Migranti identità e altrove
L’abbandono del luogo d’origine da parte
dell’immigrato non è soltanto fisico, giacché egli è anche costretto ad
allontanarsi dal suo vissuto quotidiano, e quindi a decodificare il bagaglio di
conoscenze, pratiche e consuetudini interiorizzate e adatte a vivere nel
proprio paese, per rimpiazzarle, il più velocemente possibile, con nuovi codici
di riferimento funzionali all’inserimento nel paese di arrivo. D’altra parte il
distanziamento dalle origini rimane parziale, poiché permane l’attaccamento
affettivo, emotivo, che induce nostalgia, tanto da amplificare l’estraneità
rispetto alla realtà in cui si inserisce. Né d’altra parte sono facilmente e
immediatamente acquisibili le nuove conoscenze, le nuove regole, le nuove
abitudini e tale difficoltà di inserimento comporta una condizione di
marginalità che si delinea sostanzialmente secondo tre caratteristiche. Si
tratta infatti di un individuo che:
a) viene da altrove, un
altrove geografico, culturale, politico e linguistico;
b) viene dal basso ovvero
da una condizione di debolezza socio-economica che rappresenta di per sé un
ostacolo all’inserimento e alla partecipazione, anche in ragione del venir meno
di una rete di relazioni sociali;
c) non possiede una titolarità formale dei
diritti di cittadinanza, condizione che limita fortemente la capacità di
negoziare i propri bisogni o anche di contare su qualche forma di
rappresentanza, diversamente da altri soggetti deboli ma appartenenti per
nascita a questa società.
Tuttavia questa condizione di doppia
appartenenza innesca nell’immigrato un particolare processo identitario. Dal
continuo rapporto dialettico fra la sfera della memoria, che rappresenta il
vissuto passato e quindi il punto fermo di un percorso, e la sfera progettuale,
ovvero la dimensione del divenire legata al ‘fare’, al movimento, si genera una
peculiare esperienza, un tentativo di coniugazione fra due possibili modi di
essere, che induce una continua alternanza identitaria. Si
tratta di un delicato e sempre precario equilibrio, entro il quale incidono
profondamente determinati fattori, che possono accelerare o rallentare il processo
di inserimento. Questi fattori sono riconducibili sia a variabili
‘indipendenti’, come il genere, la provenienza geografico-culturale, il grado
di istruzione, sia a condizioni acquisite, come l’inserimento nel mondo del
lavoro, la qualità e il tipo di accoglienza.
Questa descrizione della figura e della
condizione dell’immigrato introduce quelli che possiamo definire come i due
filoni di base nell’approccio all’immigrazione.
Il modello predominante è quello che si
può definire in termini di integrazione subalterna, che si
fonda su tre elementi di seguito brevemente sintetizzati.
1. Il primo elemento è quello che si
riferisce allo straniero migrante come persona in stato di bisogno, cui
rivolgere un atteggiamento pietistico, che rimane volutamente distante da una
concezione di parità (e che permette di ‘gestire’ più facilmente l’immigrato
stesso). Lo straniero migrante trae legittimità e riconoscimento soltanto in
termini di bisogno.
2. Il secondo elemento è quello relativo alla
condizione di forza lavoro, in virtù di una visione strumentale dell’immigrato,
che aumenta il livello di accettazione sociale e legittima così la sua presenza
come necessaria a coprire gli spazi lavorativi disponibili sul mercato.
3. Il terzo e ultimo assunto
dell’integrazione subalterna si riferisce all’immigrato come possibile
turbativa dell’ordine pubblico, in quanto: a) proviene da una realtà
politico-culturale estranea e pertanto potenzialmente destabilizzante; b)
poiché in condizione di bisogno potrebbe mettere in atto comportamenti di tipo
deviante.
Questo è una della modalità
maggiormente diffusa nell’ambito della politica migratoria la quale tende a
delegare la gestione di tale ‘turbativa’ al privato sociale. Quest’ultimo dal
canto suo viene ad assumere un ruolo di ammortizzatore sociale, svolgendo una
funzione di ‘contenitore’ nei confronti degli estranei sociali.
Su un piano differente si colloca
l’approccio in termini di uguaglianza emancipante,
atteggiamento scarsamente diffuso e presente quasi esclusivamente in alcuni
spazi dell’associazionismo, oltre che in alcuni gruppi informali, in virtù del
quale vengono attivate delle risposte ai bisogni materiali e immateriali degli
immigrati su un piano di riconoscimento del valore della persona e dei suoi
diritti fondamentali. Si verifica in questi casi un rapporto più complesso e
attento alle diverse situazioni e dimensioni che caratterizzano l’esperienza e
il vissuto dell’immigrato, per quanto a volte un simile atteggiamento tenda a
scivolare in una eccessiva ‘etnicizzazione’ o esaltazione degli
elementi folcloristici come idealizzazione fine a se stessa della diversità,
che si delinea in termini di intercultura marginale.
E’ chiaro comunque che i due filoni fanno
riferimento a questioni e situazioni diverse dell’immigrazione, che viene
affrontata nel primo caso come problema sociale da
gestire e controllare, mentre il secondo tipo di approccio si basa più sul
rapporto diretto e interpersonale con l’immigrato, relazione che potrebbe
rivelarsi attenta e consapevole delle dinamiche di cambiamento e trasformazione
che si vengono reciprocamente a instaurare.
La rappresentazione sociale degli
immigrati
La rappresentazione sociale degli
immigrati gravita grosso modo intorno a due visioni, solo apparentemente
opposte. La prima, a connotazione ‘positiva’, poggia su tutta una serie di
ricerche, di dati, di realtà direttamente coinvolte, e porta ad una concezione
utilitaristica dell’immigrato come estraneo utile all’economia,
al lavoro, ad una società sempre più anziana che abbisogna di risorse giovani e
attive. La seconda, a connotazione ‘negativa’, si basa, soprattutto, più sul
sentito dire, sugli umori sociali, sulla diffusione di notizie allarmistiche e
sensazionalistiche riguardanti episodi di criminalità, di devianza, e che
concernono in definitiva una piccola minoranza di questa realtà, per quanto,
come ben sappiamo, sia proprio tale rappresentazione talvolta a prevalere
nell’opinione pubblica.
Pur con i dovuti distinguo, entrambe le
visioni tendono in realtà a convergere, poiché, a ben vedere, l’orientamento
sottostante non appare in nessun caso rivolto al cambiamento e alla
modificazione degli atteggiamenti. La seconda per ovvi motivi, la prima perché
tende anch’essa a non percepire e a non considerare la realtà dei paesi
d’origine, il divario economico, le condizioni di vita, mentre adotta
unicamente una visione strumentale che non riflette sul modello di sviluppo
attualmente dominante.
La prima di queste due opinioni correnti,
può essere ricondotta a quello che sul piano politico è stata sopra definita
nei termini di integrazione subalterna, mentre la seconda si
pone come politica di contenimento, o arginamento del rischio. Se quest’ultima
mira unicamente a governare e limitare, in termini numerici e temporali, il
fenomeno, l’altra mette in campo pratiche di solidarietà selettiva, riservata a
chi riveste un ruolo di forza lavoro, e che solo in virtù di questo può
affermare e vedersi riconoscere alcuni, limitati, diritti.
Ecco che allora il tema della
partecipazione e della rappresentanza degli immigrati diventa essenziale,
affinché l’inclusione di queste persone nella società sia un dato di fatto e
non una mera dichiarazione d’intenti.
Se la spinta all’auto-rappresentanza
spetta ai soggetti protagonisti, e quindi agli immigrati stessi, le opportunità
di partecipazione dovrebbero in qualche modo essere aperte e promosse da
parte delle realtà locali, sia civili, sia soprattutto politico-istituzionali,
e anche da parte di chi si occupa quotidianamente di tali questioni, come
alcune testimonianze nell’ambito associazionistico.
Ma perché ciò diventi fattibile, perché si
possa dare un nuovo corso ai rapporti fra immigrati e comunità locale, è utile
partire da un attento percorso di riflessioni.
Porsi di fronte all’immigrazione oggi,
implica il riconsiderare alcuni elementi storico-sociali, che qui riassumiamo
brevemente.
1. Il primo di questi è rappresentato da un
passato colonialista, che ha modellato il mondo secondo la propria visione,
dentro la quale il colonizzato, per dirla con Kipling, rappresentava «il
fardello dell’uomo bianco». Oggi sono mutate le condizioni e le politiche,
ma rimane radicata, anche se talvolta celata , questa visione delle popolazioni
provenienti dalle aree periferiche del modo e/o portatrici di altre visioni o
modelli culturali, come fardelli, o come popolazioni arretrate.
2. In secondo luogo, oggi più che mai, la
società costituita dai paesi ricchi e industrializzati, rappresenta il vertice
di una gerarchia culturale, che nasce e si fonda su un potere
economico, politico, e anche militare, forte e indiscusso. Tale potere è totale
e tende naturalmente a sottomettere culturalmente e ad allineare
ideologicamente i popoli più deboli, di cui fanno parte gli immigrati.
3. Terzo elemento da considerare, è che gli
immigrati vanno comunque a colmare spazi marginali nel lavoro e nella società,
il che non aiuta ad ottenere quel riconoscimento come persona,
ricca di una propria specificità, di bisogni complessi e di diritti ampi.
4. Altro elemento: se nella società esistono
meccanismi di inclusione, non mancano quelli di esclusione, e questo vale per
tutte le società. Nessuno può negare che anche in questa società vivono
soggetti deboli, svantaggiati, emarginati, discriminati. La società stessa, nel
momento in cui attiva politiche di welfare, riconosce che
tale esclusione esiste e tende ad agire maggiormente proprio laddove è più
forte la debolezza e la mancanza di strumenti, di risorse, di rappresentanza.
Ciò che accade soprattutto nel caso delle/dei migrati, la cui specifica e
peculiare situazione socio-economica-giuridica rappresenta una condizione
acquisita insieme allo status di straniero.
5. Infine, come ultimo aspetto, e legato al
precedente, dobbiamo considerare lo sfaldarsi delle forze di coesione e di
partecipazione interne alla società, la messa in crisi dello stesso stato
sociale, processi che rendono oggi più problematico il processo di inclusione e
di appartenenza per chi viene dall’esterno.
In considerazione di tutti questi
elementi, l’immigrato rappresenta una sfida, una cartina di tornasole, ma anche
uno stimolo a verificare gli stessi principi e gli stessi valori sui quali è
stata fondata la concezione democratica e liberale, che oggi vede emergere
molte contraddizioni.
Su quali basi, dunque, si debba costruire
un progetto di compartecipazione che vada oltre le espressioni di una
solidarietà, che a volte appare, fra l’altro, soltanto subita? Quali sono i
parametri che vanno considerati e revisionati? Dobbiamo proseguire con una
politica di contenimento o non dobbiamo forse avviare una politica dei diritti?
La partecipazione degli immigrati come
prassi democratica
In conclusione, nella rappresentazione
sociale, la figura dell’immigrata/o viene a coincidere o con l’incarnazione di
un bisogno economico bivalente – ma automaticamente adattabile, per necessità,
alle condizioni offerte e imposte dal mercato del lavoro – oppure con quella
del delinquente reale o potenziale. Non necessariamente l’una esclude l’altra.
L’opinione pubblica, nel migliore dei casi, tende di fatto a percepire gli
immigrati e le loro famiglie a livello di corpo estraneo, magari necessario
alla struttura economico-produttiva, ma ‘invisibile’ sul piano sociale; nel
peggiore li vive come minaccia e pericolo.
Una corretta azione informativa e
formativa, una politica del riconoscimento fondata sui diritti
e sulla partecipazione, dei percorsi di ri-alfabetizzazione democratica,
interventi di qualificazione e di valorizzazione delle potenzialità dei
cittadini immigrati e della loro soggettività, appaiono dunque come elementi
centrali all’interno di una politica culturale rivolta alla popolazione e agli
immigrati che condividono territorio, servizi, luoghi di lavoro, istituzioni e
spazi. Nella società come nel mondo del lavoro è essenziale, da una parte,
rimuovere eccessi emotivi, allarmismi, indifferenza e distanza, dall’altra
favorire il sentimento di auto stima e di realizzazione nei cittadini
immigrati, il senso della partecipazione alla vita economica come a quella
sociale e dunque un rapporto equilibrato di reciprocità con la società
d’arrivo.
Nel rapporto fra società locale e le/i
cittadini risiedenti provenienti dall’estero i secondi rappresentano la parte
fragile. Certo, oggi come oggi è necessario una politica innovativa della
immigrazione per rimuovere gli ostacoli e gli impedimenti, in termini materiali
e culturali. Quando una società sarà consapevole al punto che la provenienza
da altrove non costituirà un insormontabile limite alla
partecipazione, quando i diritti della persona e i diritti di cittadinanza
saranno riconosciuti ad ogni persona di qualsiasi origine che vive all’interno
di quella società, gli immigrati non avranno alcun bisogno di essere
rappresentati e tutelati in quanto tali, ma solo nella misura e nelle forme di
qualsiasi altro cittadino.
In attesa di ciò – in attesa di una
coscienza civile che veda l’integrazione non come uniformazione comportamentale
e culturale, e neppure in termini di produzione di reddito, bensì fondata sul
riconoscimento di regole condivise e su una coesione sociale ampia – la
mediazione socioculturale rimane una fondamentale strategia per la rimozione e
per promuovere la partecipazione. Si accentua l’importanza e la necessità di
quello che è molto più di un servizio per gli immigrati, poiché la mediazione
socioculturale rappresenta il primo fondamentale passo per consentire agli
immigrati di esprimere, affermare e far valere bisogni e diritti su un piano di
parità e di interscambio. Inoltre la mediazione favorisce il processo di
socializzazione al nuovo contesto, agevolando nuove forme di appartenenza e
quindi i presupposti della partecipazione effettiva. Ma anche nelle politiche
di mediazione si pone un’alternativa, fra contenimento e innovazione. Nel primo
caso la mediazione assume una funzione di ammortizzatore sociale e tende a
prevalere un atteggiamento di delega alla figura del mediatore da parte del
servizio. Nel secondo caso la strategia della mediazione tende a rimuove
ostacoli, promuovere diritti, attuare una politica di empowerment, stabilire
rapporti di parità e di reciprocità, consentire la possibilità di determinazione
nell’ambito delle politiche e degli interventi sull’immigrazione.
E’ fondamentale inoltre che fra i
soggetti promotori di una politica del riconoscimento vi siano gli immigrati
stessi . Molte delle esperienze condotte fino ad ora per agevolare il processo
di inclusione degli immigrati mostrano i limiti di interventi settoriali, nei
quali l’immigrato o risulta spesso assente o tutt’al più viene ad
assumere un ruolo ‘specifico’ in quanto immigrato, mentre ne vengono
tralasciate e trascurate le competenze e le capacità. Lo stesso associazionismo
ha svolto spesso un ruolo di contenimento, anziché essere luogo di
partecipazione e di condivisione di idee e di responsabilità.
Qualche considerazione
Il dibattito intorno alla partecipazione
dei cittadini immigrati è stato sempre caratterizzato dalla ricerca di forme
associazionistiche di rappresentanza. Tale ricerca si è espressa secondo
modalità diverse (per esempio l’istituto della consulta ) che hanno conosciuto
sorti alterne, ma fondamentalmente accomunate da scarsa capacità di incidere
sulle politiche migratorie, e tanto meno sulle dinamiche sociopolitiche e
culturali di un territorio. I motivi sono vari e diversi, ma in
particolare una delle ragioni va ricercata nella corsa a dare ‘visibilità’ ad
un segmento sociale emergente. Intento comprensibile e legittimo, tuttavia a
ciò non si è accompagnato un lavoro di riflessione sulle diverse articolazioni
e sull’evoluzione della presenza delle/dei cittadine/i provenienti,
dall’estero. Sarebbe stato utile e lo è tuttora, che le/i migranti
si rendono più disponibili a essere partecipi nei luoghi di lavoro,
nella scuola, nei quartieri, nelle associazioni di categoria, nelle organizzazioni
sindacali. In questi luoghi, in tutti questi anni, si è consolidata di fatto
non solo la presenza ma anche una certa esperienza. La rappresentanza
necessita un agire quotidiano e organico che si protrae nel tempo, che apre i
margini del confronto includendo una molteplicità di voci e di volti, e dunque
i bisogni reali della collettività nel suo insieme. Questo darebbe avvio a
forme di rappresentanza basate non solo su un’appartenenza di colore,
o di provenienza, come spesso accade, ma sull’opportunità di scegliere in base
ad orientamenti o interessi trasversali sociopolitici e culturali.
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