Nel 2009 la sociologa britannica Rosalind Gill firmava un saggio inusuale, i cui dati – ammetteva in uno dei primissimi paragrafi – mancavano del tutto di scientificità. L’autrice affermava anche, in una postilla finale, che il testo era andato vicino al non essere scritto affatto, dal momento che aveva temuto a lungo che il suo contenuto potesse venire giudicato non solo irrilevante, ma addirittura “osceno” e “narcisistico”. C’erano insomma elementi più che sufficienti per considerarlo un contributo alquanto inusuale al volume accademico nel quale si inseriva, pubblicato da un prestigioso editore. Perché mai un’affermata studiosa avrebbe dovuto mettere a rischio la propria reputazione per dare alle stampe un saggio del genere? Il titolo ricordava più l’incipit di una confessione che quello di una ricerca per addetti ai lavori – recitava, testualmente: “Rompere il silenzio. Le ferite nascoste dell’università neoliberale”.
L’aggettivo neoliberale, come tutte le parole di fronte alle
quali si inizia ad annuire nervosamente perché chiunque sembra usarle ma
nessuno pare conoscerne l’esatto significato, potrebbe facilmente suscitare
delle perplessità. Negli ultimi decenni il neoliberalismo è stato definito, tra
l’altro, come un progetto
politico per accrescere il potere delle élite economiche, una corrente
intellettuale, un regime di
governo, un tipo di
discorso, una tecnica di
potere o un assetto istituzionale. Sarebbe
tuttavia errato subordinare la riflessione sul testo di Gill all’intricato
dibattito specialistico sul neoliberalismo – il suo contributo si concentra
infatti su un ambito ben più circoscritto: l’accademia neoliberale.
Paradossalmente, nonostante il disaccordo anche aspro sul termine più
generico, sembra esserci un sostanziale consenso sulla realtà da
far corrispondere all’università
neoliberale. Con tale espressione possiamo infatti intendere, piuttosto
genericamente, una situazione in cui il mercato è ritenuto il principio
organizzativo ideale della formazione e della ricerca universitarie, con tutte
le ripercussioni che ne
derivano – l’importanza crescente attribuita dagli atenei ai finanziamenti
privati; la precarizzazione
sistematica dei lavoratori e delle lavoratrici del settore; la rappresentazione
di studentesse e studenti come consumatori potenzialmente
disposti all’indebitamento per finanziare i propri studi e delle università
stesse come imprese in competizione le une con le altre, le cui performance
vengono valutate tramite
indicatori quantitativi standardizzati.
Ad un tale livello di generalità, la nozione di università neoliberale può
applicarsi facilmente (quantomeno) a buona parte dei sistemi educativi dei
paesi cosiddetti occidentali. Tenendo a mente questa definizione, possiamo
iniziare a comprendere quanto Gill affermava all’inizio della propria analisi –
che nelle sue parole toccava
molte cose: sfinimento, stress, sovraccarico di lavoro, ansia, vergogna,
violenza, dolore, senso di colpa – e i sentimenti di alienazione, disonestà e
paura di venire smascherati nell’accademia contemporanea. Tali stati d’animo
(…) sono da un lato ordinari e quotidiani, ma al tempo stesso rimangono
ampiamente segreti o messi a tacere negli spazi pubblici delle università.
Vengono articolati in un registro linguistico differente, meno privilegiato;
sono materiale per le chiacchierate in corridoio, le pause caffè e le
conversazioni personali tra amici, ma non per le prolusioni alle
conferenze o le pubblicazioni accademiche o financo le riunioni di
dipartimento.
Se gli accademici sono diventati essi stessi soggetti
neoliberali – lavorando potenzialmente 24/7 tramite
contratti spesso precari e con l’imperativo costante di dover essere più
produttivi ed efficienti (non senza la paradossale richiesta aggiuntiva
di apparire al
contempo felici della propria condizione) – le conseguenze negative che scaturiscono
dal loro ambiente di lavoro, le “ferite” che esso comporta, tendono a rimanere
nascoste, per una serie di ragioni. Anzitutto, le caratteristiche delle
attività svolte in università e centri di ricerca sono particolarmente esposte
a rappresentazioni distorcenti, che trasfigurano quello che è a tutti gli
effetti un lavoro in una missione (gratuita o
sotto-retribuita). In tal modo l’insegnamento e la ricerca vengono descritti
come attività svolte per passione, soddisfacenti
in se stesse e perciò – secondo una logica perversa che concepisce il lavoro
salariato come mera sofferenza – non degne di essere regolarmente pagate. Si
avverte qui una chiara eco di ciò che negli anni ’70 le
femministe chiamavano labour of love nella loro critica
serrata del lavoro domestico gratuito – e tale riferimento ci rimanda alla
vulnerabilità intersezionale di alcuni
segmenti del personale accademico, con le donne e
le persone
razzializzate esposte ad una mole anche maggiore di “ferite nascoste”.
In secondo luogo, come notava la stessa Gill, l’attitudine a tenere
costantemente sotto controllo i propri ‘privilegi’ (check-your-privilege)
tanto comune in alcuni ambienti universitari finisce a volte con il generare
inavvertitamente una forma di silenziamento, consentendo alle persone che li
popolano di mettere a fuoco unicamente casi estremi di ingiustizia e sofferenza
– come se il semplice fatto che altre persone se la passino peggio privasse di
ogni margine per criticare la propria situazione. Così facendo, la vita
all’interno dell’accademia neoliberale non viene solitamente ritenuta un
argomento degno di
indagine scientifica – lasciando i pochi che hanno sia la possibilità che la volontà di
parlarne nella posizione di condurre unicamente ricerche che saranno bollate,
nei termini di Gill, come completamente carenti di scientificità.
Per quanto tali esperienze siano senz’altro più frequenti in alcuni
comparti della forza-lavoro universitaria (ricercatori e ricercatrici con
incarichi precari, docenti a contratto, dottorande e dottorandi), la loro
rilevanza complessiva non può in alcun modo essere ignorata. Nel 2017, Gill
cominciava un follow-up del saggio precedente con le seguenti osservazioni:
Negli anni trascorsi [dalla pubblicazione del primo testo] ho passato
difficilmente una sola settimana senza ricevere almeno due o tre email da
persone che mi scrivevano come e perché erano state toccate dal mio scritto.
Molte volte si trattava di espressioni di gratitudine e sollievo per il non
sentirsi più così sole. (…) Il mio archivio di lettere e messaggi ammonta ormai
a circa duemila documenti – un autentico catalogo di racconti di esperienze
tossiche all’interno dell’accademia neoliberale che accresce la mia sensazione
che una crisi profonda, al livello tanto affettivo quanto somatico, stia avendo
luogo.
Il bilancio formulato in questo secondo contributo è complesso e ambivalente.
Gill notava che “il silenzio è stato rotto” e che si è registrato negli ultimi
anni uno spostamento del dibattito sulla trasformazione degli atenei e le
condizioni di vita al loro interno – un processo che sta lentamente
avviandosi anche in
Italia. D’altro canto, in anni recenti la neoliberalizzazione delle università si
è ulteriormente velocizzata – al punto che negli Stati Uniti tre
quarti dei docenti di college lavorano senza nessuna possibilità di assunzione
a tempo indeterminato, mentre nel Regno Unito un
accademico deve affrontare in media tredici ore di lavoro straordinario a
settimana.
In questo scenario, molte delle risposte istituzionali alla
neoliberalizzazione hanno riprodotto le medesime tendenze individualizzanti che
autrici come Gill tentano di contrastare. Così i servizi di counselling e
assistenza sanitaria interni alle università tentano di rispondere con corsi,
sessioni di training, yoga, meditazione, eventi su come ottimizzare il tempo o
“avere a che fare con persone difficili” – vale a dire attività incentrate più
sul diventare resilienti di fronte ad un contesto lavorativo percepito come
immodificabile che a produrre un qualche cambiamento profondo.
Nell’abbozzare una serie di proposte per far progredire il dibattito, Gills
rivendicava l’urgenza di un’analisi più approfondita del “devastante aumento di
cattive condizioni di salute come effetto somatico dell’accademia neoliberale”
– è in tal senso che è specialmente significativo considerare il caso della
depressione. Nel medesimo anno in cui il saggio di Gill veniva pubblicato
un altro accademico britannico, Mark Fisher, dava alle stampe un popolare
pamphlet in cui tracciava una prima connessione tra la crescente diffusione
della depressione e quanto chiamava realismo
capitalista – “la sensazione diffusa che il capitalismo non costituisca soltanto
l’unico sistema politico ed economico sostenibile, ma che sia al momento
impossibile persino immaginare un’alternativa coerente ad
esso”. La narrazione parzialmente autobiografica di Fisher contiene molti
riferimenti all’università neoliberale, al suo contributo nel contrastare
qualunque forma di uguaglianza sociale ed alla sua ossessione per procedure di
valutazione altamente burocratizzate – e ha nel racconto della propria
depressione di uomo e accademico uno snodo centrale.
La depressione
maggiore occupa un posto singolare fra le ferite dell’università neoliberale.
Codificata come una patologia mentale, favorisce in chi ne è affetto una
tendenza individualizzante persino più di altre condizioni ‘tradizionali’ –
quali lo stress da lavoro o la cronica mancanza di sonno. Dar voce alla
propria depressione, notava Fisher, è
poi particolarmente difficile, perché essa “è in parte costituita da una
beffarda voce ‘interiore’ che ti accusa di autoindulgenza – non sei depresso,
sei solo dispiaciuto per te stesso, rimettiti in sesto – e questa voce è
suscettibile di essere innescata dal rendere pubblica la propria condizione”.
Negli ultimi anni, una crescita esponenziale dell’evidenza aneddotica sulla
diffusione di sintomi depressivi nelle università è stata affiancata da un
numero incredibilmente basso di studi accademici sul fenomeno.
Come se non bastasse, la depressione può diventare ancora più insidiosa in
ambito universitario: essa sembra scardinare la stessa immagine dell’accademico
come persona credibile ed affidabile alla luce della sua (presunta) superiore
conoscenza di una determinata materia. Non a caso, nel senso comune la persona
depressa è ritenuta affetta da una sorta di disturbo di percezione, una
tendenza ad accentuare gli aspetti negativi di qualunque circostanza a scapito
di una sua più equilibrata interpretazione – rappresentazione tanto più
invalidante se riferita a ricercatrici e ricercatori di cui si presume
l’avalutatività. L’accademico depresso troverà pertanto difficile parlare della
sua condizione, che resta ammantata da un tabù tanto
maggiore in contesti dove la produttività viene incoraggiata (o estorta)
incessantemente e l’“eccellenza” misurata senza tregua.
Negli ultimi anni, una crescita esponenziale dell’evidenza aneddotica circa
la diffusione di sintomi depressivi nelle università è stata affiancata da un
numero incredibilmente basso di studi accademici sul fenomeno. Per fare un
esempio, nel marzo 2014 un articolo scritto
da una ricercatrice anonima apparso sul sito del Guardian denunciava
sia il diffondersi di numerose forme di malessere psichico nel personale
accademico sia il clima di tacita accettazione e silenzio istituzionale che
previene l’emersione del problema. Il testo è stato condiviso più di centomila
volte, dimostrando il bisogno di canali di espressione per quello che è spesso
ritenuto il prezzo da pagare per avere successo nell’università. Da
allora, un numero pressoché incalcolabile di racconti più o meno personali è
stato affidato a blog e riviste. Nondimeno, mentre centinaia di studi hanno
documentato, in un ampio ventaglio di paesi diversi, livelli
elevati di sintomi depressivi tra gli studenti universitari, al momento si
registrano pochissime analisi analoghe che prendano in esame dottorandi,
ricercatori e docenti – per quanto i loro risultati siano nel
complesso preoccupanti.
La discrepanza tra il verosimile aumento dei casi di depressione
nell’accademia neoliberale e la mancanza di indagine scientifica dell’argomento
solleva questioni che sono, inestricabilmente e allo stesso tempo, epistemiche
e politiche. Parlare di “ferite neoliberali” espone infatti a una facile
obiezione: non c’è nessun modo immediato per mostrare che la depressione (o
qualunque altra forma di disagio psichico) sia causata dall’ambiente
definito università neoliberale – mancano, tanto per
cominciare, fattori causali unitari e misurabili che possano corrispondere a
tale nozione. Anche se provassimo a scomporre il concetto (riconducendolo
alle variabili menzionate all’inizio di questo articolo), resterebbe quantomeno
difficile separare l’influenza dei diversi fattori – ad esempio stabilendo se
la precarizzazione contrattuale sia più dannosa per il benessere di
ricercatrici e ricercatori delle invasive tecniche di valutazione della ricerca
attualmente in voga.
In una sorta di circolo vizioso, queste difficoltà iniziali e la natura
politicamente problematica del tema lo rendono un candidato improbabile per
l’ottenimento di fondi di ricerca ed una scelta penalizzante per progetti
scientifici individuali o collettivi – lasciando così oscillare la depressione
accademica tra l’assoluta irrilevanza e la rappresentazione semiclandestina in
studi occasionali, condotti per lo più da studiosi che hanno una qualche
connessione personale con l’argomento. Emblematicamente, l’unica volta che la
depressione accademica si è fatta strada sulle pagine di una pubblicazione
accademica di grande notorietà, Nature, è stata confinata nella
sezione degli editoriali, invece che ai
contributi di ricerca veri e propri.
La conversazione sul rapporto tra capitalismo e salute mentale è stata
interrotta o relegata in circoli ristretti.
Poiché il metodologico è politico (e in questo contesto in maniera
specialmente evidente), interrogarsi sull’impasse del discorso accademico sulla
depressione non è un mero esercizio di stile, ma rappresenta un passaggio
ineludibile di una mobilitazione politica in merito. Le difficoltà che
abbiamo registrato nel caso specifico della depressione accademica non
costituiscono un unicum, ma si inseriscono nella più ampia problematica del
rapporto tra capitalismo e salute mentale. Dall’antipsichiatria britannica
alla Scuola di
Francoforte, da alcuni filoni del marxismo al femminismo
radicale passando per l’opera irriducibile alle etichette di Deleuze e Guattari, soltanto alcuni decenni fa tale relazione
era oggetto di intense elaborazioni teoretiche e politiche – sia dentro che
fuori dall’università. Al giorno d’oggi, tuttavia, la popolarità clamorosa
perché inattesa di scritti come quelli di Fisher e Gill testimonia il fatto che
quella conversazione era stata interrotta – o perlomeno relegata in circoli ristretti,
dove il suo potenziale politico è spesso sopravvissuto alle spese di ogni
rigore analitico e capacità di influenzare la discussione pubblica.
Ciò che è accaduto nel frattempo è che la psichiatria – oggi il principale
produttore di sapere sul disagio psichico – ha oltrepassato quella che potremmo
chiamare, seguendo Foucault, una soglia
di scientificità. Questo implica che, lasciando foucaultianamente da parte ogni critica del sapere
psichiatrico che si accontenti di ricondurlo ad una qualche semplicistica
nozione di ideologia, la psichiatria dell’età neoliberale dovrà
essere fatta oggetto di un tipo di indagine critica differente da quella volta
a evidenziare la struttura disciplinare del
manicomio (i cui resti pure sono
giunti strisciando sino a noi). Diversi concetti accattivanti, come psicopolitica (Byung-Chul Han) e narcocapitalismo (Laurent de
Sutter) sono stati proposti recentemente proprio per mappare tanto un riassetto
del capitalismo – dal fordismo al neoliberalismo – quanto uno spostamento
interno alla stessa psichiatria – dai vecchi ospedali psichiatrici alla nuova,
biopolitica (o post-biopolitica) psicofarmacologia – con le sue relative controindicazioni.
Tuttavia, nessuno di essi sembra fornirci strumenti analitici adeguati:
entrambi mostrano una tendenza a ridurre il neoliberalismo ad un unico fattore
principale – che si tratti del passaggio dal corpo alla mente come principale
sito di produzione o di un certo tipo di narcosi come tecnologia utilizzata per
accrescere la produttività economica. Invece che porre effettivamente in
dialogo capitalismo e salute mentale, tali nozioni (e altre analoghe)
confondono le molteplici dinamiche che intervengono sull’uno e sull’altra per
un’unitarietà fittizia, in una sorta di ansia di smascheramento per la quale
affermare la verità sulla sofferenza psico-fisica che si accompagna al
neoliberalismo coinciderebbe integralmente con la critica radicale di
quest’ultimo.
L’approccio volutamente tranchant di questi lavori teorici – che in modo
solo apparentemente sorprendente si combina ad un pressoché totale disinteresse
per le prassi che già
interrogano radicalmente il nesso capitalismo-salute mentale – finisce con il
renderli potenzialmente ciechi alla natura complessa e sfaccettata del
capitalismo neoliberale, che lungi dal limitarsi ad un semplice intreccio di
economia politica ed economia libidinale si presenta come un vero e
proprio ordine
sociale istituzionalizzato. Parallelamente,
a tale visione riduzionistica del neoliberalismo ne corrisponde una del sapere
psichiatrico che non tiene conto del suo statuto epistemico attuale.
Contributi come quelli di Han e de Sutter, al netto delle ottime
intenzioni, non costituiscono quindi delle eccezioni alla difficoltà di
sviluppare un discorso sull’intersezione di capitalismo e disagio psichico – ma
confermano anzi la fatica del sapere accademico (entrambi gli autori sono
docenti universitari) di riposizionarsi a sua volta nel rapporto tra i due
elementi. L’accademia, come illustrano le riflessioni precedenti, non è più un
ambiente privilegiato dal quale muovere cupe profezie su problemi sociali
rispetto a cui studiose e studiosi possano conservare una qualche ovattata
distanza – ma è una parte rilevante del campo di battaglia dove le
trasformazioni sociali vengono attuate.
L’accademia non è più un ambiente privilegiato, è una parte rilevante del
campo di battaglia dove le trasformazioni sociali vengono attuate.
Occorre pertanto riprendere la lezione – per nulla meno
radicale – di un intellettuale come Basaglia o di Fanon:
una denuncia efficace dei possibili effetti di dominazione del sapere
psichiatrico e della sua complicità con lo sfruttamento capitalistico (e non solo)
passa dal prendere sul serio e dal maneggiare quel medesimo tipo di sapere –
rivolgendolo all’occorrenza contro se stesso. È la strada percorsa
negli ultimi decenni dalla cosiddetta critical psychiatry, oggi alle prese con il
difficile compito di combinare un’analisi che includa il disagio psichico in
una più ampia riflessione sulle conseguenze del neoliberalismo in
termini di salute con il rifiuto di assimilare positivisticamente le patologie
psichiatriche a quelle ‘fisiche’ in senso forte. Non mancano del resto anche in
Italia tentativi virtuosi di rilanciare il dibattito in chiave
interdisciplinare – vengono in mente ad esempio il dialogo tra marxismo e
psicanalisi lacaniana promosso da studiosi come Federico
Chicchi, la notevole serie di interventi firmati recentemente da Francesca Coin
sulle intersezioni fra accademia neoliberale, depressione e nuove
tecnologie – o ancora la fruttuosa commistione di etnopsichiatria e antropologia
tipica dell’opera di Roberto
Beneduce.
Rispetto agli anni ’60 o ’70, tuttavia, questo rinnovato fermento
intellettuale e le sue prolifiche contaminazioni con la riemersione di pratiche
politicamente radicali non sono ancora arrivati a lambire il senso comune
neoliberale – prova ne è che esso risulta dominante nella stessa accademia in
cui si è ripreso ad elaborare un pensiero alternativo in materia di capitalismo
e salute mentale. La depressione si ripresenta qui in tutta la sua carica
emblematica, incarnando la cifra di un’epoca, la nostra, che a differenza di
quella in cui fiorì l’antipsichiatria ha perso una visione positiva del proprio
avvenire: così come la persona depressa non riesce a proiettarsi nel futuro, il
neoliberalismo ha tarpato ogni ambizione di un futuro migliore e drasticamente
differente – facendoci navigare a vista in un eterno
presente che è la negazione
stessa della temporalità.
La depressione accademica, in questo contesto, è sia una piccola parte di
un quadro più ampio che un caso rilevante in sé. Ritrarre un certo tipo di
disagio mentale come “ferita neoliberale” di un gruppo specifico di persone che
rappresenterebbe una sorta di avanguardia nello sfruttamento capitalistico del
lavoro cognitivo non sarebbe corretto: la circostanza per cui, appartenendo ad
un gruppo (relativamente) privilegiato di lavoratori intellettuali, gli accademici
sono in una posizione migliore di altri per inquadrare alcuni fenomeni come i
sintomi depressivi, offusca il fatto che il malessere psichico è oggi un
fenomeno di massa sotto il neoliberismo. Negli Stati Uniti, per citare una
statistica fra le tante, una donna bianca su cinque assume antidepressivi – e
l’identificazione razzializzata è rilevante non perché le donne nere o latine
siano meno depresse, ma perché hanno in media meno accesso all’assistenza
sanitaria. Questo significa che, come ho provato ad argomentare
diffusamente altrove, la
depressione all’interno del mondo accademico neoliberale deve essere provincializzata, situata in un
più ampio contesto sociale ed economico, affinché il suo rapporto con il
capitalismo sia adeguatamente districato.
Nondimeno, dal punto di vista di una politica della conoscenza, analizzare
tale rapporto all’interno delle università sembra avere anche un peso
specifico, almeno se siamo pronti a riconoscere l’accademia come luogo chiave
per la produzione di conoscenza critica. Se la sfida alle narrazioni
neoliberali individualizzanti è un primo passo necessario per un’indagine sui
potenziali inneschi socio-economici del malessere mentale, gli accademici sono
probabilmente in una posizione meno svantaggiata per compiere questo passo. Del
resto l’università neoliberale è, per quanto ne sappia, l’unico ambiente dove
può capitare di essere costretti a prendere psicofarmaci per consegnare in
tempo un articolo sull’abuso di psicofarmaci in ambito accademico –
un’esperienza tragicomica che è stata davvero raccontata a chi scrive. Il
metodologico, alla fine, non è solo politico – ma anche personale.
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