Tre dollari per una bomba a mano sono troppi in un paese povero
e i kalashnikov a buon mercato sono pochi per le operazioni di
sterminio che si stanno preparando in Rwanda. Già nel marzo del 1992 il governo
firma un accordo con l’Egitto per sei milioni di dollari e un altro uguale con
il Sudafrica. “Ad anticipare i soldi per il Rwanda è una banca francese”
ricorda Daniele Scaglione (Istruzioni per un genocidio EGA). Ma
l’arma che diverrà il simbolo di questa eliminazione fisica porta-a-porta
è il machete. Arrivano più di mezzo milione di pezzi, maggiormente
comprati in Cina, come tutti i prodotti a buon mercato che acquistiamo sulle
bancarelle quando non abbiamo il denaro da spendere nei negozi buoni.
L’Onu lascia soli i rwandesi. Soli o male accompagnati dalle nazioni che
hanno interessi in quella regione del mondo. Quando il Fronte Patriottico di
Paul Kagame dichiara la fine della guerra, a metà luglio, delle 300mila persone
che abitavano la capitale Kigali ne restano 50mila. 2 milioni di hutu stanno
scappando all’estero.
Nel gennaio del 2001 sono circa 100mila i processi da celebrare in Rwanda. Un milione di morti
in tre mesi dall’aprile del 1994 per un genocidio che
l’occidente riuscì a non vedere, ma che aveva antropologicamente costruito in
cent’anni di scuola di razzismo. Che aveva alimentato con interessi
coloniali. 100mila processi sono troppi in un paese grande come la
Lombardia e più o meno con lo stesso numero di abitanti. Impossibile
celebrarli. Così si istituiscono i gacaca, i prati della giustizia. Tra
l’inizio di febbraio e la metà di marzo del 2002 studenti di legge e magistrati
(in tutto 781) agli ultimi anni di corso vengono addestrati per poter preparare
i rwandesi che assumeranno il ruolo di giudice nei gacaca. Saranno oltre
200mila e la loro scuola dura sei settimane. In estate comincia il lavoro di
registrazione e schedatura dati. Raccolgono i nomi delle vittime e dei sospetti
carnefici, poi cominciano le assemblee pubbliche.
Non c’è una sola persona che sia stata solo sfiorata dal genocidio. Tutti
sono vittime o carnefici. E chi non appartiene a queste categorie è stato
direttamente di sostegno a una delle due.
“Per noi è essenziale sapere come sono morti i nostri familiari e
soprattutto dove si trovano i loro corpi, dove, dove, dove…” scrivono Esther
Mujawayo e Souâd Belhaddad in Il fiore di Stéphanie (Edizioni
E/O). “Non si deve interrompere chi sta parlando” e “è proibito
offendere, perpetrare atti di violenza, manifestare il proprio
dissenso o proferire minacce”. E questo rispetto deve esserci anche se
“l’individuo che hai di fronte ha fatto a pezzi i tuoi”. Devi ascoltare senza
cercare i suoi occhi. Non lo devi guardare, non devi reagire
impulsivamente e parlare solo dei fatti “senza aggiungere alcun
commento o lasciar trapelare una qualsiasi emozione. “Hai una gran voglia di
picchiarlo ma non hai neppure il diritto di colpirlo con le parole”.
E qui mi fermo. La storia del Rwanda possiamo andarcela a leggere e sarebbe
una buona cosa studiarla anche a scuola. Servirebbe per comprendere che la
memoria ci serve per guardarci attorno prima che alle spalle. Dunque mi fermo,
interrompo il discorso sul Rwanda per chiedere una riflessione sui gacaca.
Cioè un tribunale che non ha come prima finalità la condanna, ma la
conoscenza e la riconciliazione. Per quest’ultima credo che la strada sia
lunga. Lunghissima. Forse impossibile. Ma la prima è fondamentale. Cosa
chiediamo quando partecipiamo a un processo?
Una risposta ce la fornisce Alessandra Ballerini, avvocato
specializzato in diritti umani e immigrazione. Tra le persone di cui si occupa
ci sono Giulio Regeni e Mario Paciolla. Sulle pagine genovesi di Repubblica
scrive: “Le persone che varcano la soglia del nostro studio, sto realizzando
negli ultimi giorni, chiedono da noi principalmente due cose: verità e
giustizia. Non necessariamente entrambe e non per forza alternativamente,
ma certamente in questo ordine” (leggi Verità).
Queste “due cose” mi ricordano un testo di Pier Paolo Pasolini,
intellettuale attorno al quale rifletto sempre più spesso in questi mesi. Parlo
di Passione e Ideologia (Garzanti). E mi sembra illuminante
sostituirle momentaneamente con le “due cose” di Alessandra Ballerini. Prendo a
prestito la nota che Pasolini stesso scrive per spiegare le motivazioni della
sua pubblicazione.
«“Verità e giustizia”: questo e non vuole costituire un’endiadi
(giustizia vera o verità giusta), se non come significato appena secondario. Né
una concomitanza, ossia: “Verità e nel tempo stesso giustizia”. Vuol essere
invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una
graduazione cronologica: “Prima verità e poi giustizia”, o meglio “Prima
verità, ma poi giustizia”».
“Passione e ideologia“: questo e non vuole costituire un’endiadi
(passione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena
secondario. Né una concomitanza, ossia: “Passione e nel tempo stesso
ideologia”. Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo:
nel senso che pone una graduazione cronologica: “Prima passione e poi
ideologia”, o meglio “Prima passione, ma poi ideologia”.
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