Tra il pubblico impiego ci sono anche
gli infermieri e operatori sanitari che lavorano notte e giorno per pochi euro.
Eppure sono il bersaglio privilegiato contro cui vengono scagliate invettive
con l'obiettivo di addebitargli i costi della crisi
Un piano straordinario di occupazione nel pubblico impiego
è la priorità con cui la politica e la società italiana dovranno confrontarsi
nei prossimi mesi. La carenza degli organici è un dato ormai strutturale, che
la crisi sanitaria ha evidenziato con ricadute drammatiche per l’intera
collettività. Dalla sanità all’istruzione, dall’università ai servizi sociali,
dalle funzioni amministrative degli enti locali alla manutenzione dei nostri
territori, mai come oggi la necessità della ricostruzione economica e culturale
del paese deve partire da un intervento massiccio di assunzioni nella pubblica
amministrazione, coinvolgendo le nuove generazioni in un programma di rilancio
del paese.
Eppure, i dipendenti pubblici tornano a essere il bersaglio
privilegiato contro cui scagliare accuse e invettive con l’obiettivo dichiarato
di addebitargli i costi della crisi. Un attacco che si è radicalizzato all’indomani
dell’annuncio dello sciopero generale del pubblico impiego indetto per il 9
dicembre: da chi vorrebbe tassarli per recuperare le risorse necessarie per far
fronte alla caduta del Pil a chi paventa la necessità della Cassa Integrazione
per contenere la spesa pubblica. Un fenomeno che si presenta con regolarità a
ogni momento di crisi dell’economia e della società italiana.
Breve storia di un
déjà vu
Il livore contro i dipendenti pubblici affonda le sue
radici in quel passaggio d’epoca che in Italia viene comunemente riconosciuto
con la fine della prima Repubblica. L’eco di Tangentopoli non ha soltanto
spazzato via la repubblica dei partiti, alterando la forma della politica
tradizionale, ma ha finito per erodere la credibilità dell’ossatura dello Stato,
riducendo la funzione pubblica a mera espressione di clientele, corruzione e
rendite di posizione.
Non è un caso che con l’ingresso nella seconda Repubblica,
il piano della competizione politica si sia spostato gradualmente sulla
necessità di dare voce alla crescente sfiducia dei cittadini nella macchina
pubblica, piuttosto che al tentativo di mediare e rappresentare bisogni,
interessi e aspirazioni. Le privatizzazioni delle imprese pubbliche sono andate
di pari passo con le riforme della macchina statale volte a equiparare
l’assetto delle relazioni sindacali tra pubblico e privato, in un clima
culturale segnato dall’incubo del debito, di cui la spesa pubblica è divenuta
la principale responsabile. Insomma, la sfida della modernizzazione doveva fare
i conti con un passato recente, in cui intrighi e malaffare, trame occulte e
rendite di posizione trovavano nei dipendenti pubblici e nei loro
ingiustificati privilegi il vero capro espiatorio. Lo stesso processo di
integrazione europea, affermatosi con la ratifica del Trattato di Maastricht,
viene accompagnato da promesse solenni sul contenimento del deficit e
sull’efficientemento della pubblica amministrazione. Matura all’epoca la
convinzione che solo una politica di moderazione salariale e la contestuale riduzione
del peso dello Stato nell’economia costituiscano l’ancora di salvezza di un
paese che ha vissuto sopra le proprie possibilità, gravando sulle spalle delle
nuove generazioni.
La stessa difficoltà dei giovani nell’accesso al mercato
del lavoro viene ricondotta all’eccessiva rigidità del sistema di relazioni
sindacali, e all’intoccabilità di alcune figure professionali, tra cui i
dipendenti pubblici incarnano il privilegio del «posto fisso». Un mantra che
ricompare con violenza inaudita all’indomani della grande crisi del 2007-2008,
quando la canea contro il lavoro pubblico viene alimentata da rappresentazioni
punitive, che dipingono i dipendenti pubblici come «fannulloni» – espressione
coniata dall’allora ex Ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta –
lavativi, dediti all’ozio, da licenziare, mentre il costo della crisi grava
interamente sui ceti produttivi, notoriamente collocati nel centro nord. Un
immaginario utile a giustificare la necessità di tagli lineari alla spesa
pubblica, a partire dal blocco del turn over, che produrrà nell’arco di un
decennio una riduzione di circa mezzo milione di occupati nel settore pubblico.
Alla contrapposizione tra ceti produttivi e improduttivi se ne aggiungerà
un’altra, quella tra «garantiti» e «non garantiti» che serve a legittimare il
contenimento salariale e la riduzione delle tutele collettive, con la retorica
per cui solo se se si sarà capaci di attaccare i privilegi dei «garantiti» sarà
possibile estendere tutele e diritti ai «non garantiti». È il canovaccio retorico
con cui Matteo Renzi annuncerà l’avvento della riforma del lavoro, nota come
Jobs Act, presentata con i consueti toni trionfalistici come una rivoluzione
copernicana.
Ideologia e realtà
Per capire meglio la portata dell’attacco al lavoro
pubblico conviene confrontare il piano del discorso con quello della realtà. Un
esercizio necessario per diradare la foschia che inquina la percezione diffusa
nel paese, alimentata ad arte da un blocco di interessi che ha costruito la
propria fortuna sulla balcanizzazione del mondo del lavoro. Dal 1990 al 2010,
secondo le statistiche Istat rielaborate in un recente studio della
Banca d’Italia, gli occupati nella pubblica amministrazione sono passati da
circa 3 milioni e 800 mila a 3 milioni e 500 mila, un trend che si è
ulteriormente consolidato nel decennio successivo. Se prendiamo in
considerazione l’arco di tempo che va dall’anno che precede lo scoppio della
grande crisi del 2007 sino al 2017 la contrazione di occupati nel pubblico
impiego è di circa il 7,4%. Una delle performance peggiori nell’alveo dei paesi
Ocse, dietro solo a Turchia, Regno Unito, Israele e Germania.
Ma se i dati ci aiutano a comprendere i fenomeni in una
prospettiva dinamica, è utile mettere a fuoco il rapporto che lega i momenti di
crisi economica e sociale e le ricadute sul lavoro pubblico. In questa
direzione è rilevante notare come le politiche di contenimento della spesa
costituiscano un elemento di continuità nella risposta alle fasi di recessione
economica. Colpisce, infatti, come davanti ai due principali tornanti della
storia recente (la crisi del 1992 e quella del 2007/2008) l’attacco ai
dipendenti pubblici abbia costituito un elemento fondamentale nel riassetto
della società italiana, alterando la struttura occupazionale del paese verso
una terziarizzazione a basso valore aggiunto. Mentre i grandi giornali
alimentavano il coro di indignazione contro gli immeritati privilegi del
pubblico impiego e il ceto politico cavalcava la rabbia della società contro il
mondo dei garantiti, la politica economica e di bilancio sanciva la riduzione
drastica della spesa pubblica. Già sul finire degli anni Novanta la riduzione
dei costi veniva individuata come un elemento di stabilità finanziaria del
paese, ma saranno le leggi di bilancio approvate nel cuore della crisi
economica (dal 2007 al 2011) a sconvolgere quel che resta dell’ossatura della
pubblica amministrazione. Norme ispirate da un obiettivo comune: il contenimento
della spesa attraverso il blocco del turn over e la moderazione salariale –
stabilendo il principio secondo cui per cinque lavoratori che andranno in
pensione ci sarà un solo nuovo assunto. Salvo alcune eccezioni che
riguarderanno in parte la Scuola e il settore della difesa, il criterio della
riduzione del personale dipendente dello Stato si affermerà senza soluzione di
continuità per l’intero decennio.
Spostando l’attenzione sulla dimensione qualitativa e
settoriale emerge che la contrazione dell’occupazione pubblica ha colpito in
maggior misura la Sanità e l’Università. Comparti osannati dalla retorica
governativa nel periodo più drammatico della pandemia, eppure falcidiati da
tagli criminali. Solo nella sanità l’occupazione ha subito una contrazione nel
decennio 2008-2018 del 6%.
Una cifra che non consente di cogliere la portata reale dei tagli, se non si
specifica che ad avere la peggio è stato l’insieme del personale non
dirigenziale: infermieri, tecnici di laboratorio, personale ausiliario, gli
«eroi» della pandemia, la base portante del sistema sanitario nazionale, sono
le categorie su cui si è scaricata la crisi. Una sorte analoga, ma addirittura
più esplicita nei numeri, è quella riservata al mondo dell’università. Qui i
dati segnalano che nell’arco di un decennio i ricercatori sono passati da
20.000 (nel 2008) a 12.600 (nel 2018), i docenti ordinari da 20.000 a 13.000.
L’età media dei professori ordinari è passata da 47 anni nel 2007 a 53 anni nel
2018. Un trend che è visibile nell’intera struttura occupazionale del pubblico
impiego, dove l’età media si aggira sui 55 anni.
Le trasformazioni sul versante occupazionale hanno avuto
una ricaduta anche sulla dinamica salariale, che ha conosciuto il blocco
decennale (dal 2009) nel rinnovo dei contratti. Secondo i dati messi a
disposizione da uno studio del centro
di ricerca del sindacato confederale europeo (Etuc) sull’andamento del settore
pubblico e privato negli anni successivi alla crisi del 2008, nel periodo dal
2010 al 2013 l’andamento della dinamica salariale nel settore pubblico rispetto
a quello privato è stato addirittura negativo. Il differenziale si attestava
sul -7,4%, a dimostrazione che i famosi sacrifici sono pratica comune tra i
lavoratori e le lavoratrici della pubblica amministrazione (si veda il
dettagliato rapporto sul pubblico impiego curato e redatto da Marta Fana per la
Fondazione di Vittorio, in cui viene mostrato senza mezzi termini il
differenziale salariale tra categorie dirigenziali e non dirigenziali). Un
quadro che è evidente anche esaminando un periodo più lungo come risulta dallo
studio redatto dall’Eurofound, che
ha analizzato la struttura occupazionale degli Stati membri nel periodo dal
2002 al 2017. Un’altra evidenza, che mostra, senza possibilità di smentita, la
dinamica negativa dei salari nel pubblico impiego e la preoccupante
specializzazione dell’economia italiana verso i settori più poveri.
Insieme alla riduzione delle piante organiche il settore
pubblico è stato investito da una crescita rapida di rapporti di lavoro
precari. Diversamente dal mito dell’intoccabilità del posto fisso e del lavoro
garantito, i nuovi assunti nella pubblica amministrazione sono spesso e
volentieri inquadrati con contratti a termine. Anche qui la leggenda sui
dipendenti pubblici «garantiti» da contrapporre a una forza lavoro precaria e
priva di tutele è il frutto di un’ideologia che ha scientificamente distorto la
realtà del paese. Sul finire degli anni Novanta i contratti a termine sono
diventati una pratica comune anche nel settore pubblico. Negli anni dal 2002 al
2006 i dipendenti pubblici a tempo pieno con contratti temporanei sono
aumentati del 10% a fronte di una caduta dei lavoratori a tempo indeterminato.
Il settore pubblico non appare immune dalla crescita esponenziale del part-time
involontario, che abbraccia i settori dove si colloca l’incremento
occupazionale (alloggi, ristorazione), ma diviene al tempo stesso una modalità
a cui si ricorre frequentemente nella pubblica amministrazione, a farne
maggiormente le spese, neanche a dirlo, le donne. Secondo i dati elaborati dal
Cnel nel XXI rapporto sul Mercato del lavoro emerge che dal 2008 al 2018 il part-time involontario
cresce del 5,8% a fronte di una caduta del full time del 15,2% e, dato ancora
più emblematico, dal crollo del 23,4% del part time volontario.
Un quadro paradigmatico che consente di cogliere quanto le
rappresentazioni prodotte negli ultimi decenni per alimentare indignazione e
diffidenza tra i lavoratori e le lavoratrici abbiano funzionato da schermo
ideologico delle scelte politiche. Mentre, infatti, si tagliavano posti di
lavoro nel comparto pubblico e con il blocco del turn over veniva chiusa la
porta alle giovani generazioni, la narrazione dominante sventolava il vessillo
del conflitto generazionale o tra «garantiti» e «non garantiti» per spostare il
campo di battaglia dal vertice alla base della società. Giovani contro anziani,
produttivi contro improduttivi, lavoratori pubblici contro lavoratori privati:
cambia la forma ma la sostanza resta identica.
Eroi per un giorno
Le crisi producono una separazione tra un «prima» e un
«dopo», rappresentano un punto di rottura nell’intera esperienza umana. È così
anche per la crisi sanitaria scoppiata nel febbraio scorso. Un evento
imprevedibile che ci ha costretto a fare i conti con il passato recente, con le
verità che credevamo incrollabili fino a qualche tempo fa. Questo è il portato
profondo della crisi sanitaria, il patrimonio prezioso che potrebbe ancora, e
nonostante tutto, costituire un nucleo vitale per ripensare la società in cui
viviamo. Ci siamo accorti, soprattutto allo scoppio della prima ondata, che i
tagli messi a segno nel cuore del settore pubblico hanno lasciato il paese
esposto, fragile, impaurito di fronte alla voracità del virus. Le terapie
intensive stracolme notte e giorno, le immagini degli infermieri, travolti
dalla stanchezza che provavano con tutta la passione e l’umanità possibile a
gestire un’emergenza infinita, hanno monopolizzato per un istante il nostro
immaginario. Per un istante, che sembra volato via, li abbiamo chiamati «eroi»,
«angeli», ci siamo commossi vedendoli dormire esausti nei corridoi degli
ospedali. Per un attimo abbiamo capito che dietro un trentennio di ideologia
liberista, di tagli selvaggi, si nascondevano gli interessi di pochi contro gli
interessi dei molti. Lo abbiamo avvertito dentro un’ondata emotiva che ci ha
segnati.
Ma la durata della commozione collettiva è subito scemata
nelle settimane successive, quando alla ribalta sono tornate le
rappresentazioni di ieri, del mondo che pensavamo di esserci lasciati alle
spalle. Sono tornati i Pietro Ichino a rispolverare le vecchie invettive
brunettiane, sostenendo che i dipendenti pubblici in smart working erano in vacanza. È tornato Tito Boeri chiedendo la Cassa Integrazione per
chi a suo dire coltiva privilegi immeritati: il posto fisso. E sono tornate le
antiche contrapposizioni tra lavoratori pubblici e privati, con la lettera
aperta con cui lo stesso Boeri insieme a Roberto Perotti accusa i sindacati che
indicono lo sciopero del 9 dicembre di farsi odiare dai lavoratori privati. Un
film già visto, con i suoi protagonisti ormai con qualche capello bianco ma il
livore di sempre nel tentativo di riportare il paese indietro in quel tempo in
cui il lavoro da diritto sancito dalla Costituzione si trasformava in
privilegio di pochi, al tempo in cui il welfare era sinonimo di costo da
contenere e non di investimento da promuovere. Il tempo che ci ha portati sino
a qui, nel paese in cui è scandaloso tassare i ricchi, mentre è normale tassare
i dipendenti pubblici. I numeri, come scrive Giacomo Gabbuti, si
fanno merce rara e quello che conta è l’ideologia, infarcita di pregiudizi
ancestrali, esempio limpido di odio di classe senza mediazioni e pudore.
Nel momento in cui i numeri e la realtà chiederebbero un
investimento massiccio di personale nella pubblica amministrazione per
rimettere in sicurezza il paese, il coro dei liberisti all’amatriciana vorrebbe
che il discorso si focalizzasse sull’opportunità dello sciopero per nascondere
le ragioni della protesta. Perché nelle motivazioni di quello sciopero c’è
tutto quello che abbiamo sentito nei giorni di marzo, ci sono gli infermieri
sottopagati, gli operatori sanitari esternalizzati che lavorano notte e giorno
a 7 euro all’ora – i quali hanno già scioperato chiedendo tra le altre cose
l’internalizzazione – c’è ancora quella parte del paese che ci consente di
sperare di uscire meglio di come siamo entrati in questa maledetta pandemia.
Sarebbe preferibile, quindi, che il premier Giuseppe Conte e il governo
evitassero di criticare l’opportunità dello sciopero e cominciassero a
risolvere i problemi che lo sciopero pone.
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