Robert Fisk è un collega britannico scomparso una settima fa in Libano,
dove viveva, a cui qualsiasi giornalista vorrebbe poter somigliare. Inviato
speciale del quotidiano londinese The Independent, le guerre degli ultimo 30
anni se l’è fatte praticamente tutte. Quelle nella ex Jugoslavia e l’epilogo di
quella del Kosovo, al seguito delle truppe Nato. Pesco a piene mani da una sua
cronaca per raccontare del “Kosovo liberato” che per me, la voce ed il volto
Rai dei bombardamenti da Belgrado, era stato vietato per decreto Uck:
“territorio Comance” e non era una minaccia da prendere sottogamba. Nel
frattempo, attualità stretta, il presidente del Kosovo Hashim Thachi si è
dimesso ed è di fronte al tribunale internazionale dell’Aja per rispondere di
crimini di guerra.
Robert Fisk
Si allunga
la lista dei villaggi in cui si scoprono i cadaveri di contadini serbi
assassinati. Di certo, una contro-pulizia etnica si sta svolgendo in Kosovo.
Fino a pochi mesi fa, vittime delle atrocità delle truppe e delle milizie di
Belgrado, alcuni albanesi del Kosovo si vendicano sulle minoranze serba e rom.
Case incendiate, attentati contro chiese ortodosse, omicidi…: mentre quasi
tutti i profughi kosovari sono tornati nella provincia, 160.000 serbi (su
200.000) sono stati costretti ad abbandonarla. Per i 35.000 uomini della forza
internazionale (Kfor) è un patente fallimento, tanto più che l’esercito di
liberazione del Kosovo (Uck), rifiuta di restituire le armi alle scadenze
previste. Tutto ciò non può che alimentare i dubbi sui reali obiettivi della
guerra della Nato e le critiche contro le manipolazioni mediatiche cui si è
accompagnata.
Sempre i
fatti prima di ogni considerazione
La cronaca
di Robert Fisk, come sempre, vincola le sue considerazioni al dettaglio dei
fatti.
Poco dopo l’arrivo in giugno delle truppe dell’Organizzazione del trattato
dell’Atlantico del Nord (Nato) a Pristina, Kathy Sheridan dell’Irish Times si
recò in automobile a Vucitrn, una piccola città nelle mani delle forze di
sicurezza serbe. Appena arrivata, vide un cadavere riverso per strada e molti
poliziotti del ministero degli Interni serbo, meglio conosciuto con l’acronimo
Mup. Tornata in tutta fretta a Pristina, riferì a un reporter del servizio
radiofonico della Bbc di aver visto un morto a Vucitrn, ma che la zona
era”piena di poliziotti serbi”. Qualche minuto più tardi quest’ultimo mandò in
onda un servizio secondo il quale un inviato speciale irlandese aveva visto
Vucitrn “ricoperta di cadaveri”.
Un’ora dopo, davanti al Grand Hotel di Pristina, incrociavo Keith Graves della
catena SkyTv mentre chiedeva a un ufficiale inglese come fare per inviare
un’équipe della televisione a Vucitrn per filmare i morti. Si stava facendo
buio e Graves, un esperto reporter pieno di risorse, preferì rimandare il
viaggio al giorno dopo. E’ solo allora che scoprì la verità: la Bbc aveva
semplicemente gonfiato le dichiarazioni della Sheridan. La giornalista
irlandese ottenne dalla radio inglese la promessa di poter spiegare in diretta
che cosa aveva realmente visto. Ma grande fu il suo stupore e la sua rabbia
quando constatò che la trasmissione era stata annullata. Commento di Keith
Graves: “Il vero problema ormai è che il pubblico vuole solo atrocità”.
Atrocità
utili all’audience
E di
atrocità ne furono servite in abbondanza: quelle vere condite con quelle false.
Il giornalista inglese non fa sconti alle responsabilità della Serbia di
Milosevic. Racconta di eccidi di cui lui stesso ha avuto diretta testimonianza,
ma il suo interesse è al momento quello di capire il ruolo dell’informazione
nel teatro di quella tragedia. Il sensazionalismo del mestiere senza scrupoli
che andava a braccetto con l’interesse Nato a trovare, post, la giustificazione
ad una guerra sempre più diffusamente criticata.
L’Alleanza aveva finalmente “liberato” il Kosovo al termine di una guerra
condotta in nome di “valori”, per usare le parole di Tony Blair. E che sia
maledetto chiunque affermi che questa guerra assurda non avrebbe mai dovuto
aver luogo.
Fin dall’inizio la maggior parte dei nostri colleghi giornalisti ha assunto un
ruolo completamente passivo negli incontri quotidiani della Nato con la stampa.
Nessuno ha osato interpellare il portavoce, James Shea, sulla supposta
distruzione della Terza armata jugoslava, sulla nomina a comandante in capo
dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) di Agim Ceku , uno dei
responsabili della “pulizia etnica” compiuta dall’esercito croato in Krajina o,
ancora, sul fatto che le soluzioni alla fine accettate dalla Nato per
“chiudere” la guerra erano nettamente meno dure delle condizioni di pace che
l’Alleanza aveva voluto imporre alla Serbia a Rambouillet.
I giornalisti accreditati alla Nato sono rimasti silenziosi anche quando ci si
è resi conto che nonostante la “vittoria straordinaria” sull’esercito
jugoslavo, questo aveva perso solo tredici carri armati e che si era ritirato
dal Kosovo con i suoi effettivi quasi intatti.
I 13 carri
armati di Milosevic distrutti
Robert Fisk,
su quegli spunti, quei fatti, inizia a porsi interrogativi inquietanti.
Era necessario che tutto si svolgesse in questo modo? Gli inviati speciali
della carta stampata, della radio e della televisione erano obbligati a
comportarsi da portavoce dei generali dell’Alleanza e dei vari ministri degli
Esteri? Verso la fine dei bombardamenti si noti peraltro che la maggior parte
degli inviati ha utilizzato l’espressione “campagna aerea”, quasi che i mig
serbi si alzassero in volo ogni giorno per combattere gli aerei della Nato Shea
affermò che l’ospedale di Sudurlica era servito da bersaglio perché in realtà si
trattava di una caserma. Questa dichiarazione era assolutamente falsa.
Abbiamo visitato il sanatorio, visto i pietosi resti dei morti, tra cui una
giovane poetessa di diciannove anni; ma non uno dei miei colleghi ha chiesto
spiegazioni alla Nato su questa menzogna.
Strane coincidenze Allo stesso modo sono stati pochi i giornalisti che hanno
contestato da un punto di vista etico il bombardamento della sede della
televisione serba a Belgrado . Circa due giorni prima del bombardamento, il
quartier generale della Cnn ad Atlanta aveva avvertito i suoi inviati speciali
che l’edificio sarebbe stato preso di mira e aveva ordinato loro di riprendere
tutto il materiale, come effettivamente fecero. E’ allora che il ministro serbo
dell’Informazione Aleksandar Vucic uomo vicino a Milosevic e quindi un
obiettivo della Nato fu invitato negli studi della televisione serba, la
mattina presto, per partecipare alla trasmissione del famoso presentatore della
Cnn, Larry King. Gli si chiese di arrivare mezz’ora prima per il trucco! Vucic
ha affermato di essere arrivato in ritardo. La Cnn assicura di aver disdetto
l’appuntamento dodici ore prima. Se il ministro serbo fosse stato puntuale, si
sarebbe trovato lì nel momento in cui arrivavano i missili, che uccidevano tra
l’altro la truccatrice. Per la Cnn si trattò solo di una coincidenza.
Lo vogliamo sperare.
Un brutto personaggio Rai ha recentemente applaudito e quei bombardamenti
contro i ’trombettieri di Milosevic’. Peccato che non c’era neppure un
giornalista pifferaio come lui, tra quei morti
Fisk a
Rambouillet
L’inviato di
“Tre Indipendent” si occupa subito dopo dei cosiddetti accordi di Rambouillet,
già ampiamente esaminati, che sono all’origine, o la giustificazione alla
decisione Nato di bombardare. Quesito chiave: il dramma dei profughi kosovari
albanesi nasce prima ed è la giustificazione (l’ideal politik) della guerra, o
ne è soltanto la prevista conseguenza (real politik)?
(…) il generale Wesley Clark, comandante in capo della Nato, ha riconosciuto
che la tragedia epica dei profughi era “interamente prevedibile” ma all’epoca
nessun giornalista gli chiese perché non avesse condiviso quell’informazione
con noi.
Il
giornalista trombettiere
Ma torniamo
alle questioni legate al modo di raccontarla quella guerra. Secondo Fisk, era
stata soprattutto la stampa americana ed inglese, allora, a ritenere che il
sostegno alle ragioni nazionali della guerra fosse “un vero e proprio dovere
per un giornalista di un paese democratico in tempo di guerra”. In Italia
accade anche di peggio, ma questa è altra cronaca e altro capitolo. Ancora i
fatti.
Quando mi sono recato a Bruxelles, durante una delle quotidiane conferenze
stampa, per fare una domanda sull’impiego di munizioni all’uranio impoverito,
apparentemente responsabili di numerosi casi di tumore in Iraq, un generale
ammise che la Nato ne aveva fatto uso ammissione tra l’altro ripresa in
diretta.
Ma quando la Cnn preparò il nastro per mandarlo in onda, la mia domanda e la
risposta del generale erano state misteriosamente tagliate.
Di recente l’addetto stampa di Blair, Alastair Campbell, pontificava davanti al
Royal United Services Institute di Londra sul modo in cui i giornalisti erano
stati ingannati dalla “macchina delle menzogne serba”, ma ovviamente non faceva
menzione dei docili colleghi riuniti alle “messe” della Nato. E ritornava sul
vecchio e logoro argomento, utilizzato nel corso di tutta la guerra: la Nato
uccideva degli innocenti per sbaglio, i serbi li uccidevano volontariamente.
I morti per
caso e l’ironia
In questo
caso, Robert Firsk ricorre all’ironia. Ma anche se le vittime serbe
fossero state uccise per sbaglio, questo renderebbe forse la loro morte meno
dolorosa o più accettabile? Fa molta differenza essere decapitato da una bomba
a frammentazione della Nato o da una granata serba? I serbi, non possiamo
negarlo, sono stati responsabili di crimini orrendi veramente orrendi, a
giudicare da quello che ho visto a Coska mentre la Nato non aveva intenzione
(almeno lo vogliamo sperare) di uccidere civili. Ma se questa guerra non era indispensabile,
allora le morti di cui l’Alleanza è responsabile pesano di più sulle nostre
coscienze. E i giornalisti che lavoravano in Jugoslavia, lungi dall’essere gli
strumenti di una qualche “macchina delle menzogne”, hanno fornito un doloroso
ma necessario resoconto di quello che noi, la Nato, la nostra società
occidentale facevamo subire ai serbi.
Robert Fisk, sull’argomento polemizza duramente. Primo: è quasi impossibile
credere che un’aviazione che aveva bombardato con costanza ospedali, ponti, un treno,
due autobus, un ponte di un villaggio in un giorno di mercato e molte case,
oltre a caserme e raffinerie, non mirasse deliberatamente a obiettivi civili
per piegare la Serbia. Secondo, nessuno è in grado di dimostrare o soltanto
sostenere che i serbi avrebbero commesso atrocità volontarie anche se la Nato
non fosse entrata in guerra.
E’ vero che i serbi si sono resi colpevoli di stupri, di esecuzioni di massa e
di crudeltà contro kosovari innocenti, conclude Firsk, ma la natura della pace
che ha concluso questa guerra suggerisce che quest’ultima avrebbe potuto non
aver luogo. Questo conflitto avrebbe dovuto essere evitato.
Il
carognismo in casa
L’ultimo
attacco contro i giornalisti è arrivato dagli stessi inviati speciali. Una
collaboratrice del The Irish Times mi ha accusato di voler mettere “sullo
stesso piano le vittime” espressione puerile, ma pericolosa perché avevo
previsto dall’inizio di giugno, e a ragione, che “il Kosovo sarebbe stato prima
pulito etnicamente dai serbi. Poi in pochi giorni due settimane al massimo la
regione sarebbe stata a sua volta pulita etnicamente dagli alleati albanesi
della Nato”. Non solo questa citazione era stata estrapolata dal suo contesto,
ma soprattutto il mio vero peccato era stato quello di avere ragione.
Da allora la maggioranza della popolazione serba del Kosovo è fuggita dalla
regione, così come quasi metà degli zingari. I civili serbi che avevo visto
ammassati nelle loro automobili o stretti in lacrime sui carri delle loro
fattorie erano altrettanto innocenti degli albanesi odiosamente cacciati dalla
loro patria due mesi prima. Ma il semplice fatto che questi nuovi profughi
fossero serbi era sufficiente a far dimenticare la loro condizione di vittime.
Mi venivano in mente i tedeschi dei Sudeti e dei territori orientali della
Germania alla fine della seconda guerra mondiale. All’epoca non ci
preoccupavamo di loro.”Hanno avuto quello che si meritano”, pensavamo. E ora
riduciamo a bestie un intero popolo i serbi a causa dei crimini del loro
governo e delle loro odiose forze paramilitari.
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