida del Green Deal e analizzare concretamente, senza
prevenzioni mentali, le misure e i piani che verranno finanziati e avviati.
Diverse, infatti, potrebbero essere gli indirizzi che i decision-makers
vorranno dare ai piani nazionali di Recovery. Potranno concepirli come uno
strumento finanziario di mera ripartenza e restaurazione dei meccanismi di crescita
precedenti la crisi pandemica, oppure come percorso di ravvedimento, presa in
cura, guarigione e reintegro di una condizione di vita salubre e socialmente
equa.
Vi è il rischio che gli attori economici e i decisori pubblici siano
attratti solo dai denari freschi da utilizzare a favore di questo o quell’altro
comparto economico, per affrontare questa o quella emergenza sanitaria,
occupazionale, ambientale e venga perso di vista invece il quadro complessivo,
sistemico che regola i modi di produzione, la creazione e la distribuzione
della ricchezza sociale e l’utilizzazione delle risorse umane e naturali
disponibili. Hanno ammonito Fabrizio Barca e Sabina De Luca, del Forum
Disuguaglianze e Diversità, a proposito della massa di richieste che il Governo
sta rastrellando dai ministeri e dalle Regioni: “una macedonia di progetti
priva di strategia e obiettivi chiari e condivisi” (Per usare i fondi
europei, Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020).
Dalla Rete 5G alla Tav
4. Il confronto aperto sul Recovery Fund verte, prima
di tutto, sui criteri di valutazione e selezione dei progetti e delle misure
normative che dovranno essere adottati dal governo. Senato e Camera (il
13 ottobre) hanno approvato una risoluzione alquanto generica sulle linee di
utilizzo dei fondi, sulla scia di quanto già stabilito a luglio dal
Consiglio Europeo e ora in fase di definizione con Parlamento e Commissione. La
prima “condizione” è data dall’impiego dei finanziamenti finalizzati (per una
soglia che sarà probabilmente fissata a non meno del 40%) al miglioramento
dello scenario climatico descritto dall’Accordo di Parigi (contenimento
dell’aumento della temperatura entro i 2°, meglio ad 1,5°, con il
raggiungimento della “neutralità climatica” entro il 2050). Poi viene la
“transizione digitale e l’aumento della produttività”, per una quota del 20%
degli investimenti. Infine bisognerà promuovere l’“equità” e la coesione
migliorando le “infrastrutture sociali”, l’istruzione, la sanità, uguaglianza
di genere. Il tutto avendo cura di spendere rapidamente i denari e “promuovere
investimenti privati”. Dal canto suo il governo italiano si è dato delle Linee
Guida integrate con la legge di bilancio pluriennale traguardata al 2026. Gli
obiettivi primari sono: raddoppiare il tasso di crescita dell’economia del
1,6%, aumentare l’occupazione di dieci punti, “supportare la transizione verde
e digitale”, migliorare la “resilienza. Nello sterminato elenco di progetti e
progettini raccolto dal Comitato interministeriale costituito presso la
Presidenza del Consiglio di ministri ce n’è per tutti i gusti! Una
lenzuolata di interventi che iniziano dalla realizzazione della Rete 5G, passa
per la robotica, arriva al completamento della Alta velocità e di 39 opere
stradali, non si dimentica del “Marchio Italia sostenibile”, né dell’“Italia in
bici”, per finire nel sostegno alla natalità, nel rafforzamento della fiducia
nelle istituzioni e nel restituire competitività alle imprese attraverso una
”quarta rivoluzione industriale” basata su tecnologie innovative e sostenibili.
Il governo ha anche attrezzato allo scopo di selezionare i progetti un nucleo
di valutazione presso il Comitato interministeriale per la programmazione
economica che dallo scorso anno ha cambiato denominazione acquisendo la esse di
Sostenibile: CIPES.
La loro resilienza
5. In vista della predisposizione del Piano nazionale per la ripresa e la
resilienza – ultima data per concordare gli investimenti con la Ue: 20 aprile
2021 – in queste settimane abbiamo assistito a un gran fermento di incontri,
presentazioni di ricerche, discussioni promosse da vari centri di competenza e
think tank. Mi riferisco principalmente ai seguenti documenti: il Rapporto 2020
dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (che raggruppa 260 tra grandi imprese
e associazioni, guidata da Enrico Giovannini e presieduta da Pierluigi
Stefanini) sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030 che contiene molti
suggerimenti forniti per ognuno dei 17 Obbiettivi; il Rapporto Italy for
Climate con l’allegato “Appello” firmato da cento imprese presentato dalla
Fondazione Sviluppo Sostenibile che associa i gruppi industriali più impegnati
nella sostenibilità (da Novamont ad Elettricità futura di Confindustria con
Enel ed Eni) ed è presieduta da Edo Ronchi; le “Otto proposte al governo per
finanziare decarbonizzazione e inclusione sociale” del Forum per la Finanza
sostenibile che raccoglie 110 soggetti tra istituti di credito, fondazioni
bancarie e operatori (tra gli altri, ne fanno parte Banca Etica e Intesa San
Paolo, il Forum del Terzo settore e molte società di assicurazione, BlackRock e
Cassa Depositi e Prestiti) diretto da Francesco Biggiato; alle
“Raccomandazioni” del Forum Disuguaglianze e Diversità, guidato da Fabrizio
Barca. Poi vi sono molte altre proposte elaborate da singole associazioni, reti
e comitati. Tra queste ricordo il documento di Fridey for Future e quelle della
Task Force coordinata da Luciana Castellina pubblicate da “il manifesto”.
L’ASviS, sulla scorta del non confortante Rapporto annuale sullo
stato di attuazione dell’Agenda 2030 (per la verità, va male non solo in
Italia), si auspica una “resilienza trasformativa” – nuovo sintagma magico che
dovrebbe riempire di significato l’ormai logoro “sviluppo sostenibile” –
affinché la “ripartenza sia diversa dal passato”. ASviS pensa ad un ruolo
centrale della Cassa depositi e Prestiti per realizzare un piano di “infrastrutture
strategiche” da 200 mld in dieci anni (telecomunicazioni, transizione
energetica, tutela del territorio), a una Agenda urbana e per le aree interne,
a un “reddito di emergenza” che sostituisca gli attuali ammortizzatori, al
superamento delle disuguaglianze di genere, all’economia circolare e ai
“bilanci di sostenibilità” delle imprese, alla fine dei “sussidi dannosi per
l’ambiente” (19,7 mld) ed anche alla creazione di un ente pubblico di ricerca
per gli studi sul futuro.
La Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha inviato al
Governo un Appello in cui si ricorda che “il riscaldamento climatico
costituisce una minaccia peggiore della pandemia” (parole di Edo Ronchi) e che
si dovrebbe riservare almeno la metà del Recovery Fund alle misure di mitigazione
e adattamento con l’esclusione tassativa di qualsiasi agevolazione all’energia
da fonti fossili. Va quindi modificato il quadro legislativo e fiscale
favorendo le “comunità energetiche locali” e la riqualificazione degli edifici
(privati e pubblici). Ricordato che l’Italia non ha ancora adeguato il proprio
piano energetico, si tratterebbe di diminuire le emissioni di gas climalteranti
del 43% nei prossimi dieci anni.
Il Forum Diseguaglianze e Diversità chiede un approccio
unitario strategico del Piano nazionale, “superando la tradizionale
segmentazione settoriale”, affidando un ruolo primario alle imprese pubbliche,
alle Città metropolitane e ai comuni e coinvolgendo gli attori sociali,
garantendo così la “democraticità del processo decisionale”. Gli obiettivi
dovrebbero essere quelli di assicurare a tutti “una cura socio-sanitaria di
prossimità”, “abbattere la povertà educativa”, prevenire le catastrofi
naturali, superare il degrado abitativo, “orientare la trasformazione digitale
alla giustizia sociale”, fornire una mobilità sostenibile, adattare
l’accessibilità degli spazi collettivi. Altro ancora, nella linea del
raggiungimento di un maggiore benessere collettivo.
Il Forum per la Finanza Sostenibile è impegnato nel
favorire “investimenti sostenibili e responsabili nell’economia reale, secondo
un’ottica di lungo periodo e con fiscalità agevolata”. Il Forum ha inviato una
lettera al governo Conte, in cui si chiede di: modificare i vincoli di bilancio
e i limiti di indebitamento, accelerare e accompagnare il passaggio degli
investimenti dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili, incoraggiare
l’erogazione di linee di credito vincolate agli obiettivi dello sviluppo
sostenibile, emettere green e social bond sovrani e regionali per finanziare
progetti verdi, il sistema sanitario e scolastico, i servizi territoriali,
l’occupazione giovanile e femminile. Dirimenti saranno le modalità operative
che il Forum indica per raggiungere gli obiettivi: l’impact investing (“finanza
d’impatto”) e la “tassonomia” europea. Vale a dire: creare strumenti
“oggettivi” che consentano di valutare preventivamente e misurare ex post
(rendicontare non finanziaria) i risultati ambientalmente e socialmente attesi
dagli investimenti. Per “tassonomia” si intende il Regolamento che la
Commissione europea ha varato nel giugno scorso, dopo una lunghissima
gestazione.
Cos’è la tassonomia
6. Il tentativo di regolamentare il flusso dei finanziamenti messi a
disposizione dalle autorità pubbliche secondo parametri predefiniti, non
eccessivamente discrezionali, ancorché indispensabile, non è impresa facile. Da
un lato la UE deve garantirsi che i prestiti e le sovvenzioni concesse agli
stati non finiscano in mille rivoli di aiuti incoerenti (il rischio della
“macedonia” paventato da Fabrizio Barca), dall’altro lato anche il sistema
della finanza privata ha bisogno di sapere verso quali settori economici
concentrare i propri sforzi per raccogliere più denari possibili (anche dai
risparmiatori privati) e incanalarli a favore delle imprese più affidabili. Il
concetto di “sostenibilità”, alquanto vago e diversamente interpretabile, deve
quindi essere “messo a terra” – per usare un modo di dire molto di moda. Ecco
allora che da tempo i think tank dei tecnocrati di Bruxelles e delle varie
lobby economiche sono all’opera per stabilire quali debbano essere i parametri
di sostenibilità delle attività imprenditoriali meritevoli per il loro impegno
extra legem, al di là del dovuto e oltre il rispetto delle norme ordinarie in
vigore. In pratica la Ue vuole articolare un’azione premiale normativa – oltre
che incentivata – a favore di quelle imprese che scelgono volontariamente di
intraprendere un percorso virtuoso, ancorché non imposto dalle leggi.
Abbandonato quasi subito l’impervio compito dello stabilire quali
potrebbero essere gli impatti positivi “non finanziari” delle imprese nel campo
sociale (troppo complicato e vasto lo spettro dei possibili effetti delle
attività economiche sulla vita delle persone e delle comunità) è rimasto in
piedi solo l’obiettivo di determinare le ricadute sull’ambiente naturale. È
nato così il Regolamento Ue 2020/852 del 18 giugno di quest’anno relativo
all’“istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili”. In
gergo chiamato “tassonomia”, poiché indica, a grandi linee e in
attesa dei “criteri tecnici di vaglio” delegati alla Commissione europea
(attesi per fine anno), le specie delle attività giudicate utili al
raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale secondo i parametri
dell’Agenda 2030 sullo Sviluppo sostenibile dell’Onu e dell’Accordo di Parigi
della Convenzione quadro delle Un sui cambiamenti climatici. Il regolamento
(Art.1) “Stabilisce i criteri per determinare se un’attività economica possa
considerarsi ecosostenibile al fine di individuare il grado di ecosostenibilità
di un investimento”. In pratica i prodotti finanziari e le obbligazioni che il
sistema delle banche e del credito metterà sul mercato (titoli, bond, azioni,
ecc.) dovranno contenere informazioni trasparenti e dettagliate sugli obiettivi
ambientali dichiarati dall’investitore “sottostante”, ovverossia dall’impresa
beneficiaria del finanziamento. Per attività economiche ecosostenibili si
intendono quelle che concorrono a dare “un contributo sostanziale” al
raggiungimento di sei obiettivi: la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti
climatici, la protezione e l’uso sostenibile delle acque, la transizione verso
un’economia circolare, la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, la
protezione e ilo ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Truffe
7. Stabilito il quadro metodologico, i problemi cominciano ad emergere
non appena la “tassonomia” scende nel dettaglio delle attività da premiare. Vi
sono molti diversi modi per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, così
come vi sono varie tecniche per produrre, distribuire, stoccare e distribuire
le energie rinnovabili. Escluso in prima battuta il nucleare e il carbone (il
punto 3 dell’art.19 recita infatti: “le attività di produzione elettrica che
utilizzano combustibili fossili solidi non [sono da] considerare attività
economiche sostenibili”) rimane in campo tutto il gas naturale e rientra dalla
finestra lo stesso carbone “ripulito”. Infatti, il Regolamento (lettera f)
dell’art. 10) sdogana le tecnologie di cattura, stoccaggio e utilizzo del
carbonio (carbon capture, storage, utilisation) che “consentono una
riduzione netta delle emissioni di gas a effetto serra”. Inoltre, nel caso in
cui non esistano alternative tecnologiche a basse emissioni ed “economicamente
praticabili”, la graduale eliminazione dei combustibili fossili solidi dai
cicli produttivi potrà rientrare tra le attività economiche giudicate
ecosostenibili. Anche sulla gestione dei rifiuti il Regolamento si accontenta
di “ridurre al minimo l’incenerimento dei rifiuti”.
Insomma, il percorso della classificazione del tasso di
ecosostenibilità degli interventi, degli investimenti e delle imprese è irto di
trabocchetti se non di vere e proprie truffe. Pensiamo agli impianti di
accumulo, concentrazione, liquefazione, distillazione e mineralizzazione
dell’anidride carbonica prodotta dalle centrali termoelettriche o da grandi
impianti siderurgici, chimici, cementieri da riutilizzare poi come carburanti o
materiali da costruzione. Anche queste potrebbero essere considerate “economia
circolare” e rientrare tra quelle finanziabili dal Recovery Fund.
Puntualissima, infatti, l’Eni ha annunciato un progetto per pompare e stoccare
CO2 nei giacimenti di metano dismessi a Ravenna. Con quali effetti sulla
stabilità del sottosuolo e sull’inquinamento delle falde profonde solo Dio lo
saprà. C’è poi il grande capitolo dell’“idrogeno blu” prodotto bruciando gas
naturale, variamente miscelato con biocombustibili di varia provenienza.
Nemmeno tutte le tecniche di produzione di energia solare sono prive di
controindicazioni. Pensiamo ai grandi impianti a concentrazione solare da
installare nei deserti del Sahara per produrre energia elettrica da trasportare
e consumare in Europa. Pensiamo alle grandi e meno grandi dighe idroelettriche
che alterano il corso delle acque e sommergono e modificano terreni agricoli,
paesaggi, economie locali. Pensiamo ai “termovalorizzatori” e ai cementifici
che usano combustibili derivati da rifiuti e scorie varie. Pensiamo al grande
“mercato delle indulgenze”, come George Monbiot chiama i complicati meccanismi
di compensazione delle emissioni di CO2 (Emission Trade System). Pensiamo in
generale a tutte le diaboliche tecniche di geoenginering, di
ingegnerizzazione dei cicli naturali biogeochimici, ovvero all’alterazione
deliberata del clima su vasta scala attraverso la fertilizzazione degli oceani
per aumentare le capacità di sequestro del carbonio, o all’immissione di
aerosol in atmosfera per schermare le radiazioni solari (impresa finanziata dal
filantropo Bill Gates), o alle piantagioni di alberi geneticamente modificati.
Chiediamoci in quale misura gli investimenti in linea con l’obiettivo
della sola contabilità del carbonio (“emissioni nette zero
nel 2050” ) possono essere considerati davvero green friendly.
Molti progetti in corsa per essere agevolati dal Green Deal sono utili
semplicemente a giustificare se stessi e ad ammortizzare impianti (miniere,
pozzi, centrali, gasdotti, rigasificatori…) dell’era fossile. Altri progetti
sono concepiti per consentire ai grandi gruppi economici e finanziari di avere
il tempo per spostare i propri interessi dal brown al green e “convertirsi” al
nuovo business dell’energia rinnovabile.
In genere i criteri Esg (Environmental, Social and Governace) sono griglie
di valutazione delle attività finanziarie che tengono conto degli effetti
(impatti) su tutti i soggetti coinvolti dalla realizzazione dell’investimento,
oltre agli stakeholders, così da allargare la “responsabilità
sociale delle imprese” lungo tutta la filiera produttiva e sull’intero ciclo di
vita dei prodotti. Ma i sistemi di certificazione sono armi a doppio taglio:
favoriscono la canalizzazione di risorse finanziarie a un certo tipo di imprese
giudicate meritevoli, ma concedono una patente (certificazioni e ecolabel) di
pulizia e benemerenza a dei prodotti la cui effettiva utilità e il cui impatto
globale (sull’insieme delle matrici ambientali) sono sempre difficili da
valutare.
Ricordiamoci sempre che nella attuale situazione planetaria di
surriscaldamento climatico e di sovra-sfruttamento delle “risorse” naturali la
cosa sicuramente più efficace da fare sarebbe quella di diminuire il flusso di
materie e di energie impiegate nei cicli produttivi e di consumo. Come dice Amory
Bloch Lovins (Rocky Mountain Insitute) andrebbe valorizzata e premiata ogni
quantità di energia prodotta in meno (il negawatt), a prescindere dalla
fonte primaria utilizzata. Applicando questo concetto alla finanza sono giunto
alla conclusione che gli investimenti davvero verdi sono quelli che non si
fanno. In altre parole la guarigione di Gaia, la salvaguardia delle
funzionalità biologiche della Terra abbisognerebbe di lasciarla in pace a
riposare il più possibile.
Saremo in grado?
8. Come scansare l’effetto boomerang? Quale Piano di ri-assettamento del
sistema a partire da un profondo ravvedimento morale, scientifico e
politico? La correlazione tra surriscaldamento globale, perdita di
biodiversità e salute umana dovrebbe essere al centro delle azioni di
prevenzione primaria contro i rischi sistemici globali biologici.
Nel Rapporto 2020 dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile c’è
un bel riquadro che dà conto delle ricerche scientifiche sul rapporto tra la
pandemia Covid-19 e il degrado ambientale: “La distruzione e il danneggiamento
degli ecosistemi naturali, con conseguente perdita di biodiversità e delle loro
funzioni, destabilizza la rete di interconnessioni che regola i processi
ecologici, producendo scompensi e disfunzioni che possono manifestarsi in
modifiche dei processi naturali, fino a ‘salti di specie’ da parte di agenti
eziologici (quali batteri e virus)”. Sono le stesse cose che descriveva David
Quammen in Spillover (Adelphi 2014): “
Là dove si abbattono gli alberi e si uccide
la fauna, i germi del posto si ritrovano a volare in giro come polvere che si
alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e
sfrattato dal suo ospite abituale cerca una nuova casa (…) Dunque i virus non
ce l’hanno con noi siamo noi a essere diventati molesti, visibili e assai
abbondanti”.
Ha detto Fritjof Capra, direttore del Center for Ecoliteracy di
Berkeley:
“Il coronavirus deve essere visto come
una risposta biologica di Gaia, il nostro pianeta vivente, all’emergenza ecologica
e sociale che l’umanità ha di fronte a sé”. Le sempre più frequenti epidemie
nascono dalla degradazione e fratturazione della rete della vita. “I virus, che
vivono in simbiosi con alcune specie animali cui non fanno male, saltano da
queste specie ad altre, come quella umana” (Messaggio di saluto alla
inaugurazione di Terra Madre).
Il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services ha
documentato come l’intervento umano in questi ultimi decenni sia stato senza
precedenti nella storia dell’umanità, modificando e trasformando il 75% delle
terre emerse, e impattando significativamente il 66% degli oceani e dei mari
del globo. Aggiungiamoci che metà dei 7,8 miliardi di esseri umani vivono
ammassati in megalopoli insalubri e che gli allevamenti intensivi industriali
rappresentano un facile veicolo di contagio. Pensiamo a ciò che è accaduto
negli allevamenti di animali “da pelliccia” che sono stati infettati dal
Sars-Covid-2. Solo in Danimarca sono stati abbattuti 15 milioni di visoni.
Ma non basta. Con lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost non si
libera solo gas metano – il più potente tra i gas serra – rimasto congelato nei
sedimenti marini e sulla terraferma siberiana, tornano in superficie anche
antichi microorganismi pericolosi. Scott Rogers, un professore della Bowling
Green State University, sulla scorta di ricerche di un team di scienziati
cinesi e statunitensi sul ghiaccio di 15 mila anni fa dell’altipiano tibetano,
dove sono stati trovati 33 virus, 28 dei quali sconosciuti, ha dichiarato: “Con
gli aumenti dello scioglimento del ghiaccio in tutto il mondo, aumentano anche
i rischi derivanti dal rilascio di microbi patogeni nell’ambiente”. I
paleovirologi affermano che è noto solo lo 0,1% dei virus esistenti (Eliana
Liotta e Massimo Clementi, La rivolta della natura, La nave di
Teseo, 2020).
Si chiedeva Fritjof Capra:
“Saremo in grado di passare da una
crescita indifferenziata ed estrattiva ad una crescita rigenerativa e
qualitativa? Sostituiremo i combustibili fossili con fonti di energie
rinnovabili per tutti i nostri bisogni di energia? Saremo in grado di
rimpiazzare i nostri sistemi centralizzati di agricoltura industriale ad alto
spreco di energia con coltivazioni organiche rigenerative orientate alla
comunità? Pianteremo miliardi di alberi per abbassare la CO2 dell’atmosfera e
rigenerare gli ecosistemi? Saremo in grado di fermare l’invasivo turismo di
massa e invece rivitalizzare le comunità locali?”.
Ecco, presto fatto, un vero Recovery end Relience Plan lo
dovrebbero fare gli ecologisti, non gli economisti.
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