Ryszard Kapuściński era un uomo molto inquieto: non riusciva a star mai fermo. Dopo pochi giorni che era nella sua bella casa zeppa di libri, sulla ulica Prokuratorska, a Varsavia, trovava sempre un pretesto per ripartire. Ho sempre pensato che sua moglie, la dottoressa Alicja, fosse una santa. Le prime volte che lo cercai per telefono mi rispondeva che non sapeva bene dove fosse suo marito e che, forse, lo avrebbe sentito tra un paio di settimane. Si perdeva nel mondo. Del resto, per scrivere aveva bisogno del movimento. E anche del fiato sul collo dei redattori. I capitoli dei suoi libri sembrano puntate di reportage, scritte come se fosse all’ultimo momento (anche quando sono il frutto di lunghe e meticolose rielaborazioni
Sono passati ormai sei anni dal quel freddo 23 gennaio del 2007, quando arrivò la notizia che Kapuściński non era sopravvissuto a un’operazione chirurgica non più rimandabile. Mi manca molto l’amico e, allo stesso tempo, sento una grande amarezza per dover esser stato, purtroppo tra i non molti, a doverlo difendere dal fango che, passati appena pochi anni dalla sua scomparsa, gli ha gettato addosso il suo ex allievo e collega Artur Domosławski, con la biografia Kapuściński non-fiction (2010).
Quelle che vengono presentate come “scottanti rivelazioni” sul rapporto di collaborazione che il giovane Kapuściński avrebbe intrattenuto con la polizia politica polacca erano state spesso argomento di nostre chiacchierate: egli non nascondeva il fatto che quando per la prima volta, alla fine degli anni Cinquanta, dovette recarsi all’estero come giornalista, il regime polacco lo costrinse (come faceva con tutti coloro che avevano bisogno di un passaporto) a firmare un impegno a tenerlo regolarmente informato sull’attività dei suoi colleghi occidentali e a far da tramite con gruppi rivoluzionari filosovietici. Lui, come quasi tutti i suoi furbi concittadini, accettò le condizioni e poi trasmise notizie del tutto irrilevanti e, quanto ai “contatti”, si regolò secondo sua coscienza (del resto, i servizi segreti statunitensi, che lo tenevano anch’essi d’occhio, non rilevarono mai nel suo agire nulla di compromettente, tanto che infatti il visto di ingresso negli Stati Uniti non gli venne mai negato). E l’altra accusa (oltre a una quantità di malignità e pettegolezzi del tutto inutili) che gli fa Domosławski, di “essersi inventato molte cose venendo meno all’etica del giornalista”, si sgretola da sola quando si leggono i suoi libri e si comprende bene che Kapuściński era prima di tutto un grande scrittore.
E’ davvero ingiusto “fare la morale” (per lo più quando non si può più difendere da solo!) a un uomo che è stato uno degli ultimi maestri di tolleranza, rispetto e curiosità verso l’Altro. Kapuściński odiava il cinismo: era un malinconico, e un po’ amaro, ottimista che cercava, con appassionata curiosità, la verità che sta in ogni essere umano. Per questo era facile essergli amico, anche se il suo carattere non era certo facile: spesso si spazientiva e si irritava, anche senza motivo.
Conobbi personalmente Kapuściński agli inizi degli anni Novanta quando iniziai a pubblicare, presso la casa editrice Feltrinelli, dove lavoravo come redattore, i suoi libri (agli inizi mi guardarono con scetticismo perché un suo libro, Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate, del 1978, era stato pubblicato, traducendolo dall’inglese e non dall’originale polacco, proprio dalla Feltrinelli, nel 1983, con esiti commerciali disastrosi).
Lo invitammo nel 1994 a Milano a presentare l’edizione italiana di Imperium (che, secondo me, è il suo libro più bello), uscito quasi in contemporanea con l’originale polacco. Kapuściński conquistò tutti con la sua simpatia e modestia. E noi due ci riconoscemmo come appartenenti al bizzarro “club degli amanti di Witold Gombrowicz” e passammo diverse ore, in un caffè di Corso Como, a scambiarci le rispettive impressioni sulle implicazioni filosofiche di Cosmo, un romanzo che può aiutare a comprendere lo stile di pensiero e di scrittura di Kapuściński (“Gombrowicz”, mi disse, lasciandomi sulle prime un po’ interdetto, “è stato uno dei miei maestri”).
Di fronte al numeroso pubblico accorso a sentirlo, e convinto di trovarsi di fronte una sorta di sosia polacco di Bruce Chatwin, Kapuściński esordì affermando di amare molto l’Italia perché era il primo paese occidentale che aveva visitato, alla fine degli anni Cinquanta, in viaggio verso la sua prima missione nel Terzo mondo. Ricordava l’impressione che gli fece vedere di notte, dall’aereo, Roma là sotto tutta illuminata, come un immenso lago di candeline: “Mi sembrava di essere in un film di Fellini”, disse ridendo. Inaugurammo in quell’occasione una tradizione che avremmo rispettato ogni volta che venne in Italia. Era convinto che da noi ci fossero le migliori, e più a buon mercato, camicie del mondo. Così, da quella volta, le nostre discussioni di lavoro avvennero entrando e uscendo dai negozi dove lui, mai contento, esaminava decine di camicie. Ne comprava, alla fine, una, ma in quindici anni l’ho visto venire sempre con la stessa (polacca). Una volta mi disse di rimpiangere di non poter indossare quei bei variopinti camicioni africani che usava laggiù. Francamente non sono mai riuscito ad immaginarlo vestito così.
Kapuściński si considerava un po’ il patriarca dei corrispondenti di tutto il mondo. Molti suoi famosi colleghi erano ormai scomparsi. A volte diceva di sentirsi un sopravvissuto di un mestiere che è profondamente cambiato nella pratica e anche nell’etica professionale. Ma riconosceva con sicurezza coloro che gli erano simili e soffriva molto quando qualcuno di loro (come la Politovskaja) veniva colpito. I sempre più numerosi attacchi, nel mondo, alla libertà di stampa e ai giornalisti, lo preoccupavano. Si dava da fare per portare la sua testimonianza e suoi consigli ovunque ci fossero dei giovani che volevano intraprendere questo difficile mestiere.
Gli piaceva
molto discutere di politica. Di qualunque nazione si parlasse, dimostrava una
vastità di letture e un aggiornamento sorprendenti. Di ogni paese africano, ad
esempio, era in grado di indicare capi di stato e ministri come se stesse
parlando dei giocatori della squadra di calcio della propria città. Da giovane
aveva creduto sinceramente nella spinta rivoluzionaria dei movimenti
anticolonialisti. Forse, nel Terzo mondo, aveva intravisto una sorta di
risarcimento ideale alle delusioni della Polonia dopo le speranze dell’ottobre
1956. Capivo questo meccanismo, perché funzionò anche per mio padre (comunista
e docente di Storia contemporanea all’Università di Genova) che vide, negli
stessi anni, nei movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia, una speranza
che le proprie utopie politiche avessero un senso meno squallido e oppressivo
della realtà del cosiddetto “socialismo reale”.
Una volta quindi li feci incontrare a pranzo, a Firenze: si stettero simpatici e, parlandosi in un improbabile spagnolo, sembravano due reduci delle Brigate Internazionali. Per entrambi la delusione per le sorti progressive del cosiddetto Terzo Mondo era stata dolorosa: cacciate le potenze coloniali, quasi ovunque si erano instaurate dittature feroci e corrotte. Kapuściński le descrive bene nei suoi libri. Eppure una certa sensibilità (e un po’ di scettica simpatia) per le rivoluzioni gli era in fondo rimasta (soprattutto per quelle dell’America Latina).
Grazie a questa “empatia”, durante la rivoluzione iraniana, riuscì, girando e parlando con la gente, a descrivere ciò che i suoi colleghi non vedevano. In Shah-in-Shah (1982), Kapuściński mostrò per primo che la Storia laggiù stava prendendo un passo nuovo, e drammatico, nella fusione tra religione e politica. Nello stile di questo libro, come degli altri, c’è un aspetto che salta agli occhi: Kapuściński non giudicava mai. In privato, sì, e anche nei dibattiti (seppure con più cautela), ma nei suoi scritti si nota un’astensione dal giudizio degna di un autore classico (Tito Livio o Machiavelli). Quando glielo feci notare, la cosa gli fece grandissimo piacere: quello era il mondo al quale, come molti altri intellettuali polacchi, guardava come punto di riferimento culturale ed etico. Mi disse più volte che questo era sempre stato il suo imperativo professionale: non bisognava influenzare il giudizio del lettore con le proprie opinioni. A degli studenti di una scuola italiana disse: “il giornalismo non è un mezzo di propaganda politica, ma informazione e ricerca della verità”.
Il “cimelio” più caro che conservo del mio amico Kapuściński sta appeso sulla parete dinanzi al tavolo in cucina (in modo da poterlo vedere ogni mattina): è una piccola fotografia quasi tutta buia, con al centro un gruppo di cinque egiziani seduti in preghiera su un tappeto, rischiarato dal raggio di sole che cala su di loro da una finestra del tetto. La scrittura e la fotografia, mi disse una volta, passeggiando per il grande parco vicino a casa sua, erano per lui “l’illuminazione momentanea di persone e fatti immersi altrimenti nel buio del mondo”. Kapuściński teneva molto alla sua professione di fotografo. Era iscritto all’Associazione dei Fotografi Polacchi e non perdeva occasione di ribadirlo. Ma in tutti gli anni che l’ho frequentato non gli ho mai visto scattare una foto, né estrarre la macchina dal brutto borsello che si portava sempre dietro. E’ come se la fotografia appartenesse al suo passato, quando faceva il giornalista e raccontava “in presa diretta” la realtà. Negli ultimi anni invece si considerava uno scrittore, con un approccio più distaccato, come si conviene a un’artista, o, meglio, a un poeta (una volta, mi disse che sulla sua tomba avrebbe voluto ci fosse scritto solo: “poeta”).
Nel 2002, quando già dirigevo la Bruno Mondadori, mi propose di pubblicare, in coedizione polacca, un suo bellissimo album di foto, intitolato Dall’Africa. Ne scrissi una breve introduzione che gli piacque molto e così mi nominò suo “assistente fotografico”. Organizzammo, nella primavera di quell’anno, una mostra (curata da Iza Wojciechowska) di alcune di quelle foto alla Casa delle letterature, a Roma, nell’ambito della prima edizione del festival “Fotografia” di Marco Delogu. La mostra fu poi invitata a Buenos Aires per un’esposizione alla Fondazione Proa, in occasione di un corso che Kapuściński doveva tenere a dei giovani gornalisti sudamericani. Mi fece invitare come, appunto, assistente e trascorremmo assieme laggiù due intense settimane.
Il primo posto dove andammo, appena sbarcati nella capitale argentina, nell’ottobre 2002, fu il Cimitero monumentale della Recoleta: cappelle su cappelle e alberi secolari con lo sfondo dei grattacieli dei ricchi. Il vento portava l’odore e la brezza del mare. Deponemmo i fiori sulla tomba di Adolfo Bioy Casares (1914-1999). La cappella della sua famiglia trasudava da tutti i marmi opulenza e importanza. Notammo con sorpresa che a lui era dedicata solo una piccola targhetta di bronzo che lo faceva sfigurare accanto a tutti quegli avvocati, ingegneri e personalità pubbliche di spicco. Poi Kapuściński mi portò in pellegrinaggio in Plaza de Mayo. Dal 1977, ogni giovedì, una rappresentanza delle madri dei trentamila desaparicidos marciava in silenzio, dietro uno striscione, con i fazzoletti in capo, attorno all’obelisco al centro della piazza. Quelle donne giravano e giravano. Un po’ più indietro le seguivano, a due a due, a braccetto, le madri che avevano ceduto e accettato dal governo un indennizzo per i figli scomparsi. Kapuściński, con le lacrime agli occhi, mi citò Edoardo Galeano: “Quelle donne sono il coro greco della nostra tragedia”.
Nel quartiere Palermo facemmo il nostro “tour Borges”. La prima tappa fu al Bistrot “El Preferido” (all’angolo tra Calle Serrano e Avenida Borges) costituito da due negozi comunicanti: una pizzicheria con gli scaffali di legno incorniciati come certi mobili da farmacia di un tempo e una piccola trattoria con enormi boccioni di sottaceti succulenti affiancati da un muro di bottiglie dalle etichette più strane e piccoli tavolini con tovaglie rosse a scacchi. Le vie di Palermo vecchia sono punteggiate di case a un piano, massimo due, di grande bellezza: sembra davvero di trovarsi in una città del sud Italia di inizio secolo, con un Liberty a volte vistoso, altre sobrio e più elegante.
Durante tutta la giornata, ciascuno di noi annotò delle cose sulla propria Moleskine. La sera ci rifugiammo, anche per sfuggire a un violento temporale, in un ristorante all’angolo tra l’Avenida Perù e l’Avenida Belgrado, ai piedi di un palazzo del 1914, molto alto e sormontato da una pretenziosa cupola e curiose decorazioni: al primo piano giganti/cariatidi assai lugubri e, all’ultimo, quattro strane aquile simili a draghi, protesi verso la strada. Davanti ad una profumata bistecca grande come un libro, Kapuściński mi ingiunse di leggergli cosa avevo scritto. Poi mi lesse i suoi appunti: sembrava fossimo stati in posti del tutto diversi. Lui si era soffermato su una bottiglia rotta vicino a una pozzanghera, un cagnetto che camminava sghimbescio, una finestra blu alla quale si affacciava una signorina con strani guanti rosa… Non si fidava del suo intuito immediato: per questo raccoglieva di tutto, con gran rispetto per le persone e le cose. Dava loro un senso conferendogli la dignità di fatti. Io invece avevo annotato i palazzi importanti, le cose che raccontava la gente, le “questioni morali”…
Kapuściński tenne le sue “lezioni di giornalismo” nella sede della Fondazione Proa, nel popolare e pittoresco quartiere della Boca (essendo ambedue molto appassionati di calcio, andammo anche a vedere una partita dei “Boca Juniors”, la mitica squadra di Maradona), davanti a trenta giovani, venuti da tutto il continente, che lo ascoltavano rapiti e lo chiamavano Maestro. Fu bravissimo a spiegare, con passione e realismo, cosa significasse fare il giornalista in realtà come quelle dell’America Latina e di come loro avessero una grande responsabilità verso i propri popoli. Ma ho sempre sospettato, e in Argentina ne ebbi la conferma, che, al di là della grande passione che dimostrava, Kapuściński considerasse in fondo il giornalismo come un mestiere, da far bene, con onestà e passione, ma pur sempre un lavoro che ti dà da vivere. Una volta mi confessò, passeggiando per la caotica Avenida Corrientes, che gli sarebbe piaciuto esser ricordato come poeta o scrittore di aforismi: colui che in poche parole descrive un mondo.
Col passare del tempo, infatti, sempre meno credeva nella linearità e nelle sequenza continua, veloce ed evidente, dei fatti. Aveva bisogno di soffermarsi e ragionare sul frammento. Avendo lavorato per molti anni come corrispondente di un’agenzia di stampa, si era abituato alla precisione della notizia breve ed esaustiva. Ma si era poi accorto che troppo materiale gli rimaneva nei taccuini. Per questo iniziò a scrivere i suoi libri - Il Negus; La prima guerra del football; Imperium; Shah-in-Shah, Ebano - che sono un genere letterario tutto particolare. In essi si fondono il suo interesse per la storia (amava ricordare di aver studiato storia a Varsavia alla scuola del grande studioso del feudalesimo Witold Kula) e la passione per la fotografia. La realtà che racconta sono tante inquadrature, incorniciate da osservazioni e notizie raccolte di prima mano o frutto di numerose letture. Ordinava il caos dei fatti in una sequenza di illuminanti scatti, spesso apparentemente secondari.
Dopo l’Argentina, ci rivedemmo qualche volta a Varsavia: nell’occasione di un’intervista che gli feci per “Repubblica” mi invitò a cena, con molto orgoglio (“Vedi ora siamo un paese normale!”), nel più costoso ristorante italiano, appena aperto: gli spiegai che faceva schifo, dimostrando una spietatezza della quale mi pentii subito, perché lo intristii come quando a un bambino si dice che il suo disegno è brutto. Oppure ci incontravamo, sempre di fretta (un pranzetto e rapido un giro di camicie), approfittando di ogni occasione in cui, con sempre maggiore frequenza, Kapuściński veniva in Italia per ricevere un premio, tenere una conferenza o, cosa che più gli piaceva, a far lezione a qualche classe scolastica. Ogni volta diceva che era l’ultima volta, che era stanco e che voleva starsene tranquillo a casa a scrivere, ma lo diceva con un tono poco credibile e un mezzo sorriso che faceva intuire quanto tutto quel frenetico viaggiare e vedere gente gli desse gioia (anche a costo di rimetterci la salute).
Quando lo incontrai l’ultima volta, a Roma, nell’ottobre del 2006, approfittando di una mattinata libera da impegni, andammo a visitare una mostra di disegni di Paul Klee. In una stanza completamente buia, attraversata da un fascio di luce che illuminava un quadro con un buffo ometto in equilibrio, con una lunga asta, su un filo teso tra due leggere impalcature di travi, si incantò a guardare e disse a bassa voce: “Muoio”. Alle mie proteste e alle solite affermazioni di circostanza (come: “ma stai benissimo!), rispose: “Non ci pensiamo più”.
Dopo la sua morte scoprii, con dolorosa e amara sorpresa, che aveva una figlia. Non me ne aveva mai parlato. Eppure non sarebbero mancate le occasioni per farlo, come quando mia figlia, che lo chiamava zio, gli rovesciò gli spaghetti sulla camicia o, alcuni anni dopo, si precipitò a casa mia, direttamente dall’aeroporto, con un regalo per il mio secondo figlio appena nato. Questa misteriosa figlia si chiamava Zofia. Ma quasi nessuno a Varsavia lo sapeva. Nell’autunno del 2008, alla Galleria Kundegarda, si inaugurò una mostra di collage di un’artista canadese di origine polacca: Rene Maisner.
Intervistata dalla giornalista Lidia Ostałowska di “Gazeta Wyborcia” (il maggiore quotidiano polacco, dove aveva scritto anche Kapuściński) la Maisner si rifiutò di rispondere alla domanda chi fosse suo padre. Alla fine, chiese che non si accennasse in nessun caso a suo padre, recentemente scomparso, perché era Ryszard Kapuściński. Due anni dopo, Zofia/Rene bussò alla mia porta, con una troupe della televisione, per farmi un’intervista su Kapuściński per un documentario. Si sedette sulla punta del divano, si tolse gli occhiali che le nascondevano il bel volto e, senza guardarmi in faccia, mi chiese al microfono: “Chi era mio padre?”.
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