I libri che val la pena di leggere hanno la
caratteristica di essere dotati di un forte potere di suggestione – e intendiamo
“suggestione” nei due sensi correnti e cioè come capacità di influenzare
emozionando e come potenzialità di suggerire itinerari da percorrere, vie di
pensiero da praticare. Nella confusione, nella babele di pensieri monchi e di
parole imprecise (prime tra tutte quelle della cosiddetta “comunità
scientifica”) generate dalla crisi pandemica il bisogno di ragionamenti
essenziali e nitidi si è fatto sentire fortissimo.
Il primo libro, famosissimo, che mi è venuto in mente
(naturalmente la scelta è mia, personale ma non immotivata) è stato scritto nel
1974 da Detienne e Vernante e si intitola Le astuzie della ragione
nell’antica Grecia. Al centro del libro è il concetto di mètis,
dell’astuzia intelligente, che consente di avvicinarsi al reale con strumenti
diversi da quelli astratti del lògos. La mètis comporta
flessibilità, soluzioni folgoranti, adattabilità al continuo mutare del reale;
ma implica anche esperienza e progettualità, per cui l’agire guidati
dalla mètis non è un agire impulsivo e privo di riflessione.
Tutt’altro; in qualche modo lo si potrebbe accostare alla guicciardiniana
“discrezione”, che presume la capacità di cogliere in ciò che avviene sia la
somiglianza con eventi passati sia la specificità del nuovo. La mètis,
per altri versi, va accostata alla ragionevolezza, un concetto che, sulla scia
dei suoi maestri, Serge Latouche (secondo libro) contrappone all’idea di
“ragione”. La mètis permea di sé la ragionevolezza, la quale,
a sua volta, viene superata e spesso messa definitivamente da parte dalla
razionalità, dal lògos; negli ultimi secoli la razionalità si è
manifestata spesso nella forma della ragione economica, che ha saputo
sviluppare effetti portentosi e, allo stesso tempo, si è allontanata sempre più
dalla ragionevolezza, generando quella «megamacchina tecno-economica» che
«rischia di fracassarsi contro il muro della dismisura (la hybris greca)»
(S. Latouche, Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana,
Dedalo, 2009, p. 82).
I segnali che il selvaggio sfruttamento della Natura
stia minacciando in modo serio il vivente sono evidenti per chiunque li voglia
vedere; per non percepirli bisogna essere abbagliati dal luccichio da Paese dei
Balocchi che promana dal caotico insieme di merci in cui siamo immersi, atte a
far dimenticare a che prezzo ne possiamo godere. E bisogna anche limitarsi a
guardare ciò che avviene nella fase fatiscente del capitalismo occidentale,
distogliendo lo sguardo dai miliardi di esseri umani che rischiano ancora ai
giorni nostri di morire di fame. La ragionevolezza, la phrónesis,
la prudenza, che, per Aristotele, è la caratteristica di chi è in grado di
deliberare correttamente ciò che è buono e vantaggioso per lui, ha celebrato il
suo divorzio dal discorso pubblico, troppo spesso pronunciato all’insegna della
chiamata emotiva, in spregio, appunto, di ogni ragionevolezza. L’abbiamo appena
verificato: la pandemia, che sembrava aver creato una frattura planetaria, è
già stata metabolizzata e ridotta a evento gestibile, per un verso, con la
razionalità tecnocratica di misure preventive, di cure efficaci, del vaccino.
Per altro verso i negazionisti di ogni colore dimenticano anch’essi la
ragionevolezza per dar voce a una emotività irriflessa.
«Andrà tutto bene» e «Niente sarà più come prima» sono
stati i due slogan che ci hanno accompagnato nella primavera scorsa, mentre il
contagio mieteva vittime e assistevamo, sgomenti, al tracollo del nostro
sistema sanitario. È bastata l’estate, un’estate in cui la crisi economica ha
sostituito nel discorso pubblico la crisi pandemica, per cancellarli.
L’«andrà tutto bene» ha ceduto il posto
all’esortazione speranzosa a «convivere con il virus». Ma a quali condizioni
tutto dovrebbe andare bene non è mai stato chiarito. Andrà tutto bene se
ritorneremo a febbraio 2020, quando il “caso Codogno” non era ancora scoppiato?
Andrà tutto bene se il virus si stancherà di propagarsi? Basteranno queste due
condizioni perché tutto vada bene? La ragionevolezza ci porta a dire che, se
non si affronteranno tutti i problemi che la crisi sanitaria ha portato a
galla, prima tra tutte l’inaccettabile sfruttamento delle risorse naturali, non
andrà affatto bene. Quanto al «Niente sarà più come prima», refrain che
più dell’altro esprime la consapevolezza della gravità del momento, è
affermazione che ci fa pensare che tutto potrebbe essere peggio. In questi mesi
i segnali negativi sono stati numerosi: a parte la decisione della Commissione
europea di sospendere (non annullare, sospendere) l’artificioso “patto di
stabilità”, quel vincolo che impone di ridurre il deficit strutturale nei Paesi
dell’Unione e che ha come obiettivo di medio termine quell’altro mito incarnato
del “pareggio di bilancio”, tutto è stato come sempre. I fondi disponibili non
sembrano, almeno per ora, essere stati impiegati con una logica di equità –
anzi, molti provvedimenti hanno contribuito a far affluire risorse economiche
nelle tasche di cittadini che non avevano alcun bisogno di incrementare il
proprio reddito. La vita quotidiana intanto ci mette di fronte a un sostanziale
peggioramento della situazione: le nostre città, che hanno goduto di un’aria
meno tossica nei due mesi di “confinamento” sono inquinate come prima e
attraversate – in nome della “mobilità sostenibile” – da orde di ragazzotti su
monopattini che sfrecciano quasi sempre a velocità non regolamentare e rendono
impossibile camminare sicuri sui marciapiedi; le grandi catene della
distribuzione alimentare, che senz’altro non hanno visto decrescere il
fatturato nei mesi scorsi, hanno ritoccato verso l’alto (e non di poco) i
prezzi, e la stessa cosa hanno fatto immediatamente quasi tutti i
professionisti e lavoratori autonomi, aumentando mediamente le loro tariffe tra
il 10 e 20 per cento. In compenso, lo Stato continua a non onorare i propri
debiti: non si sente parlare di rinnovo di contratti scaduti da tempo, né di
perequazione degli assegni pensionistici. E noi cittadini ci aspettiamo di
dover ripagare, con gli interessi, quei rivoli di denaro che stanno
disordinatamente scorrendo nel nostro Paese.
L’Italia è un paese povero. Se vogliamo rendercene
conto usando strumenti ufficiali, basta consultare il sito ISTAT, alla pagina
in cui viene presentato un calcolatore (https://www.istat.it/it/dati-analisi-e-prodotti/contenuti-interattivi/soglia-di-poverta), preceduto da questa precisazione:
«La soglia di povertà assoluta rappresenta il valore monetario, a prezzi
correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna
famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica
e alla tipologia del comune di residenza. Una famiglia è assolutamente povera
se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario».
Ora, data una famiglia di tre persone (due genitori e un figlio tra i 4 e i 10
anni), risulta che essa sia assolutamente povera nel momento in cui spende una
cifra pari o inferiore a 1.862,832 euro. Visto che lo stipendio medio di un
impiegato è valutato in 1.681 euro e quello di un operaio in 1.469 e che la più
che decennale crisi economica ha reso rari i lavori stabili e ha inciso
sull’occupazione in modo assai negativo, facendo crescere il numero delle
famiglie monoreddito, non serve un economista per trarre le conclusioni. I dati
reddituali che abbiamo riportato sono dati medi. Facciamo un esempio preciso:
un insegnante di scuola superiore, sino a 14 anni di anzianità, guadagna poco
più di 1.550 euro netti al mese. Se ha un figlio e il coniuge non lavora, si
trova di 300 euro sotto la soglia minima calcolata per stabilire lo stato di
povertà assoluta. L’aveva capito persino il “ministro della malavita”, Giovanni
Giolitti: un paese di poveri è un paese povero. E se alla miseria materiale
aggiungiamo la preoccupante “miseria di posizione” quella che Pierre Bourdieu
ha indagato nel corposo studio La miseria del mondo (terzo
libro) dovremmo davvero preoccuparci: la miseria è ben peggio della povertà. È
qualcosa che ha a che fare con una carenza complessiva che tocca tutti i piani
dell’esistenza, che rende difficili e conflittuali le relazioni sociali, che
non riesce a individuare gli obiettivi per cui battersi, che fa sì che non si
riesca ad immaginare un futuro migliore del meschino presente in cui si naviga,
eterodiretti e consapevoli, in parte, soltanto del proprio disagio. Questo è
oggi, troppo spesso, lo stato dei ceti popolari, che divengono gli
interlocutori privilegiati, in mancanza di altri messaggi comprensibili e
rispondenti ai loro bisogni, della peggiore demagogia e di discorsi politici in
cui livore, qualunquismo, menzogna strumentale vengono astutamente mescolati da
leader senza scrupoli e senza morale, nonostante esibiscano rosari e simboli
religiosi, emuli di quei mafiosi che, sul loro comodino, tengono una vecchia
Bibbia, ampiamente sottolineata.
Affinché nulla sia più come prima, affinché le cose
migliorino le vie da intraprendere sono chiare: innanzitutto si deve operare
affinché ci sia maggiore giustizia sociale. Il primo passo ha a che fare con
una redistribuzione della ricchezza sociale, congiunta a un modello economico
meno rapace e aggressivo nei confronti dell’ambiente. Non sono scelte semplici
e immediate, ma la direzione da imboccare è quella. Perciò ci ha molto
allarmato la ricomparsa di un fantasma sinistro, quello del Ponte sullo
Stretto: siamo dunque fermi alle “grandi opere” come unica via d’uscite dal
difficile momento economico? Ancora una volta si vogliono mettere da parte
quegli interventi ad “alta intensità di lavoro” (quarto e quinto libro: Il
lavoro non è una merce e Finanzcapitalismo) di cui parlava
con intelligenza il sociologo Luciano Gallino, auspicando «una grande politica
di transizione ordinata da un settore industriale energivoro e basato su
produzioni tutto sommato tradizionali (dalle auto agli stessi computer, che
sono ormai dei piccoli elettrodomestici prodotti a milioni e con grande
automazione) verso settori produttivi ad alta intensità di lavoro. I settori di
riferimento sono moltissimi: i beni culturali, l’incremento dell’efficienza
energetica e nell’utilizzo di materia, la ristrutturazione degli edifici (si
pensi che metà delle scuole non è ancora a norma dal punto di vista della
sicurezza) o il dissesto idrogeologico, che costa all’Italia circa 12-15 miliardi
di euro l’anno: una somma che potrebbe essere investita per creare centinaia di
migliaia di posti di lavoro su un’ampia fascia di competenze professionale, che
vanno dal badilante al geometra e all’architetto. Si tratta di un processo di
transizione che richiederebbe però una robusta politica industriale da parte
del Governo, invece questi blaterano di crescita e spesso non sanno nemmeno
bene di cosa stiano parlando».
Seguendo queste indicazioni, niente sarà più come
prima e, in tempi brevi, tutti staremo meglio, perché la costruzione di una
società in cui tutti abbiano una parte e in cui non esistano più le “vite da
scarto” non può che aumentare il benessere complessivo. Altrimenti, procedendo
inerzialmente, guidati dai miti del PIL, dello “sviluppo”, della tecnologia ci
ritroveremo presto in una situazione in cui, per dirla con Walter Benjamin,
«neppure i morti saranno al sicuro».
Nessun commento:
Posta un commento