“ABBIAMO COSTRUITO UN MONDO DA
CATASTROFE”. IN MEMORIA DI FRIEDRICH DÜRRENMATT - Alessandro Corso
La luce
debole di un frigorifero datato, spalancato dal braccio robusto di un corpo
senza testa, ben piantato a terra, osservato dall’altra parte dal capo mozzato,
dall’ampia stempiatura e il collo raggrumato di sangue scarlatto, che trasuda
delittuosa oscenità sul bianco ghiaccio della griglia d’appoggio, mentre le
labbra cianciano queste parole beffarde: “Bentornato, Grande Vecchio”. Un
ghigno macabro. L’uomo che si
beffa di Dio. Così mi piace immaginare Friedrich Dürrenmatt, Lazzaro
resuscitato. Lazzaro sui generis, come si addice allo stile del
drammaturgo e narratore svizzero. Il Grande Vecchio è Dio, personaggio
un po’ super partes nell’opera La valle del caos di
cui si discorre frequentemente tra una domanda e l’altra del ciclo
d’interviste, a cura di vari giornalisti del tempo, realizzate pochi giorni
prima della morte di Dürrenmatt, avvenuta il 14 dicembre di trent’anni fa, e
inserite nella raccolta Über die grenzen, edita, al tempo, dalla
casa editrice Pendo-Verlag. In Italia è stata pubblicata da Marcos Y Marcos nel
lontano 1993, con il titolo Oltre i limiti. I limiti sono quelli
oltrepassati dall’umanità, dispersa nel labirinto del progresso
tecnico-scientifico in continua espansione, di cui già allora Dürrenmatt
ravvedeva gli eccessi sconsiderati, e nondimeno metafora dei confini valicati
dal drammaturgo e narratore svizzero nella sua affannosa ricerca di una storia
sempre nuova, di uno squarcio visionario sul presente e sul futuro, in
un’epoca, quella del secolo andato, macchiata dal crollo definitivo delle
ideologie, e dallo spettro della distruzione delle identità, conseguente alla
caduta del muro di Berlino, la nota striscia della morte. Basti pensare, per comprendere
la lucidità di visione di Dürrenmatt, come rispose acutamente, durante
l’intervista del 7 dicembre 1990 a cura di Sven Michaelsen, redattore culturale
del giornale amburghese Stern, alla domanda riguardante il Nobel
per la pace Michail Gorbačëv, “Ritiene che abbia delle chance?”: “Andrà a
finire nel caos. Gorbačëv è una figura folle, un giocatore di scacchi che crede
sia arrivato il suo turno, che la prossima mossa tocchi a lui, mentre le sue
mosse saranno determinate da altri giocatori. Rassicura ben poco che il KGB sia
l’unica cosa ancora funzionante. Nel suo libro Gorbačëv ha affermato di
volere “un uomo nuovo”. Ho rizzato le orecchie. Ho pensato, per carità di Dio,
tutti i dittatori erano a caccia dell’uomo nuovo”.
La politica
come illusione. In effetti, nonostante tutte le innovazioni apportate da
Gorbačëv, inizialmente come Segretario generale del partito, dalla liberazione
dei dissidenti alla battaglia per la trasparenza e per la ricostruzione
economica, e poi il Nobel per la pace come Presidente dell’URSS, il suo mandato
durò fino al 25 dicembre 1991, quando, in seguito al golpe ordito da parte
delle repubbliche sovietiche e dai membri conservatori del governo, fu
costretto a dare le dimissioni. Chissà cosa penserebbe oggi il narratore
svizzero di un leader cinico e risoluto come Vladimir Putin, del suo peso in
Russia e del suo controllo in Siria, sua roccaforte nel Mediterraneo. Tornando
all’intervista di Stern, vediamo Dürrenmatt discorrere di politica, della
Svizzera e del suo rapporto ormai incrinato con il connazionale Max Frisch,
anche lui narratore prolifico, e di cui è bene ricordare il romanzo Homo
Faber, in linea con alcune delle tematiche romanzesche sul ruolo del
cosiddetto zufall nella vita, ovvero il caso, la coincidenza,
e il conflitto tra uomo e società, tra la brevità dell’esistenza e l’eternità
apparente della tecnologia. Un piccolo accenno riguarda anche il diabete, il
morbo che assillò lo scrittore svizzero fino alla morte, la stanchezza di fondo
della malattia e di come solo la scrittura lo aiutasse ad affrontare questa
stanchezza. Dürrenmatt, tuttavia, si dichiara un uomo vitale, e alla
domanda se abbia paura della morte, risponde: “Non più. E penso che per un uomo
sia un fatto essenziale che deve morire. Da un punto di vista biologico, è un
grande passo avanti rendersene conto. Gli animali ad esempio non
raggiungono questo grado di coscienza. Occuparsi della morte costituisce una
delle radici della cultura. Per paura della morte abbiamo creato un aldilà,
abbiamo creato gli dei, abbiamo creato Dio, tutta la nostra cultura è una
specie di edificio che si oppone alla morte”.
Inevitabile
per gli amanti del cinema di Wim Wenders non ricordare il finale di Lo
stato delle cose, Leone d’oro a Venezia, in cui Friedrich Munro, il regista
protagonista della storia, interpretato dall’attore Patrick Bauchau, pur
lasciando scivolare tra le sue braccia il produttore Gordon, appena colpito a
morte alle spalle, gira incurante la scena attorno a sé, per filmare i suoi
sicari. Il tempo di una ripetuta ripresa panoramica e cade a terra, a sua
volta, colpito da uno sparo allo sterno. La cinepresa è ancora stretta tra le
mani come un’arma, a filmare la morte, figurarne la catarsi. Un film nel film,
perché “La morte è la più grande storia di tutte”. Per Dürrenmatt, anche
letterariamente, è necessario che l’uomo muoia, è la fine più corretta. Della
sua visionarietà ha dato prova in molte sue opere, per quanto meno, forse, e a
ragione, nei suoi primissimi gialli, e tanto invece in racconti come La
guerra invernale del Tibet, Il tunnel e La panne,
come nei romanzi successivi, quelli seguiti alle indagini del commissario
Bärlach. La promessa resta il suo romanzo più maturo
e stilisticamente coerente, un vero requiem per il romanzo
giallo tradizionale. Di Dürrenmatt, oltre alla sua capacità di smascherare le
meschinità piccolo-borghesi della società svizzera, è facile amare anche le
digressioni ideologiche, socio-economiche e scientifiche, la divagazione
filosofica, teologica e astronomica, il concentrato di pensiero, come piccolo
“seme” di una Matrioska, piccola verità di una storia più grande. Per
dare conto della sua capacità profetica di Cassandra, basti apprendere la sua
risposta alla domanda di Sven Michaelsen, su cosa intendesse sostenendo che
ogni opera d’arte dovrebbe contenere qualcosa di apocalittico: “Abbiamo
costruito un mondo da catastrofe. Un addetto di laboratorio distratto può
causare l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche, un programmatore
assonnato può causare un errore di programmazione nel computer del Pentagono, a
un tecnico o a un ingegnere genetico possono sfuggire delle colture di virus –
la nostra strada porta dritto a un mondo di pannes apocalittiche.
Per questo la letteratura deve chiedersi se l’umanità non si trovi in una crisi
evoluzionistica e stia andando verso la propria fine”.
Magari verso
la propria fine, no, ma verso l’obliterazione del suo antico senso di
umanesimo, di fede e cultura umana, sì.A tal proposito, nel secondo colloquio
con il giornalista Michael Haller, interpellato sulla brutalità dei personaggie
sull’aspetto cinico e grottesco del suo romanzo La valle del
caos, lo scrittore di Konolfingen spiega come il cinismo sia solo un
punto di vista e come la sua scrittura, diversamente da quando si fa
reinterpretazione del mito, tenda a farsi scanner della
realtà, pur attraverso la potente lente dell’immaginazione: “Se si tratti di
cinismo o meno, è come sempre questione di punti di vista. Personalmente non
trovo cinico quel libro. Molte delle cose che ho scritto si sono poi avverate.
Per esempio la casa di cura, il luogo dove si svolge la maggior parte degli avvenimenti
del libro, ebbene, l’originale era una casa di cura in Engandina dove mi era
capitato di andare un paio di volte. Al termine del mio romanzo la casa di cura
va in fiamme. Avevo appena terminato di scrivere quel libro, e la casa di cura
è andata davvero in fiamme. Mia moglie ha anche scattato delle fotografie ai
resti di quell’incendio, una cosa incredibile! Naturalmente l’incendio era
doloso: il fabbricato era assicurato per 36 milioni di franchi”.
Il libro,
similmente al Libro di Giovanni, finisce nell’Apocalisse, e il rogo fa ingresso
nel villaggio del mondo. Il cinismo è solo un punto di vista. Eppure dietro la
responsabilità dell’autore, del suo processo di scrittura senza fine, della sua
triplice attività nel campo del teatro, della narrativa e della pittura, del
suo rifiuto di rimanere completamente attaccato alla terra, divagando tra i
suoi scritti persino di corpi celesti, permane l’ombra di un cinismo di fondo.
Ne danno fortissima impressione le parole rilasciate durante l’intervista dell’emittente
televisiva svizzera SRF, nel 1978, su uno degli aspetti meno conosciuti della
sua vena creativa, ovvero la pittura, attività nell’esercizio della quale
Dürrenmatt si dichiarava, già a quel tempo, un autodidatta: “Penso che il
periodo della pittura che si focalizza sui bei colori, sugli esseri umani
felici e sull’estetica appartenga al passato. Così come nella
scrittura, anche nella pittura non vi è più spazio per il sacro. Sul sacro
possiamo farci una croce sopra”.
Parole
forti, che tuttavia non sembravano celare una provocazione, quanto, una presa
di responsabilità nei confronti della realtà, ovvero nei confronti di quel
mondo che lo scrittore-pittore Dürrenmatt vede esposto a un continuo pericolo.
Provando, oggi, a stabilire un nesso con il pensiero dell’autore e a dare uno
sguardo all’arte contemporanea italiana, in qualche modo sul solco della
tradizione passata, e in particolare alla pittura di due artisti significativi
come il pugliese Roberto Ferri, classe 1978, e il veneto Saturno Buttò, classe
1957, il primo dalla forte impronta caravaggesca e neoclassica, il secondo
dalle diverse influenze, non si può non considerare il modo in cui essi
rimeditano il passato e trasgrediscono il senso del sacro. Una poetica
pittorica che si pone a cavallo tra sacro e profano, tra mito ed eros, tra
religione e carnalità, dove, come nel caso di Ferri, il pittore ci trasporta in
una realtà di sogno, popolata da forze oscure, quasi diaboliche, o come nel
caso di Buttò, l’artista ci trasmette un senso di decadenza e disfacimento,
dove la bellezza è al contempo oggetto di culto e raffinato scandalo. Alla luce
di queste riflessioni, possiamo affermare che il sacro permane nell’atto
dell’artista, nel fuoco demiurgico. Così, per Dürrenmatt, lo sguardo crudo
sulla realtà sembra essere quello di un profeta del caos, che attraverso la
pittura spesso enfatizza quel finis apocalittico già
raccontato nei suoi scritti.
Sistematicamente
diverso è il legame con la filosofia, di Kierkegaard, di Nietzsche, e altri
pensatori, da cui l’autore attinge prolificamente, per affinare il suo sguardo
sulla vita, sui miti e sui principi di azione degli uomini, per determinare le
storie e le contro-storie, attraverso cui si muovono i personaggi. L’uomo resta
un mistero alla luce del sole, ascoltarlo nell’intervista dell’emittente
televisiva SRF, con quel suo fermo timbro di voce Berndeutsch, il
dialettotedesco di Berna, affascina ancora oggi. Il suo sguardo da rapace
sornione incanta. Poiché non è possibile contenere, in un passo, l’intero
pensiero di un romanzo, né il piglio da cosmologo dello scrittore, ma è
possibile, invece, in un pezzo compiuto, per quanto breve, contenere la lucidità
di pensiero di Friedrich Dürrenmatt, il suo essere fuori dagli schemi, il suo
sguardo feroce, sardonico, ricordiamo qui, con l’approssimarsi del Natale, un
brevissimo racconto. Si tratta del racconto di apertura Natale,
dell’edizione dei Racconti edito da Feltrinelli, nella
traduzione di Umberto Gandini, che in qualche modo ricorda, in parallelo, nel
suo senso di desolazione, il visionario racconto Un cittadino di
Carcosa, datato 1886, dello scrittore americano Ambrose Bierce. Fu scritto
nel 1942, in pieno conflitto mondiale. Vi si dipinge, a rapidi tratti, la
scomparsa di tutto, dell’uomo, di Cristo, di Dio. Da tempo a questa parte,
potevamo, forse, imbatterci in un Natale più illogico e apocalittico di questo
2020?: “Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come
vetro. Faceva freddo. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono.
L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la
luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un
corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra.
L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù
le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai
l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane
stantio. Proseguii”.
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