Negli anni
Quaranta, Borges scrisse un racconto fantastico
intitolato La biblioteca di Babele. Lo spazio cui si fa
riferimento nel titolo è un luogo talmente ampio da rappresentare un vero e
proprio universo infinito, pieno di libri. Borges diresse la Biblioteca
Nazionale di Buenos Aires e aveva una preventivabile fissazione per i volumi,
condivisa con tanti altri illustri scrittori. Uno di questi era Elias Canetti
che, nel suo romanzo Auto da fé, racconta la storia di Peter Kien, un uomo
così ossessionato dai libri della sua sterminata biblioteca da arrivare a
eliminare le finestre, solo per avere lo spazio utile a ospitarne di nuovi.
I personaggi fittizi dei romanzi non sono i soli ad
accumulare un numero spropositato di volumi. Nel Diciannovesimo
secolo, Thomas Phillips si mise in testa un’idea tanto bizzarra
quanto visionaria: possedere almeno
una copia di ogni libro scritto fino a quel momento. Phillips non riuscì mai a
realizzare il suo folle progetto ma comunque accumulò un numero ragguardevole
di pagine: la sua collezione arrivò alla fine a contare più di 100mila libri,
tra cui almeno 1600 copie dell’Amleto di
Shakespeare. È matematicamente impossibile leggere tanto, e senza arrivare agli
estremi di Phillips, succede spesso anche a noi di acquistare più libri di
quanto ne potremmo davvero leggere.
Nel suo saggio bestseller Il cigno nero, l’autore e statistico Nassim Nicholas
Taleb sostiene che “Una biblioteca privata non è un'appendice che stimola
l'ego, ma piuttosto uno strumento di ricerca. I libri letti hanno un valore
molto inferiore rispetto a quelli non letti. La biblioteca dovrebbe contenere
tutto ciò che non si conosce. In effetti, più sai, più grandi sono le file di
libri non letti”. Per fare un esempio pratico di quello che scrive, Taleb cita
l’enorme collezione di libri di Umberto Eco. Lo scrittore italiano arrivò a
possedere 30mila volumi, in gran parte mai letti, ma questa mancanza non
rappresentava per lui un effettivo problema, al contrario. Fornendogli un
costante promemoria di tutto ciò che non sapeva, la biblioteca di Eco lo
stimolava a rimanere perennemente curioso verso il mondo che lo circondava.
Taleb chiama l’insieme dei libri non letti “anti-library”. Un’anti-library sarebbe utile perché ricorderebbe giornalmente i propri limiti: la grande quantità di cose che non si conoscono, che si conoscono solo per metà o che un giorno si potrebbe scoprire di aver sempre sbagliato. Tutto trova posto nella anti libreria di Taleb e può rivelarsi un bene. Ricordando ogni giorno quanto ancora non si sappia, si è stimolati a coltivare una forma di umiltà intellettuale, in grado di migliorare il processo decisionale e guidare l’apprendimento.
La giornalista del New York Times Magazine Karen
Olsson ha affrontato l'argomento in Why Don’t I Read All My Books? Nel
suo articolo,
l’autrice pone l’accento sulle diverse abitudini di lettura tra lei e suo
marito: “Quest’uomo legge ogni libro che possiede. Se un amico scrive un libro,
lui lo finisce appena possibile; se suo padre gli invia per caso la biografia
di un musicista, la leggerà di certo; io stessa sono riluttante a regalargli
qualche libro: so che per lui quel volume rappresenterà un obbligo che io non
avrei mai sentito al suo posto: quello di leggere tutto dall’inizio alla fine.
Per una persona così compulsiva e scrupolosa, gli scaffali finiscono per
ripercorrere una storia semplice della propria vita come lettore, una sorta di
biografia intellettuale. Nel frattempo, vivendo con lui, sono diventata
consapevole della biografia alternativa che i miei libri non letti rappresentano
per me: formano una storia di intenzioni vaganti, aspirazioni giovanili, vecchi
interessi che hanno seguito il loro corso ma non sono comunque del tutto
scaduti, dal momento che c’è sempre la possibilità di tornare a dedicarmici,
prima o poi”.
Un'opinione simile era già stata formulata dallo
scrittore e bibliofilo statunitense A. Edward Newton, vissuto a cavallo tra la
seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento: “Anche quando non si
possono leggere, la presenza dei libri posseduti produce una forma di estasi:
l’acquisto di più libri di quanti se ne possano leggere è nientemeno che un
tentativo dell’anima di avvicinarsi all’infinito. Apprezziamo i libri anche se
non li abbiamo letti, il solo fatto di saperli vicini ci fa sentire comodi.
Solo saperli disponibili ci trasmette sicurezza”. Questa linea di pensiero non
è sempre stata dominante. Sul Guardian, la
saggista Lorraine Berry ha ricordato quello
che venne scritto in una curiosa recensione di un libro del 1855, che parlava
della "dominazione araba" della Spagna prima della Reconquista. All’interno del testo, si trovava
una critica esplicita della “bibliomania” musulmana: chi scriveva riconosceva
agli arabi il merito di aver salvato Aristotele e i matematici, ma biasimava la
loro scelta di conservare libri contenenti un linguaggio appassionato, che
metteva molto a disagio i vittoriani: “Non possiamo simpatizzare con i loro
estatici capricci dettati dalla passione, o dargli molto merito per le loro
immagini e descrizioni troppo sensuali, e i loro eufemismi prolissi e
pungenti”.
Nella storia, la voglia ossessiva di accaparrarsi
libri ha portato anche a casi estremi. Si pensi per esempio a Don Vincente,
il monaco spagnolo
che, durante il Diciannovesimo secolo, si spinse fino a compiere degli omicidi
pur di accaparrarsi i libri delle sue vittime. Famoso è anche il caso di
Stephen Blumberg che nel 1990 fu arrestato con
l’accusa di aver rubato più di 23mila libri rari. Tra gli ossessionati dai
libri si nascondono però anche personaggi di grande importanza storica. Winston
Churchill era infatti un autentico bibliofilo. Verso la fine della sua vita, si
dice che Churchill avesse ammesso a
malincuore di avere letto “solo” 5mila dei tantissimi libri presenti nella sua
biblioteca. Si tratterebbe comunque di una cifra enorme, anche per un lettore
voracissimo, e difficilmente emulabile.
Per la scrittrice britannica Jeanette
Winterson “collezionare libri può essere un’ossessione, una professione,
una malattia, una dipendenza, una fascinazione, una follia, un destino. Non è
un hobby. Chi lo fa è perché deve farlo”. Oggi molti di coloro che
parlano dell’abitudine di accumulare libri che non saranno mai letti ne parlano
come una “malattia”, anche se non è effettivamente così. Lo scrittore Marco Rossari identifica ironicamente
questo presunto disturbo nel suo breve e divertente libricino Piccolo dizionario delle malattie letterarie:
“Bibliofilia: forma di perversione erotica che spinge il paziente a trarre
piacere dall’accumulo di polvere sopra libri intonsi”.
Molti per indicare questa abitudine preferiscono
utilizzare una parola giapponese: “tsundoku”, che
significa letteralmente “comprare più libri di quelli che si possono
leggere. Secondo l’esperto
di giapponese e professore alla Cornell University Sahoko
Ichikawa, Tsudoku sarebbe in realtà un gioco di parole nato in epoca Meiji, tra il 1868 e il 1912. Alla base del neologismo
ci sarebbe il verbo giapponese tsunde oku, che significa “accumulare e lasciare li per un
po’”. A questo verrebbe poi aggiunta la parte “doku” , espresso da
un carattere di origine cinese usato nella scrittura giapponese (in gergo
un “kanji”) che significa “leggere” .
In un articolo scritto per La Repubblica nel 2007, il già citato Umberto
Eco chiariva che
il bibliofilo raccoglie libri essenzialmente per avere una biblioteca che,
nella sua visione, “non è una somma di libri, è un organismo vivente con una
vita autonoma. La biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono
libri: è anche un luogo che li legge per conto nostro”. Per questo sarebbe
bene conservare uno spazio del genere nelle nostre abitazioni. D’altronde,
come ricordava lo
scrittore e giornalista Ugo Ojetti in Sessanta, accumulare
libri equivale ad accumulare desideri. “E chi accumula desideri rimane sempre
molto giovane, anche a ottant’anni”.
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