martedì 15 dicembre 2020

Khalida Jarrar riesce a far uscire una lettera per Palestine Writes

(e altri articoli di Farid Adly, Amira Hass, Nasim Ahmed, Clothilde Mraffko) e un cortometraggio d'amore



Khalida Jarrar

 

Nota redazionale: la seguente lettera è stata letta durante la tavola rotonda finale del festival di letteratura Palestine Writes [La Palestina Scrive, tenutosi in forma virtuale dal 2 al 6 dicembre, ndtr.]

 

Dal carcere israeliano di Damon, situato sulla cima del monte Carmelo ad Haifa, invio a voi i miei saluti da parte mia e delle mie 40 compagne palestinesi combattenti per la libertà nelle prigioni israeliane. Inviamo il nostro saluto e il dovuto rispetto a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti che dicono la verità e chiedono libertà e giustizia per tutti e che difendono il diritto del popolo all’autodeterminazione e ad opporsi alla dominazione colonialista e razzista.

In quest’occasione consentitemi di inviare il nostro saluto e sostegno anche a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali e artisti arabi che rifiutano la normalizzazione con il sistema del colonialismo di insediamento israeliano e che non accettano gli accordi di normalizzazione di Emirati, Bahrein e Sudan con l’entità sionista. È una posizione come questa che rappresenta i veri legami tra il nostro popolo e il mondo arabo e rende interiormente più forti noi detenuti. Benché siamo tenuti fisicamente prigionieri dietro a cancelli e sbarre, le nostre anime rimangono libere e fluttuano nei cieli della Palestina e del mondo. Indipendentemente dalla durezza delle pratiche dell’occupazione israeliana e dell’imposizione di misure punitive, la nostra voce libera continuerà a parlare apertamente a favore del nostro popolo che ha sofferto terribili catastrofi, espulsioni, occupazione e arresti. Continuerà anche a far sapere al mondo la forte volontà palestinese, che rifiuterà senza sosta e sfiderà il colonialismo in tutte le sue forme. Lavoriamo per instaurare e rafforzare i valori umani e cerchiamo di ottenere la liberazione sociale ed economica che unisce i popoli liberi del mondo.

Salutiamo i partecipanti a questo dibattito conclusivo: la compagna Angela Davis, la collega e amica Hanan Ashrawi, Richard Falk, la cara Susan Abulhawa e Bill V. Mullen.

Riguardo al nostro contributo a questa conferenza, vorremmo cercare di portarvi le nostre esperienze attuali con la letteratura e la cultura mentre siamo nelle prigioni israeliane. L’elemento più importante a questo proposito sono i libri. Essi costituiscono le fondamenta della vita in carcere. Conservano l’equilibrio psicologico e morale dei combattenti per la libertà che vedono la propria detenzione come parte della resistenza generale contro l’occupazione colonialista della Palestina. I libri giocano anche un ruolo in ogni lotta individuale del carcerato tra lui e le autorità carcerarie. In altre parole, la lotta diventa una sfida per i prigionieri palestinesi in quanto i carcerieri cercano di spogliarci della nostra umanità e di tenerci isolati dal resto del mondo. La sfida dei detenuti è trasformare la nostra incarcerazione in una condizione di “rivoluzione culturale” attraverso la lettura, l’educazione e il dibattito letterario.

I detenuti politici palestinesi devono affrontare molti ostacoli per poter avere accesso ai libri. Per esempio, quando sono portati da un membro della famiglia talvolta essi non ci arrivano in quanto vengono sottoposti a meccanismi di stretto controllo e sequestri. In teoria a ogni carcerata è concesso di ricevere due libri al mese. Tuttavia questi libri sono soggetti a “esami di controllo” in cui, il più delle volte, sono rifiutati dall’amministrazione penitenziaria con il pretesto che si tratta di libri che incitano all’odio. Privare i detenuti della possibilità di avere libri viene utilizzato come punizione quando ai carcerati viene vietato di riceverli per due o tre mesi, come mi è capitato nel 2017.

Anche la modesta biblioteca a disposizione dei prigionieri è soggetta a continue ispezioni in quanto le guardie carcerarie confiscano qualunque libro che possa essere stato portato dentro il carcere senza che lo sapessero. Ciò obbliga i detenuti a inventarsi sistemi creativi per proteggere i libri che probabilmente potrebbero essere sequestrati. Impedire che i libri vengano presi dalle autorità della prigione costituisce uno degli impegni più importanti per i detenuti.

In questa prospettiva, nonostante le stringenti limitazioni, le detenute palestinesi sono riuscite a far entrare di soppiatto un certo numero di libri importanti. Per esempio, oltre a qualche libro di filosofia e di storia, molti dei lavori di Ghassan Kanafani [scrittore, giornalista e dirigente politico palestinese, ndtr.], Ibrahim Nasrallah [scrittore e poeta palestinese, ndtr.] e di Suzan Abu-Alhawa [scrittrice e attivista palestinese, ndtr.] sono tra quelli che sono riusciti ad entrare e sono studiati dai prigionieri. Il romanzo di Maxim Gorky “La madre” è diventato di conforto per le prigioniere che sono private dell’amore delle loro madri. I lavori di Domitila Chúngara [lavoratrice boliviana e attivista, ndtr.], Abd-Arahman Munif [scrittore giordano, ndtr.], Al-Taher Wattar [scrittore algerino, ndtr.], Ahlam Mustaghanmi [scrittrice algerina, ndtr.], Mahmoud Darwish [grande poeta palestinese, ndtr.], “Le quaranta porte” [Rizzoli, 2011, ndtr.] di Elif Shafak [scrittrice turca, ndtr.], “I miserabili” di Victor Hugo, Nawal El Saadawi [scrittrice e psichiatra egiziana, ndtr.], Sahar Khalifeh [scrittrice palestinese, ndtr.], Edward Said [famoso intellettuale palestinese, ndtr.], Angela Davis [famosa intellettuale e militante afro-americana, ndtr.] e Albert Camus [scrittore francese, ndtr.] sono tra i libri più apprezzati che sono sfuggiti ai controlli e sono stati introdotti di nascosto con successo.

Tuttavia libri come “Scritto sotto la forca” [Red Star Press, 2015] di Julius Fučík [giornalista e militante antinazista cecoslovacco, ndtr.] e i “Quaderni dal carcere” di Gramsci non hanno mai potuto sfuggire alle misure e restrizioni carcerarie. Di fatto a nessuno dei libri di Gramsci è stato consentito di entrare nelle prigioni a causa di quella che sembra essere una particolare presa di posizione da parte delle autorità dell’occupazione nei confronti di Gramsci.

Parte positiva delle nostre vite, alcuni libri scritti da prigionieri nelle carceri, uno dei quali parla della esperienza di incarcerazione e di interrogatorio nelle prigioni israeliane, intitolato “You are Not Alone” [Non sei solo], sono riusciti ad arrivare di nascosto fino a noi. Quello che sto cercando di dire, cari artisti e scrittori, è che i vostri libri esposti nelle librerie di tutto il mondo sono sottoposti a persecuzione e confisca da parte delle autorità carcerarie dell’occupazione israeliana se cerchiamo di avervi accesso: i vostri libri qui vengono arrestati come avviene al nostro popolo.

La disponibilità di libri non è l’unica lotta che devono affrontare i prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane. Cercherò di darvi una rapida immagine delle nostre vite, ma ricordate che il nostro Desiderio richiede da noi di rimanere forti come l’acciaio.

Le autorità carcerarie israeliane impongono giornalmente misure oppressive, come dimostrano l’applicazione di politiche di separazione attraverso l’isolamento. Ci privano anche delle visite dei familiari, vietano l’ingresso a libri di cultura e letteratura e proibiscono assolutamente i libri scolastici. Vietano anche di cantare in qualunque modo. Sono vietate sia canzoni rivoluzionarie che non impegnate.

Inoltre non ci viene consentito di comprare più dell’unica radio a nostra disposizione. La radio è un’importante fonte di informazione che ci tiene legate con l’esterno diffondendo le notizie dal mondo. Ma per noi la radio è più di questo… È uno strumento che ci mette in comunicazione con le nostre famiglie ed amici, in quanto essi chiamano e inviano messaggi attraverso vari programmi radiofonici palestinesi.

Le autorità carcerarie israeliane non ci consentono neppure una qualunque forma di assemblea o riunione. Puniscono in continuazione le carcerate riducendo i prodotti che possono essere ottenuti allo “spaccio”, l’unico “negozio” a disposizione.

I prigionieri vengono continuamente sorvegliati attraverso il controllo delle telecamere di sicurezza che circondano ogni angolo della prigione, compreso il piazzale (Al-Forah). Questo spazio è dove alle prigioniere viene concesso di stare all’aria aperta per cinque ore non consecutive al giorno fuori dalle loro celle e finestre con le sbarre. Anche le nostre stanze sono sottoposte a ispezioni severe e provocatorie ad ogni ora del giorno e della notte alla ricerca di qualunque pezzo di carta con scritto sopra qualcosa. Potete immaginare quanto sia stato difficile per me farvi arrivare questo messaggio.

Quanto sopra ed altro ci obbliga ad architettare sistemi per contrastare queste prassi. Alcuni dettagli e oggetti possono sembrare banali fuori dalla prigione, ma hanno una grande importanza per noi prigioniere. Per esempio, penne e carta sono importanti, e i libri sono considerati un tesoro. Tutto questo costituisce uno strumento utilizzato come parte della nostra sopravvivenza e lotta contro l’occupazione, ed anche per il nostro miglioramento.

Come aspetto positivo abbiamo scoperto che molte prigioniere, nonostante le difficoltà menzionate, soprattutto quelle che scontano una condanna pesante, hanno arricchito la letteratura pubblicando romanzi, che spero attireranno l’attenzione degli scrittori arabi e internazionali. In aggiunta il movimento dei carcerati ha pubblicato alcuni studi e ricerche che fanno luce sulla situazione delle condizioni delle prigioni israeliane. Io stessa nel 2016, mentre ero in prigione, ho condotto uno studio sulla “Condizione delle prigioniere nelle prigioni israeliane”. Esso si concentra sugli effetti e le violazioni contro donne e minori palestinesi richiusi nelle prigioni. Nel 2019 ho preparato un altro documento, “Educazione nelle prigioni israeliane”, pubblicato nel libro di Ramzy Baroud su educazione e detenute intitolato “These Chains Will be Broken” [Queste catene saranno spezzate].

Sfortunatamente, a causa del mio attuale nuovo arresto, non ho visto la versione pubblicata del libro. Nel documento citato ho presentato gli ostacoli che la formazione deve affrontare in prigione, uno dei quali è l’insistenza israeliana nell’impedirci di portare avanti un qualunque percorso formativo in carcere. Il loro intento è chiaramente isolare i detenuti, donne e uomini, e spezzarci, trasformandoci in individui senza speranza o progetti per un futuro dignitoso. D’altra parte i prigionieri fanno il possibile per contrastare i tentativi delle autorità carcerarie attraverso nuovi sistemi creativi per conquistarsi il diritto alla formazione.

Ora stiamo cercando di iniziare l’educazione universitaria per il primo ciclo di detenute, come seconda fase della nostra lotta per rivendicare il diritto alla formazione. Ciò segnerà la prima volta nella storia in cui detenute palestinesi, soprattutto quelle con pesanti condanne, saranno in grado di ottenere un titolo universitario dal carcere. Su questo aspetto nel prossimo futuro sarà disponibile un aggiornamento, riguardante anche le difficoltà incontrate.

Una parte del programma di formazione universitaria si basa sull’integrazione di esperienze educative palestinesi, arabe e internazionali attraverso la letteratura della resistenza. Il programma includerà anche ricerche e studi scientifici alla nostra portata in carcere, nel tentativo di approfondire le capacità di analisi delle detenute e di identificare le loro aspirazioni per il futuro.

Tutta questa iniziativa intende stimolare e rafforzare l’autostima delle detenute incoraggiandole a considerare la prigione come un luogo per lo sviluppo creativo, culturale e umano. Speriamo che l’iniziativa rafforzi le convinzioni e capacità delle carcerate di creare un cambiamento nella società una volta che verranno liberate.

Questa iniziativa intende contribuire alla complessiva lotta di liberazione contro l’apartheid israeliano e la disparità di genere rafforzando le detenute per favorire la loro educazione e il loro ingresso nel mondo del lavoro quando saranno rilasciate.

Voglio sottolineare che durante la preparazione di questa dichiarazione abbiamo tenuto due sessioni per detenute iscritte all’università. I due corsi di formazione erano rispettivamente in inglese e in arabo.

Ciò che ha suscitato la mia attenzione è stato che, durante il primo corso in inglese, ho chiesto che ogni detenuta compilasse una simulazione di domanda per l’università specificando il campo di studi che intende seguire. Vorrei condividere alcune delle richieste che ho ricevuto:

Shorouq: detenuta di Gerusalemme condannata a 16 anni e che finora ne ha scontati 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in “Turismo” all’università di Betlemme. Il sogno di Shorouq è diventare guida turistica. Ha scelto la specializzazione in turismo perché vuole sensibilizzare il mondo sui luoghi storici in Palestina. È particolarmente interessata ad accompagnare visite a Gerusalemme a causa di annessione, furto, violazioni e stravolgimento del paesaggio continuamente imposti alla città dall’occupazione israeliana.

Maysoun: detenuta di Betlemme condannata a 15 anni di prigione e che ne ha scontati finora 6. È stata arrestata mentre frequentava una specializzazione in letteratura all’università. Maysoun è un’accanita lettrice anche in prigione. Ama la letteratura. Descrive la letteratura come un metodo per costruirsi un futuro. Secondo lei la letteratura richiede che il lettore pensi e si ponga molte domande relative a un particolare argomento sollevato dal romanzo o dall’opera letteraria in questione. Pensa che ciò porti a un pensiero critico e allo sviluppo culturale.

Ruba: Ruba è una studentessa al terzo anno di sociologia che frequentava l’università di Birzeit. È stata arrestata tre mesi fa ed è ancora in attesa di giudizio. Ruba desidera ed è pronta a continuare i suoi studi al suo rilascio. Secondo lei la ragione per cui ha scelto sociologia come specializzazione è lo sviluppo della sua formazione universitaria e analitica sulle strutture sociali e di classe nella società e sul loro impatto sulle donne.

Nel mio tentativo di comprendere i motivi che stanno dietro le aspirazioni e i sogni di queste donne ho deciso di discutere con loro i problemi in modo più approfondito. Ho scoperto che il comune denominatore tra loro è la ribellione contro l’oppressione e le limitazioni imposte, un deciso rifiuto delle politiche dell’occupazione per impedire l’educazione delle prigioniere, una forza interiore per sfidare il controllo utilizzato contro le detenute inteso ad isolarle e trasformarle in donne disperate senza sogni o progetti per il futuro.

Altri motivi includono la resistenza contro il progetto dell’occupazione di cancellare l’identità e la storia palestinesi. Queste donne vogliono anche rompere con professioni stereotipate e di genere che la società destina alle donne. Per questo scelgono specializzazioni come turismo, letteratura, sociologia e teoria critica.

Per il secondo corso in lingua araba ci siamo concentrate sull’autobiografia e abbiamo lavorato sui diversi metodi per stilare un’autobiografia. Le detenute sono state divise in gruppi che hanno discusso diverse biografie, tra cui quella della dirigente sindacale e femminista boliviana Domitila Chúngara, “Chiedo la parola”, che parla delle esperienze e delle lotte dei minatori in Bolivia. Inoltre abbiamo studiato le biografie e autobiografie di affermati scrittori arabi come “Al-Ayyam” [Il libro dei giorni, Zanzibar, 1999, ndtr.] di Taha Hussein [scrittrice egiziana, ndtr.] e “I Was Born There, I Was Born Here” [Sono nato là, sono nato qua] di Mourid Barghouti [scrittore palestinese, ndtr.].

Il corso ha incluso anche un’analisi di testi letterari come quello del poeta palestinese Mahmoud Darwish intitolato “Incertezza del ritornato”, che è un discorso fatto da Darwish all’università di Birzeit durante i festeggiamenti per la liberazione del sud del Libano nel 2000.

I corsi di formazione, le presentazioni e discussioni hanno arricchito la consapevolezza delle detenute e le hanno incoraggiate a continuare a leggere libri e romanzi. Abbiamo trasformato la prigione in una scuola di cultura in cui le carcerate apprendono altre esperienze e in cui annulliamo i tentativi dell’occupazione di isolarci dal resto del mondo.

In conclusione, la nostra lotta per la liberazione dentro le carceri inizia con la protezione della letteratura di resistenza. Facciamo giungere le nostre voci e storie mentre le scriviamo in circostanze molto difficili. Quando siamo incarcerate il prezzo che paghiamo a volte è pesante, soprattutto quando la nostra punizione sono l’isolamento o il divieto delle visite dei familiari.

Un caso emblematico è il prezzo pagato dal detenuto Waleed Daqa, messo in isolamento per aver fatto uscire clandestinamente dalla prigione il suo romanzo perché venisse pubblicato. Ciò costituisce un’ulteriore sfida che dobbiamo affrontare nel contesto dei “Due Desideri”, quella dei combattenti per la libertà e quella dei colonizzatori, come espresso dalla combattente per la libertà Domitila Chúngara in “Chiedo la parola”.

Anche noi, donne palestinesi prigioniere diciamo “lasciateci parlare… lasciateci sognare… lasciateci sentire libere!” Grazie per avermi ascoltata e per avermi dato la possibilità di partecipare a questa conferenza.

Khalida Jarrar, prigioniera politica,

Prigione di Damon, 17 ottobre 2020.

Khalida Jarrar

Khalida Jarrar è una femminista ed attivista per i diritti umani e fa parte del Consiglio Legislativo Palestinese [il parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, in cui rappresenta il partito marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.]. Vive a Ramallah, ma è stata tenuta in detenzione amministrativa [incarcerazione senza imputazione e senza condanna rinnovabile a tempo indefinito, ndtr.] da Israele in vari periodi dal luglio 2015.

 

(Lettera pubblicata qui: MondoWeiss, traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)


da qui


scrive Farid Adly:

Oggi è l'anniversario della nascita del movimento palestinese Hamas, organizzazione di tendenza islamista figlia della Fratellanza Musulmana. Qualche giorno fa, l'11 dicembre, era l'anniversario della nascita del Fplp (Fronte Popolare).

Al di là delle ricorrenze, la questione palestinese vive un momento difficile, per la situazione generale e per i problemi interni al movimento di resistenza.

Non si intravede uno sbocco nella direzione di una soluzione che porti entro un lasso ragionevole di tempo alla nascita di uno Stato palestinese a fianco di Israele (sono passati 27 anni dagli accordi di Oslo, che si sono rivelati un inganno diplomatico di alto livello):

  1. per l'arroganza dei governi di Tel Aviv, ed in particolare dell'attuale, che hanno rifiutato e si rifiutano di riconoscere gli accordi che hanno firmato e le risoluzioni internazionali;
  2. per la politica degli Stati Uniti che ha bisogno di controllare saldamente la regione e Israele è un alleato fedele;
  3. per l'ipocrisia dell'UE che sbandiera lo slogan “Due Stati per due popoli”, ma poi ne riconosce uno (Israele) e si rifiuta di riconoscere l'altro (Palestina);
  4. per la miopia dei paesi arabi che non hanno saldi principi ma soltanto interessi del momento, servi dei padroni che tengono in sella i loro regimi privi di legittimità democratica e popolare. Abbiamo assistito recentemente alla firma di accordi di pace tra paesi che non sono mai stati in guerra;
  5. infine per le divisioni all'interno del movimento di resistenza, che non solo hanno impedito un programma politico ed un'azione comune, ma hanno sfaldato la realtà dei due territori autonomi (Gaza e una parte della Cisgiordania) in due entità contrapposte. Le due organizzazioni maggiori, Fatah e Hamas, non riescono a trovare un terreno comune di lotta per arrivare alla realizzazione delle aspirazioni del popolo palestinese, che sta pagando un alto prezzo in vite umane e in risorse, per continuare a sopravvivere sulla propria terra.

Una strategia palestinese che lavori per l'indipendenza deve partire dal sistemare la casa interna. Altrimenti non troverà ascolto nei partner, siano arabi o europei. Non si vive di solo tattica. Lo sfaldamento lo si è percepito in modo netto con le dimissioni della dirigente dell'OLP, Hanan Ashrawi, che ha detto due cose precise: largo ai giovani, per dare una prospettiva a questo popolo, e legittimità democratica delle istituzioni. Un invito implicito alle dimissioni del presidente Abbas e ad indire elezioni per ristabilire l'unità della resistenza. Credere che il cambio alla Casa Bianca significhi l'archiviazione del piano delle annessioni striscianti in Cisgiordania (già operante dal 1967) è una beata ingenuità, per non dire stupidità politica. Sette mesi fa, a maggio 2020, l'Autorità nazionale palestinese ha deciso di interrompere il coordinamento in materia di sicurezza con Israele, per il piano annunciato pubblicamente di annessione del 30% della Cisgiordania. Riprendere questo coordinamento senza che vi sia un impegno pubblico del governo israeliano per la fine della colonizzazione e il ritiro da tutti i territori occupati è come prendersi in giro. Non solo, ma farlo senza discuterne negli ambiti politici deputati (Esecutivo dell'OLP) ha portato ad un'ulteriore rottura dei rapporti interni, che non giova alla causa nazionale. Cinque movimenti palestinesi hanno pubblicato ieri un documento comune nel quale si rivolgono ai due movimenti maggiori per una strategia basata sulla disobbedienza civile contro l'occupazione israeliana. Contare su se stessi e sul popolo, per mobilitare la solidarietà internazionale.

 

 

La degenerazione del femminismo israeliano - Amira Hass

I soldati hanno festeggiato venerdì quando uno di loro ha sparato direttamente ad Ali Abu Aliya, 15 anni, colpendolo mortalmente all’addome?

Questa è una domanda concreta, perché il precedente venerdì, 27 novembre, agenti, uomini e donne, della Polizia di Frontiera si sono rallegrati dopo che uno di loro ha sparato un proiettile “due-due” (calibro 22) direttamente nella gamba di un altro giovane palestinese. L’entusiasmo dei soldati della Polizia di Frontiera è stato rievocato in un video.

Il portavoce della polizia non si è nemmeno preso la briga di rispondere alla domanda di Haaretz sul motivo di questa auto-gratificazione. In passato, quando venivano pubblicate prove visive che documentavano la soddisfazione dei soldati per il sangue che avevano versato, sentivamo ancora la risposta ufficiale che: “Non è il modo di fare dell’esercito”. Oggi questa finzione non è nemmeno necessaria. Qualsiasi dimostrazione di brutalità, di obbediente malvagità e maligna ignoranza, rivolta ai palestinesi, sembra naturale e accettabile per gli israeliani. Una parte indiscussa del nostro stile di vita.

Le circostanze della sparatoria nei due venerdì sono simili: i palestinesi manifestano contro gli israeliani violenti che abitano gli avamposti che si impossessano della loro terra. Le forze dell’esercito e della Polizia di Frontiera intervengono immediatamente con una estrema violenza che porta alcuni giovani palestinesi a reagire.

Venerdì scorso è successo all’ingresso orientale del villaggio di al-Mughayir. La settimana prima, più a sud, vicino all’impianto di estrazione dell’acqua dell’Autorità Palestinese a Ein Samia. I due siti si trovano a nord-est di Ramallah. Non conosco ancora la composizione organica della forza che venerdì ha sparato contro i manifestanti. A Ein Samia la presenza di soldatesse e poliziotte israeliane è stata significativa.

Il femminismo israeliano soffre una degenerazione pericolosa, vale a dire la richiesta di un numero crescente di donne per assumere ruoli di “combattimento”. Non sappiamo se un giorno dovranno difendere la patria da un esercito straniero. Nel frattempo le donne, come i soldati uomini, mantengono l’occupazione militare e ne difendono i trofei: gli avamposti e gli insediamenti, tutti illegali. Le soldatesse, come gli uomini, che siano o meno combattenti, vengono inviate a difendere l’osservanza della mitzvah (comandamento) ebraica per abusare, rapinare, espellere..

Un esempio rappresentativo della degenerazione sadica del femminismo israeliano può essere visto nel film del fotoreporter Hisham Abu Shaqrah. Si possono vedere le truppe della Polizia di Frontiera nelle loro uniformi grigie: tre uomini, due donne. Portano tutti uno zaino, è sono equipaggiati con fucili e lanciatori per sparare proiettili di gomma, noti per la loro capacità di lesionare gli occhi.

Un manifestante israeliano ha notato che le unghie di una delle poliziotte armate sono colorate di rosa. Le truppe sembravano molto rilassate mentre osservavano la manifestazione che si svolgeva a poche decine di metri di distanza. Del fumo denso usciva da una gomma in fiamme, diversi giovani gli stavano camminando intorno, due di loro stavano giocando con una fionda, le cui pietre hanno poche possibilità di colpire la strada o i soldati. Precedentemente, la polizia e i soldati avevano disperso la marcia pacifica dei manifestanti che scendevano da Kafr Malik con gas lacrimogeni e granate assordanti. Questa è la normale prassi per disperdere rapidamente le manifestazioni. Successivamente furono sparati anche proiettili con punta di spugna e proiettili di gomma.

Nel filmato si vede un poliziotto di frontiera in posizione di tiro disteso dietro la portiera aperta di una jeep, a cui si sono aggiunti altri due poliziotti e due poliziotte. Abu Shaqra disse all’osservatore di B’Tselem Iyad Haddad di aver notato un agente che dava indicazioni al poliziotto in posizione di tiro. “Era come se lo stesse consigliando su come colpire”, fu l’impressione del fotografo. Era intorno a mezzogiorno. All’improvviso si udì un solo sparo. Nel video, uno dei giovani che stava agitando una fionda viene visto chinarsi all’improvviso e stringersi il polpaccio. Il proiettile lo aveva colpito.

Un poliziotto applaude, le due poliziotte si congratulano con il tiratore, ognuna toccandolo leggermente con il piede. Dopo che l’ambulanza è arrivata e ha raccolto il ferito, una delle poliziotte si è precipitata ad abbracciare il tiratore che si era già alzato e ha gridato qualcosa del tipo “È stato fantastico!” Uno dei poliziotti, a quanto pare il comandante, è stato sentito dire: “Eccellente”. I giornalisti presenti, incluso Abu-Shaqra, si sono immediatamente resi conto che si trattava di un proiettile “due-due”, sparato da un fucile di precisione Ruger.

Nella sua risposta ad Haaretz, l’Unità del portavoce della polizia ha descritto le manifestazioni come comportamenti violenti e disordini dichiarando che il Ruger viene utilizzato nell’ambito di contrasto alle manifestazioni “sulla base dell’approvazione dell’ordinamento militare responsabile e secondo le procedure, contro rivoltosi che lanciano pietre anche con l’uso di fionde contro le forze israeliane.”

Il Ruger spara proiettili calibro 22, da cui deriva il nome “due-due”. Si tratta di proiettili offensivi che, sebbene meno potenti dei normali proiettili, possono essere letali o causare gravi lesioni. Nel 2009, in risposta a un’interrogazione di B’Tselem, l’allora avvocato generale militare Avichai Mendelblit ha detto che l’esercito non definisce il due-due come un mezzo per disperdere manifestazioni o contrastare condotte disordinate.

All’epoca, almeno due manifestanti palestinesi erano stati uccisi da proiettili due-due. Da allora almeno altri cinque manifestanti si sono aggiunti alla lista dei morti. Ora, nel processo collettivo di brutalizzazione, il due-due è parte integrante dei metodi per reprimere le manifestazioni palestinesi. E in nome della liberazione e dell’uguaglianza, molte donne israeliane sono desiderose di partecipare, e stanno contribuendo molto attivamente, nel negare le libertà civili.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto

 

da qui

 

 

Obama segue le orme di Jimmy Carter e parla apertamente contro Israele e l’AIPAC - Nasim Ahmed

 

Qualche volta, alcuni Presidenti degli Stati Uniti hanno trovato il coraggio, dopo aver terminato il proprio mandato, di parlare in modo onesto del rapporto con Israele e dell’influenza della lobby sionista a Washington. Fra tutti, Jimmy Carter è stato probabilmente il caso più noto. Nonostante il suo ruolo di mediatore negli accordi di Camp David del 1979 tra Egitto e Israele, il 39esimo Presidente degli Stati Uniti venne tacciato di antisemitismo in seguito alla pubblicazione, nel 2006, del suo libro Palestine: Peace Not Apartheid (Palestina: Pace, non Apartheid), diventato poi uno dei bestseller del New York Times.

In seguito alla violenta reazione al suo libro, Carter spiegò come mai sia così difficile per un politico americano parlare onestamente dei rapporti con Israele e delle politiche dello stato sionista. “Per un membro del Congresso, mantenere una posizione equilibrata nella complessa questione israelo-palestinese sarebbe quasi un suicidio, politicamente parlando” scrisse all’epoca sul Guardian. “Solo pochissimi si sono degnati di visitare città palestinesi come Ramallah, Nablus, Hebron, Gaza o Betlemme, o di parlare con la popolazione che vive sotto assedio.” Carter spronava gli Americani a prendere atto della “abominevole oppressione dei Palestinesi”.

Lo scopo ultimo di questo libro, disse Carter, era di presentare quei fatti riguardanti il Medio Oriente che sono in larga parte sconosciuti alla maggioranza degli Americani, nel tentativo di ravvivare la discussione e di aiutare a far ripartire il processo di pace tra Israele e i suoi vicini. “Un’altra speranza è che gli Ebrei e in generale tutti gli Americani che condividono questo obiettivo si sentano motivati a esprimere la propria opinione anche in pubblico, possibilmente di comune accordo.”

Sebbene il libro di Carter non abbia avuto l’impatto sperato sul Congresso USA, probabilmente proprio perché un dibattito equilibrato sarebbe stato, secondo le sue parole, un suicidio politico, ha comunque realizzato l’obiettivo di riportare alla ribalta una discussione franca all’interno delle varie comunità americane. Arrivato al pubblico un anno dopo il lancio della campagna per il BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), il libro Palestine: Peace Not Apartheid ha avuto l’indiscusso merito di accostare la brutale occupazione israeliana al regime di apartheid perpetrato ai danni della popolazione del Sud Africa dominato dai bianchi.

Un anno dopo il libro di Carter, gli accademici americani John Mearsheimer e Stephen Walt hanno gettato ulteriore luce su alcune delle preoccupazioni sollevate dall’ex Presidente, nel loro libro La Lobby israeliana e la politica estera americana. Mearsheimer e Walt intendevano rispondere a una domanda fondamentale: “Perché il governo degli Stati Uniti è stato disposto a mettere da parte la propria sicurezza e quella dei propri alleati pur di salvaguardare gli interessi di un altro stato?”

“Si potrebbe pensare che il legame tra due paesi (Stati Uniti e Israele) sia basato su interessi strategici condivisi o su un superiore imperativo morale” suggerivano i due studiosi, prima di spiegare che “Nessuna di queste spiegazioni può giustificare l’incredibile livello di supporto materiale e diplomatico che gli Stati Uniti forniscono” allo stato Sionista.

Proprio le attività della “Lobby israeliana,” dicono Mearsheimer e Walt, hanno permesso di “distorcere” la politica estera americana e di “deviarla molto al di fuori dell’interesse nazionale, pur convincendo i cittadini americani che l’interesse degli Stati Uniti e quello di un altro paese, in questo caso Israele, fosse sostanzialmente il medesimo”

Nei 13 anni trascorsi dalla pubblicazione della loro importante opera, ci sono stati tentativi disperati di fermare i legislatori americani. Questi tentativi hanno messo in luce l’influenza dei gruppi anti-palestinesi come l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, un potente gruppo di pressione filo-israeliano) nel gettare fango su chiunque criticasse le politiche di Israele, tacciandolo di “antisemitismo”. La rappresentante democratica al Congresso Ilhan Omar è l’ultima vittima di questa campagna.

Nonostante i tentativi di mettere a tacere persone come Omar, le obiezioni sollevate da Carter, Mearsheimer e Walt nei confronti della lobby filo-israeliana hanno continuato ad essere fonte di preoccupazione per i Presidenti e gli alti ufficiali degli Stati Uniti. Seguendo le orme di Jimmy Carter, anche Barack Obama ha voluto mettere in guardia gli Americani sull’influenza spregiudicata della lobby filo-israeliana e sull’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo come arma per silenziare le critiche nei confronti delle politiche sioniste. Nel suo prossimo libro A Promised Land (Una Terra Promessa), Obama sembra prendere atto che c’è un prezzo politico da pagare nel criticare Israele e che i sostenitori americani dell’occupazione utilizzano l’accusa di antisemitismo per mettere a tacere qualunque voce contraria alle politiche del governo israeliano a danno dei Palestinesi.

Secondo gli estratti pubblicati dal Jewish Insider, Obama scrive che i politici americani che “criticano troppo aspramente le politiche israeliane rischiano di venire bollati come ‘anti-israeliani’ (e magari anche antisemiti) e di doversi confrontare alle successive elezioni con un’opposizione ben finanziata.”

Obama ha anche attaccato l’AIPAC, dicendo che il potente gruppo anti-palestinese si è nel tempo spostato sempre più a destra, riflettendo l’orientamento del governo guidato da Benjamin Netanyahu, al punto da difendere Israele anche quando le sue azioni si sono rivelate “contrarie alle politiche USA”. Questa è la stessa conclusione raggiunta da Mearsheimer e Walt nel loro libro, per la quale i due accademici furono marchiati come antisemiti. L’ex presidente ha anche rivelato di aver avuto problemi con il suo stesso partito per aver criticato gli insediamenti israeliani.

Obama non è l’unico ad aver messo in guardia dalla lobby israeliana. Il Colonnello Douglas Macgregor, consulente senior del Pentagono, ha accusato il Segretario di Stato Mike Pompeo e altri politici di aver ricevuto soldi e di essere diventati ricchi grazie alla “lobby israeliana”. Si noti anche che mentre le parole di Ilhan Omar hanno scosso l’intero establishment americano, quelle dell’ex colonnello sono invece rimaste soffocate da un muro di silenzio.

Macgregor, che è stato recentemente nominato consigliere senior del nuovo vice-segretario americano alla Difesa, ha espresso ai media simili commenti in due diverse occasioni nel 2012 e nel 2019. La sua ipotesi era che potenze straniere stessero influenzando gli Stati Uniti in modo da farli agire contro il proprio stesso interesse. Queste parole sono venute alla luce solo nella scorsa settimana.

“Bisogna vedere chi sono coloro che fanno donazioni a questi individui” avrebbe detto Macgregor alla CNN durante un’intervista nel settembre del 2019, quando gli venne chiesto se l’allora Consulente alla Sicurezza Nazionale John Bolton e il senatore repubblicano Lindsey Graham volessero una guerra con l’Iran. “Mr. Bolton è diventato molto, molto ricco e si trova nella posizione che occupa grazie al suo supporto incondizionato alla lobby israeliana. Bolton è il loro uomo sul campo all’interno della Casa Bianca. La stessa cosa si può dire per Mr. Pompeo, che aspira alla presidenza e mira ai soldi della lobby israeliana, dei Sauditi e di altri.”

È giunta l’ora che il popolo americano alzi la voce nei confronti dei propri rappresentanti e degli organi eletti per guidare il paese. Come disse Jimmy Carter, i cittadini americani hanno il diritto di conoscere la verità sulla “abominevole oppressione dei Palestinesi” e di porre fine alla servitù del governo nei confronti di un paese straniero.

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A differenza della terra rubata, il tempo rubato ai Palestinesi non può essere recuperato - Amira Hass

 

L’esercito israeliano (IDF) addestra i suoi soldati anche a un sadismo morbido ed efficace, non di tipo fisico ma psicologico. Ogni giorno la missione di dozzine di soldati di età compresa tra 18 e 20 anni è quella di rubare il tempo a centinaia di Palestinesi di tutte le età, per triturarlo in un miscuglio di nervi logori, riunioni mancate, incertezza, appuntamenti col medico annullati, ritardi per la cena con i bambini. Questo ordine viene eseguito mediante l’uso di posti di blocco (checkpoint) interni in Cisgiordania, sia quelli con un’infrastruttura permanente sia quelli mobili e volanti. (Il furto di tempo ai checkpoint di uscita dalla Cisgiordania è sadismo di una forma leggermente diversa.)

I posti di blocco sono un’intenzionale operazione armata il cui diretto risultato è quello di accorciare la vita attiva e creativa di un Palestinese, diciamo, di mezz’ora o un’ora ogni giorno. Il tempo rubato è invisibile. È impossibile da toccare e non sanguina. Il tempo perso non è quello degli Ebrei in un ingorgo, quindi questa perdita di vita non fa “notizia”. Tanto più che si tratta di un’attività di routine, l’esatto opposto della novità. Dopo tutto, a parte il sangue, la stampa ama le “eccezioni” e tutto ciò che è fuori dall’ordinario.

Ma questo articolo tratta proprio dell’ordinario. Per esempio: martedì 10 novembre, alle 21:30, una lunghissima fila di auto aspettava dietro il checkpoint militare fisso all’uscita nord-orientale di Ramallah – El Bireh. La coda della fila era in piazza City Inn, in Nablus Road, la sua testa era sotto la tettoia del checkpoint, tra i suoi blocchi di cemento che si estendono per circa 400 metri. Le luci delle auto come fossero congelate sul posto. Io stavo andando in direzione di Ramallah. La mia corsia d’ingresso al checkpoint era sgombra. Ho visto da lì, nella corsia di uscita, un’auto fermata e due soldati accanto. Quella non si muoveva e tutte le auto dietro di essa erano bloccate.

Non mi sono fermata da una parte fino a quando la fila di macchine non avesse cominciato a muoversi. Non sono scesa dalla macchina per chiedere ai soldati armati cosa stesse succedendo. Questo è un checkpoint che i pedoni non possono attraversare. Non me la sentivo di rischiar la vita per vedere se i soldati si attenevano agli ordini su come fermare un sospetto (urlando “stop” e non sparando immediatamente al pedone). Ma anche senza indagare, lo sapevo per esperienza: una fila così lunga che non avanza, ad un orario che non è quello di punta, vuol dire che è rimasta bloccata in questo modo per molto tempo. Non un solo guidatore ha osato suonare il clacson e rivelare la sua irritazione. Il silenzio delle auto gridava una sorta di rispetto della situazione e di apparente obbedienza. Sotto, c’era lava incandescente.

Tre giorni dopo, venerdì 13 novembre, verso le 16:15, viaggiavo sulla strada Bir Zeit – Nabi Saleh. All’ingresso del piccolo villaggio di Atara c’erano due file di auto: una rivolta verso l’uscita e l’altra verso il villaggio. Due soldati armati stavano in mezzo. Se c’era una jeep militare lì, non me ne sono accorta. Le auto, intente all’obbedienza, non si muovevano.

Anche questa volta non mi sono fermata. Avevo fretta e temevo anche che i soldati si sarebbero vendicati sugli autisti palestinesi e avrebbero allungato il ritardo se avessi cominciato a fare domande. Ho continuato verso ovest. All’ingresso del villaggio di Nabi Saleh si poteva vedere la stessa scena: due file di auto, due soldati e le auto che aspettavano e aspettavano. Lo stesso giorno in Cisgiordania sono stati allestiti 16 posti di blocco volanti. A uno di questi una persona è stata arrestata, secondo il rapporto del dipartimento dei negoziati dell’OLP. Il 15 novembre c’erano 18 posti di blocco volanti e due giorni dopo 12. Quanto potere di fare del male è nelle mani di due soldati armati di fucili.

Ho inviato le seguenti domande al portavoce dell’IDF: Riguardo al checkpoint permanente, era un’auto specifica che è stata controllata a lungo, e di conseguenza si è formata la lunga fila, o era un controllo di routine su ogni singola auto? Sul posto è stato effettuato un arresto? Quando è stato “liberato” l’ingorgo? Perché, quando un’auto viene trattenuta per qualsiasi motivo a questo checkpoint, non viene spostata su un lato (come si fa, ad esempio, al checkpoint di Hizma dove passano i coloni e gli altri Israeliani), in modo che dozzine di altri guidatori non debbano subire lo stesso ritardo?

Per quanto riguarda i due checkpoint volanti, ho chiesto: “Questi checkpoint sono di routine ogni venerdì in quest’area,? In caso negativo, c’era un motivo speciale per metterli in questi due villaggi venerdì scorso, e qual era? Da che ora a che ora sono stati messi quei posti di blocco quel giorno? Sono stati fatti arresti?”

E questa è la risposta-non risposta dell’ufficio del portavoce dell’IDF alle mie domande: “Le forze dell’IDF svolgono una serie di attività operative allo scopo di proteggere la sicurezza dei residenti [leggi, i coloni. Nota dell’autrice] nella regione della Giudea e Samaria. Nell’ambito di queste attività, l’esercito posiziona di tanto in tanto posti di blocco mobili sulla strada ed esegue controlli in base alle valutazioni della situazione e alle relative informazioni di intelligence. Si tratta di uno strumento operativo efficace e spesso sospetti e armi vengono catturati come risultato di queste attività. Va sottolineato che, oltre alla necessaria messa in atto di queste attività, le forze dell’IDF compiono tutti gli sforzi possibili per preservare la normale routine di coloro che viaggiano sulle strade”.

La normale routine di un regime militare straniero e imposto con la forza comporta anche l’abuso psicologico dei soggetti e la loro umiliazione. Il controllo sul tempo dei soggetti è complementare al controllo sulla loro terra, solo che il tempo non può essere recuperato.

 

Traduzione di Gianluca Ramunno – AssopacePalestina

 

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CISGIORDANIA. Nuove ampie strade per i coloni: annessione di fatto - Clothilde Mraffko

 

In un nuovo rapporto l’Ong israeliana Breaking the Silence svela circa 25 progetti israeliani di strade nella Cisgiordania occupata destinate a servire alla colonizzazione e a incoraggiarla nei prossimi anni. Middle East Eye vi ha avuto accesso in anteprima

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi per Zeitun.info)

 

Da mesi i bulldozer mordono la montagna nei pressi di Betlemme. Il cantiere è gigantesco, si scavano tunnel e ponti a tutta velocità. Lo scopo? Costruire nuove strade per trasformare questo asse viario intasato mattina e sera in un’autostrada con un traffico scorrevole. Il tratto di strada è percorso solo dai coloni israeliani che fanno ogni giorno il tragitto da Gush Etzion, gruppo di colonie situate a sud di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, fino a Gerusalemme, dove lavorano.

Invece i palestinesi non possono accedere a questo tratto: le loro strade passano dall’altra parte del muro di separazione che dal 2002 Israele ha costruito a Betlemme. In totale, entro 5 anni dovrebbero emergere dalla terra 37 km di tunnel, ponti e svincoli.

L’allargamento di questa “strada dei tunnel” fa parte di un progetto più grande, svelato questa settimana da Yehuda Shaul, cofondatore e importante membro dell’Ong israeliana “Breaking the Silence” in un nuovo rapporto scritto insieme alla nuova organizzazione che ha fondato, “The Israeli Centre for Public Affairs” [Il Centro Israeliano per le Questioni Pubbliche, ndtr.].

Secondo lui, mentre il mondo aveva gli occhi puntati sulle voci di un’annessione israeliana di una parte della Cisgiordania quest’estate, Israele procede da anni a un’annessione di fatto, imponendo cioè una serie di fatti sul terreno difficili da cancellare.

“L’obiettivo è avere un milione di coloni israeliani entro dieci-venti anni,” spiega a Middle East Eye, aprendo con attenzione una cartina davanti a sé. Oggi più di 600.000 israeliani vivono a Gerusalemme est e in Cisgiordania, in totale violazione del diritto internazionale, e la loro presenza compromette gravemente la formazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile.

Incoraggiando la colonizzazione, Israele tende ormai a persuadere i coloni israeliani ad insediarsi sempre più in profondità nella Cisgiordania occupata. Estendendo la presenza israeliana, i dirigenti sionisti sperano di rendere impossibile qualunque spostamento di popolazione e di liquidare così definitivamente la soluzione a due Stati.

Ma per fare ciò ci vogliono delle strade. Per il momento la maggioranza dei coloni continua a lavorare in Israele, dall’altra parte della Linea Verde (il tracciato dell’armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi), dove si trovano le principali opportunità di lavoro. Fanno ogni giorno i pendolari su assi viari diventati troppo piccoli per assorbire la crescita delle colonie e della popolazione palestinese.

 

 Galvanizzati da Trump

“L’ultima volta che c’è stato un piano di sviluppo completo in Cisgiordania era il 1991. In seguito ci sono stati gli accordi di Oslo,” commenta Yehuda Shaul, che percorre instancabilmente le strade dei territori palestinesi per valutare l’avanzamento di questo “grande progetto”. Nel rapporto pubblicato questo lunedì elenca circa 25 cantieri avviati o previsti per estendere le reti viarie nella Cisgiordania occupata e per migliorare i collegamenti tra le colonie e Israele.

“I progetti infrastrutturali di Israele in Cisgiordania rafforzano il controllo israeliano sulla terra, frammentano il territorio palestinese e costituiscono un ostacolo importante per ogni soluzione che includa in futuro la pace e l’uguaglianza,” conclude il rapporto.

Negli ultimi anni gli eletti nei consigli dei coloni in Cisgiordania hanno fatto pressione, arrivando fino a scatenare nel 2017 uno sciopero della fame simbolico per ottenere più finanziamenti. I primi progetti sono stati presentati nel 2014, ma la presidenza Trump ha chiaramente galvanizzato le ambizioni israeliane. “Un grande progetto è una visione, non vuol dire che venga effettivamente realizzato, soprattutto per questioni di bilancio,” frena l’attivista di Breaking the Silence.

In particolare l’allargamento della strada dei tunnel verso Betlemme dovrebbe costare circa 850 milioni di shekel, circa 214 milioni di euro. Tutto attorno a Gerusalemme l’allargamento degli assi stradali che portano alle grandi colonie o la costruzione di nuove strade dovrebbero costare in totale circa 5 miliardi di shekel, 1.26 miliardi di euro.

Questi lavori servono innanzitutto agli interessi dei coloni israeliani e rafforzano la segregazione in atto in Cisgiordania. In qualche caso, come conseguenza dell’effetto di rimbalzo, queste strade favoriranno anche i palestinesi, esclusi dai grandi cantieri israeliani, riducendo il traffico su alcune strade.

La maggior parte dei progetti studiati da Breaking the Silence riguarda le tangenziali. Queste strade, sviluppate dalla metà degli anni ’90, permettono ai coloni di spostarsi tra colonie o verso Israele senza attraversare città o villaggi palestinesi. Ormai Israele intende investire per trasformare la maggior parte delle strade in autostrade, oppure costruire dei prolungamenti.

“Dopo la realizzazione di questi 25 progetti nessun colono, salvo ad Hebron (dove i coloni vivono all’interno della città), dovrà guidare nelle zone dove vivono i palestinesi,” spiega Yehuda Shaul.

In totale per i palestinesi saranno costruiti due assi stradali. L’idea è di permettere loro di aggirare la colonia di Maale Adumim, situata a 7 km ad est di Gerusalemme, per riservare ai coloni israeliani una strada che colleghi la colonia alla città santa senza posti di controllo, come se facesse parte della periferia naturale di Gerusalemme.

Ovviamente i palestinesi che non sono autorizzati ad entrare a Gerusalemme non potranno transitare su questa strada. Nel gennaio 2019 un tratto, soprannominato la “strada dell’apartheid”, era già stato aperto, con da una parte la carreggiata riservata ai palestinesi e dall’altra quella per quanti dispongono di una vettura con una targa israeliana, separate tra loro da un alto muro sormontato da una barriera.

“La prova che questi progetti servono allo sviluppo israeliano è che seguono degli assi est/ovest, dalla Cisgiordania verso i luoghi di lavoro in Israele. Lo sviluppo naturale palestinese invece ha luogo attraverso le colline, da nord a sud,” commenta il coautore del rapporto. L’ampiamento delle strade si accompagna anche all’“espropriazione di una notevole quantità di terreni. Vede queste linee? Sono le linee degli espropri,” sottolinea, al bordo di una strada che si dirige verso Hebron, nel sud della Cisgiordania. Da ogni lato dei piccoli bastoni neri piantati profondamente nella terra si mangiano grandi porzioni di campi. “Non è consentito costruire ai bordi delle autostrade,” continua Yehuda Shaul.

Queste strade impediranno anche lo sviluppo delle enclave palestinesi. Così l’ingrandimento della strada dei tunnel impedirà ogni possibilità di espansione di Betlemme verso nord. Cambia anche il rapporto tra le città e i villaggi palestinesi, tagliati fuori le une dagli altri dai grandi assi viari che non servono a loro e li obbligano a delle deviazioni.

Nel 2019, in un’intervista al giornale israeliano Israel Hayom [quotidiano israeliano gratuito di destra, ndtr.] l’ex-ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich, del partito di estrema destra [dei coloni, ndtr.] Yamina, ha annunciato chiaramente: “Se si vuole portare un altro mezzo milione di abitanti in Giudea e Samaria (nome biblico che gli israeliani utilizzano per evitare di dire “Cisgiordania”), si deve essere sicuri che ci siano delle strade. Le colonie seguono le strade e i trasporti pubblici.”

Con questi 25 progetti, denunciano gli autori del rapporto, Israele accelera la sua politica di annessione di fatto, contribuendo a “definire ancor di più la situazione di uno Stato unico con disparità di diritti,” in spregio al diritto internazionale.

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