sabato 12 dicembre 2020

Perché dovresti circondarti di libri, anche se non avrai il tempo di leggerli tutti – Manuel Santangelo

 

Negli anni Quaranta, Borges scrisse un racconto fantastico intitolato La biblioteca di Babele. Lo spazio cui si fa riferimento nel titolo è un luogo talmente ampio da rappresentare un vero e proprio universo infinito, pieno di libri. Borges diresse la Biblioteca Nazionale di Buenos Aires e aveva una preventivabile fissazione per i volumi, condivisa con tanti altri illustri scrittori. Uno di questi era Elias Canetti che, nel suo romanzo Auto da fé, racconta la storia di Peter Kien, un uomo così ossessionato dai libri della sua sterminata biblioteca da arrivare a eliminare le finestre, solo per avere lo spazio utile a ospitarne di nuovi.

I personaggi fittizi dei romanzi non sono i soli ad accumulare un numero spropositato di volumi. Nel Diciannovesimo secolo, Thomas Phillips si mise in testa un’idea tanto bizzarra quanto visionaria: possedere almeno una copia di ogni libro scritto fino a quel momento. Phillips non riuscì mai a realizzare il suo folle progetto ma comunque accumulò un numero ragguardevole di pagine: la sua collezione arrivò alla fine a contare più di 100mila libri, tra cui almeno 1600 copie dell’Amleto di Shakespeare. È matematicamente impossibile leggere tanto, e senza arrivare agli estremi di Phillips, succede spesso anche a noi di acquistare più libri di quanto ne potremmo davvero leggere.

Nel suo saggio bestseller Il cigno nero, l’autore e statistico Nassim Nicholas Taleb sostiene che “Una biblioteca privata non è un'appendice che stimola l'ego, ma piuttosto uno strumento di ricerca. I libri letti hanno un valore molto inferiore rispetto a quelli non letti. La biblioteca dovrebbe contenere tutto ciò che non si conosce. In effetti, più sai, più grandi sono le file di libri non letti”. Per fare un esempio pratico di quello che scrive, Taleb cita l’enorme collezione di libri di Umberto Eco. Lo scrittore italiano arrivò a possedere 30mila volumi, in gran parte mai letti, ma questa mancanza non rappresentava per lui un effettivo problema, al contrario. Fornendogli un costante promemoria di tutto ciò che non sapeva, la biblioteca di Eco lo stimolava a rimanere perennemente curioso verso il mondo che lo circondava.

Taleb chiama l’insieme dei libri non letti “anti-library”. Un’anti-library sarebbe utile perché ricorderebbe giornalmente i propri limiti: la grande quantità di cose che non si conoscono, che si conoscono solo per metà o che un giorno si potrebbe scoprire di aver sempre sbagliato. Tutto trova posto nella anti libreria di Taleb e può rivelarsi un bene. Ricordando ogni giorno quanto ancora non si sappia, si è stimolati a coltivare una forma di umiltà intellettuale, in grado di migliorare il processo decisionale e guidare l’apprendimento.

La giornalista del New York Times Magazine Karen Olsson ha affrontato l'argomento in Why Don’t I Read All My Books? Nel suo articolo, l’autrice pone l’accento sulle diverse abitudini di lettura tra lei e suo marito: “Quest’uomo legge ogni libro che possiede. Se un amico scrive un libro, lui lo finisce appena possibile; se suo padre gli invia per caso la biografia di un musicista, la leggerà di certo; io stessa sono riluttante a regalargli qualche libro: so che per lui quel volume rappresenterà un obbligo che io non avrei mai sentito al suo posto: quello di leggere tutto dall’inizio alla fine. Per una persona così compulsiva e scrupolosa, gli scaffali finiscono per ripercorrere una storia semplice della propria vita come lettore, una sorta di biografia intellettuale. Nel frattempo, vivendo con lui, sono diventata consapevole della biografia alternativa che i miei libri non letti rappresentano per me: formano una storia di intenzioni vaganti, aspirazioni giovanili, vecchi interessi che hanno seguito il loro corso ma non sono comunque del tutto scaduti, dal momento che c’è sempre la possibilità di tornare a dedicarmici, prima o poi”.

 

Un'opinione simile era già stata formulata dallo scrittore e bibliofilo statunitense A. Edward Newton, vissuto a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento: “Anche quando non si possono leggere, la presenza dei libri posseduti produce una forma di estasi: l’acquisto di più libri di quanti se ne possano leggere è nientemeno che un tentativo dell’anima di avvicinarsi all’infinito. Apprezziamo i libri anche se non li abbiamo letti, il solo fatto di saperli vicini ci fa sentire comodi. Solo saperli disponibili ci trasmette sicurezza”. Questa linea di pensiero non è sempre stata dominante. Sul Guardian, la saggista Lorraine Berry ha ricordato quello che venne scritto in una curiosa recensione di un libro del 1855, che parlava della "dominazione araba" della Spagna prima della Reconquista. All’interno del testo, si trovava  una critica esplicita della “bibliomania” musulmana: chi scriveva riconosceva agli arabi il merito di aver salvato Aristotele e i matematici, ma biasimava la loro scelta di conservare libri contenenti un linguaggio appassionato, che metteva molto a disagio i vittoriani: “Non possiamo simpatizzare con i loro estatici capricci dettati dalla passione, o dargli molto merito per le loro immagini e descrizioni troppo sensuali, e i loro eufemismi prolissi e pungenti”.

Nella storia, la voglia ossessiva di accaparrarsi libri ha portato anche a casi estremi. Si pensi per esempio a Don Vincente, il monaco spagnolo che, durante il Diciannovesimo secolo, si spinse fino a compiere degli omicidi pur di accaparrarsi i libri delle sue vittime. Famoso è anche il caso di Stephen Blumberg che nel 1990 fu arrestato con l’accusa di aver rubato più di 23mila libri rari. Tra gli ossessionati dai libri si nascondono però anche personaggi di grande importanza storica. Winston Churchill era infatti un autentico bibliofilo. Verso la fine della sua vita, si dice che Churchill avesse ammesso a malincuore di avere letto “solo” 5mila dei tantissimi libri presenti nella sua biblioteca. Si tratterebbe comunque di una cifra enorme, anche per un lettore voracissimo, e difficilmente emulabile.

Per la scrittrice britannica Jeanette Winterson “collezionare libri può essere un’ossessione, una professione, una malattia, una dipendenza, una fascinazione, una follia, un destino. Non è un hobby. Chi lo fa è perché deve farlo”. Oggi molti di coloro che parlano dell’abitudine di accumulare libri che non saranno mai letti ne parlano come una “malattia”, anche se non è effettivamente così. Lo scrittore Marco Rossari identifica ironicamente questo presunto disturbo nel suo breve e divertente libricino Piccolo dizionario delle malattie letterarie: “Bibliofilia: forma di perversione erotica che spinge il paziente a trarre piacere dall’accumulo di polvere sopra libri intonsi”.

 

Molti per indicare questa abitudine preferiscono utilizzare una parola giapponese: “tsundoku”, che significa letteralmente “comprare più libri di quelli che si possono leggere. Secondo l’esperto di giapponese e professore alla Cornell University Sahoko Ichikawa, Tsudoku sarebbe in realtà un gioco di parole nato in epoca Meiji, tra il 1868 e il 1912. Alla base del neologismo ci sarebbe il verbo giapponese tsunde oku, che significa “accumulare e lasciare li per un po’”. A questo verrebbe poi aggiunta la parte “doku” , espresso da un carattere  di origine cinese usato nella scrittura giapponese (in gergo un “kanji”) che significa “leggere” .

In un articolo scritto per La Repubblica nel 2007, il già citato Umberto Eco chiariva che il bibliofilo raccoglie libri essenzialmente per avere una biblioteca che, nella sua visione, “non è una somma di libri, è un organismo vivente con una vita autonoma. La biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per conto nostro”. Per questo sarebbe bene conservare uno spazio del genere nelle nostre abitazioni. D’altronde, come ricordava lo scrittore e giornalista Ugo Ojetti in Sessanta, accumulare libri equivale ad accumulare desideri. “E chi accumula desideri rimane sempre molto giovane, anche a ottant’anni”.

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