In un recentissimo
rapporto delle
Nazioni Unite si possono leggere le seguenti parole: sfruttamento, serie e
persistenti violazioni dei diritti umani, condizioni abitative e lavorative
disumane, gravi problematiche relative alla salute e la sicurezza sul posto di
lavoro, inquinamento ambientale che mette a rischio la salute pubblica.
Indovinello: a quale Paese si riferisce il summenzionato rapporto?
- Una
Nazione del Terzo Mondo, dilaniata da una guerra civile
- Il
Venezuela/Cuba
- L’Italia
La risposta è, ovviamente, la terza.
Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite su impresa e diritti umani ha, infatti,
recentemente visitato il nostro Paese, fornendo un quadro desolante,
ma per nulla sorprendente per chi vive quotidianamente sulla propria pelle il
funzionamento del cosiddetto ‘mercato del lavoro’ italiano.
E così, mentre la stampa italiana si
crogiola sui numeri ottimistici della ripresa economica post-pandemia e sul sol
dell’avvenire garantito dal rispettato governo Draghi, la durezza più cruda
della realtà quotidiana della vita di milioni di persone viene a galla persino
attraverso un rapporto delle Nazioni Unite.
Il primo elemento messo in luce dal
rapporto è la sistematica opera di sfruttamento
della manodopera migrante, specialmente in
settori quali l’agricoltura, il tessile e la logistica. È un fenomeno risaputo, alimentato attivamente
e consapevole da precise scelte politiche: Governo dopo Governo, in maniera
sostanzialmente indipendente dal colore, si adottano provvedimenti che
criminalizzano le migrazioni. Il migrante, reso ‘illegale’, è ancora più
vulnerabile e alla mercé del padrone, che alimenta i suoi profitti grazie a
“condizioni abitative e lavorative disumane” e salari da fame, protetto dalla
“precaria situazione legale” dello sfruttato, che non può avvalersi neanche
dalle forme minime di tutela previste per lavoratori ed esseri umani
‘regolari’. Con il contorno della canea aizzata dal Salvini di turno, che
chiede ulteriori restrizioni per poter mettere a disposizione dei suoi (di
Salvini) padroni una manodopera ancora più indebolita, frammentata e disperata.
Il rapporto mette inoltre in luce
come il Governo e le pubbliche autorità siano carenti anche nel fare rispettare
le leggi esistenti a tutela del lavoro e nel controllare realmente le imprese,
lasciando quindi sostanzialmente mano libera allo sfruttatore nello stabilire
da sé le regole del gioco sul posto di lavoro e permettendo a “produttori e
commercianti di trarre beneficio dall’impiego di forza lavoro sfruttata e a
buon mercato”.
Ci sarebbe, forte, la tentazione di
rimanere stupiti e colpiti da queste considerazioni. Di pensare che si tratti
di un’emergenza, una degenerazione patologica da curare con le ricette proposte
dal Rapporto: “creare un’istituzione preposta alla tutela dei diritti umani sul
posto di lavoro, dimostrare capacità di leadership globale traducendo gli
impegni presi dal Governo italiano, prendere seriamente le preoccupazioni delle
comunità che soffrono maggiori danni ambientali, costruire fiducia” e così via.
Neanche queste parole vuote e rituali,
però, riescono a celare il contenuto e il messaggio che il Rapporto,
involontariamente, veicola. Un sistema economico fondato
sulla ricerca del profitto ha bisogno strutturale dello sfruttamento,
dove con questa parola non si intende un concetto astratto e lontano nello
spazio e nel tempo, ma una serie di fenomeni concreti, quotidiani e
drammaticamente banali: dal lavoratore migrante costretto a vivere in ghetti e
baracche e che raccoglie
pomodori per pochi centesimi al chilo; al rider
che lavora a cottimo;
dall’operaio della logistica stritolato
da ritmi di produzione disumani; alla lavoratrice ricattata e pagata di meno del
collega uomo a parità di impiego; fino ad arrivare al depredamento
dell’ambiente e delle sue risorse.
Eccola la normalità, la prassi
quotidiana del capitalismo, di un capitalismo neoliberale ormai normalizzato
nelle sue feroci regole da tre decenni di riformismo al rovescio che hanno
minato le fondamenta del diritto del lavoro e dello stato sociale. Eccola la
normalità cui si vorrebbe tornare dopo la lunga parentesi di una pandemia che
non ha fatto altro che infierire su un organismo sociale già gravemente malato e
marcescente, dove svalorizzazione e sfruttamento del lavoro, ritmi di lavoro
soverchianti e salari da fame o del tutto inadeguati ad una vita dignitosa
erano da molti anni divenute le regole generale insindacabili.
È proprio per questa ragione che la
lotta contro le “condizioni abitative e lavorative disumane” a cui viene
sottoposta la forza lavoro migrante, la difesa dell’ambiente e della natura, il
contrasto alla precarietà e ai bassi salari devono essere le parti costitutive
di uno stesso, unico progetto politico, che ha come obiettivo e nemico non
soltanto una particolare forma degenerativa ed estrema del disagio e dello
sfruttamento, ma un sistema economico che strutturalmente produce miseria e
che prospera
nelle divisioni artificiali tra gli sfruttati.
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