lunedì 8 novembre 2021

a proposito di pensioni

Pensioni, la riforma Fornero penalizza tutti - Felice Roberto Pizzuti

Nel dibattito sulle pensioni suscitato dalla proposta governativa inserita nella legge di bilancio ci sono due equivoci di fondo: il primo è che la normalità cui si dovrebbe tornare sarebbe l’assetto stabilito dalla riforma Fornero nel 2011; il secondo è che essa favorirebbe i giovani.

Nei dieci anni trascorsi, specialmente dopo la crisi pandemica, i fatti hanno mostrato chiaramente i danni creati dalla filosofia della “austerità espansiva” seguita dal governo Monti e dalla sua applicazione al sistema pensionistico. Prima ancora che la riforma Fornero venisse applicata, furono subito segnalate le sue incongruità anche tecniche che davano luogo a fenomeni economicamente e socialmente insostenibili come la creazione di una nuova penosa figura, quella degli “esodati”, cioè persone che improvvisamente venivano a trovarsi senza salario e senza pensione, un risultato decisamente estraneo ai compiti che dovrebbero essere svolti dalla previdenza sociale.

Naturalmente, bisognò correre subito ai ripari e si procedete alle cosiddette misure di salvaguardia; nel corso degli anni successivi ne sono state fatte nove, portando a circa 250.000 la platea dei lavoratori “salvaguardati” dalla “normalità” della legge Fornero. Questa, peraltro, era stata giustificata sostenendo pure che alzando l’età di pensionamento sarebbe aumentati gli attivi e gli occupati; ma mentre il primo effetto era statisticamente ovvio, il secondo era una colpevole illusione. Infatti l’occupazione non aumentò poiché proprio le politiche governative restrittive ostacolarono la crescita di un sistema già molto depresso. Quanto all’effetto sui giovani, trattenere forzosamente in attività chi stava per andare in pensione, inevitabilmente ridusse i posti disponibili per i nuovi ingressi nel mondo del lavoro; cosicché, oltre a penalizzare le aspirazioni comprensibili e complementari degli anziani e dei giovani, si ridusse il turnover e la sua normale spinta all’innovazione e alla dinamica della produttività. 

“Quota 100” è stato un altro tentativo di compensare i problemi generati dalla riforma Fornero, ma è stata una misura sopravalutata sia dai suoi sostenitori sia dai suoi detrattori. In una fase di grande precarietà economico-sociale, la sensibile riduzione di reddito che già si verifica nel passaggio dalla retribuzione alla pensione, accentuata dalla penalizzazione per l’anticipazione del pensionamento nel sistema contributivo, ha consentito solo ai lavoratori più benestanti, prevalentemente maschi, di usufruire di “Quota 100”. Questa, dunque, da un lato, si è rivelata una misura inadeguata e discriminante rispetto all’obiettivo, d’altro lato, è stata meno costosa di quanto temuto. Ma se oggi, alla prevista scadenza del triennio di applicazione di “Quota 100”, l’intervento del Governo si riduce alla sua progressiva eliminazione tramite “quote” intermedie (102, 103, …) per tornare alla legge Fornero, non solo non si realizza il bene dei giovani falsamente decantato, ma si continuano ad ignorare i problemi strutturali sempre più urgenti del nostro sistema previdenziale e dei suoi effetti negativi sui complessivi equilibri economico-sociali.

Da anni, nel Rapporto sullo stato sociale redatto in Sapienza viene richiamata l’attenzione sulla “bomba sociale” in arrivo: quasi il 60% di quanti hanno iniziato a lavorare a metà degli anni ’90, a causa dei salari bassi e instabili finora avuti, permanendo gli assetti del sistema previdenziale e del mercato del lavoro, matureranno una pensione inferiore alla soglia di povertà. Alle stesse generazioni che nell’età attiva stanno subendo le conseguenze di politiche economico-sociali controproducenti che alimentano la precarietà di vita, pregiudicando perfino la loro possibilità di fare figli, si sta prospettando una anzianità con condizioni di vita ancora peggiori.

Preoccuparsi per i giovani (e non solo) significa offrirgli una maggiore stabilità, che sarebbe favorita non solo da maggiori e migliori opportunità di lavoro e di realizzazione oggi, ma anche da prospettive di sicurezza per  il domani, tenendo in conto che le prime e le seconde interagiscono tra di loro. Assicurare ai giovani d’oggi una anzianità almeno decente, mettendola a riparo dall’automatica riproposizione delle precarietà lavorative attuali e riducendo l’ansia che induce risparmi eccessivi, stimolerebbe comportamenti più favorevoli alla crescita del reddito (attuale e futuro) da cui poter attingere anche il finanziamento delle pensioni (attuali e future). 

Il sistema pensionistico richiede interventi più significativi e innovativi rispetto alla logica dell’austerità che ha dominato negli ultimi decenni. Occorre riconoscere una contribuzione figurativa ai lavoratori involontariamente disoccupati per ridurre strutturalmente le conseguenze negative sulle loro pensioni derivanti dalla attuale precarietà del modo del lavoro; ciò, peraltro, non graverebbe sul bilancio pubblico attuale e offrirebbe le maggiori certezze favorevoli alla crescita e ai bilanci pubblici anche futuri. E’ utile e giusto dare a ciascun lavoratore elasticità di scelta dell’età di pensionamento (e della prestazione maturata) in un arco temporale variabile anche in relazione alle mansioni svolte; questo grado di libertà (peraltro inizialmente previsto nella riforma del 1995) nel sistema contributivo non avrebbe effetti sul bilancio previdenziale di medio periodo (un anticipo del pensionamento e un maggior numero atteso di annualità delle prestazioni ricevute sarebbe compensato dall’adeguamento attuariale del loro valore unitario); anche questa misura contribuirebbe a favorire le sicurezze personali e, quindi, gli equilibri economici.

Il sistema produttivo e quello previdenziale sono strettamente collegati; il superamento della visione macroeconomica rigorista imposto dal suo fallimento richiede che si proceda in modo corrispondente anche nel sistema pensionistico. Ecco perché è necessario smetterla con i rattoppi di una riforma tecnicamente sbagliata inserita dieci anni fa in un disegno di politica economico-sociale dimostratosi disastroso che, per di più, alimenta immotivate e pericolose contrapposizioni generazionali a danno della coesione sociale che ricordano i capponi di Renzo.

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Vi piace l'Unione europea? Vi piace il PNRR? Beccatevi la riforma delle pensioni - Thomas Fazi

 

In questi giorni molti - sindacati in primis - si stanno scandalizzando per la riforma delle pensioni di Draghi che innalza ulteriormente l'età pensionabile, con l'obiettivo ultimo di farci sgobbare tutti per un salario da fame finché non crepiamo.

Ci fa piacere vedere che i sindacati e tanti sinceri progressisti, mentre combattono il ritorno del fascismo, annuncino di voler dare battaglia anche su questioni che riguardano effettivamente la vita e la morte dei lavoratori.

Lascia un po' interdetti, semmai, la reazione sorpresa di molti. Così come il fatto che molti di quelli che oggi cascano dalle nuvole e annunciano barricate sono gli stessi - a partire dai sindacati confederali - che da un anno a questa parte profetizzano le sorti magnifiche e progressive del PNRR e dei «fiumi di soldi in arrivo dall'Europa» come «occasione storica per l'Italia».

Peccato che è lo stesso PNRR stilato dal governo - che, sospetto, nessuno dei suoi cantori abbia effettivamente letto - a ricordarci, a pagina 25, che l'erogazione dei fondi europei è soggetta alle Raccomandazioni specifiche per paese (country-specific recommendations) della Commissione europea, che abbracciano praticamente ogni aspetto della politica economica dei paesi membri: politica fiscale, mercato del lavoro, welfare, pensioni ecc.

Ed è sempre il PNRR a ricordarci che tra le ultime Raccomandazioni [leggi diktat] della Commissione europea all'Italia - la cui implementazione è vincolante per avere accesso ai fondi - spicca proprio quella di «attuare pienamente le passate riforme pensionistiche», ossia la Legge Fornero, «al fine di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica».

Che dire? Vi piace l'Unione europea? Vi piace il PNRR? Bene, adesso lavorate finché non crepate. Perché è questo che ci chiede (ordina) l'Europa. D'altronde, quando l'Europa chiede (ordina), il sincero progressista ubbidisce. 

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Pensioni: il lavoro infame di CgilCislUil - Sergio Scorza

Per quanto riguarda le pensioni l’impegno del governo e ritornare in pieno al sistema contributivo”. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri che ha approvato la legge di bilancio.

E come al solito, su un tema delicato qual’è quello delle pensioni perché va ad incidere sulle condizioni di vita di decine di milioni di persone, assistiamo, per l’ennesima volta, alle indecenti sceneggiate delle tre maggiori confederazioni sindacali.

Si, perché, a proposito delle manovre in corso, in questi giorni, sulle pensioni, andrebbe ricordato ai più giovani che l’idea di cambiare il metodo di calcolo da “retributivo” a “contributivo” con la legge Dini del 1995, in vigore dal 1° gennaio 1996, fu dei proprio dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil.

Una legge che segnò la fine del sistema previdenziale italiano solidale che garantiva pensioni dignitose a tutti. Basti dire che la proposta di Berlusconi di 2 anni prima che prevedeva “soltanto” di diminuire il coefficiente di ogni anno di anzianità, era, senza alcun dubbio, migliore.

Il calcolo contributivo, infatti, non si basa sugli ultimi stipendi o sulla media delle retribuzioni percepite come il sistema retributivo, ma sui contributi effettivamente versati nel corso dell’attività lavorativa, rivalutati e trasformati in rendita da un coefficiente che aumenta all’aumentare dell’età pensionabile.

Un calcolo che penalizza fortemente le categorie più povere, non prevedendo più nessun meccanismo solidaristico di compensazione. Di fatto, una poderosa spinta alla privatizzazione di tutto il sistema previdenziale pubblico che viene così trasformato progressivamente in ente che elargisce solo sussidi caritatevoli per i più poveri.

E quale fu il movente? Semplice: con l’entrata in vigore della riforma Dini (legge 335/1995) furono introdotti i fondi pensione cogestiti da assicurazioni e sindacati con la previsione di consigli di amministrazione “chiusi”, ovvero con dentro i sindacalisti (i così detti “enti bilaterali“, ovvero, organismi paritetici costituiti da associazioni padronali e sindacati dei lavoratori).

Sul punto Cgil Cisl e Uil non hanno mica cambiato idea e lo hanno chiaramente ribadito in questi giorni come da dichiarazioni riportate dal quotidiano il manifesto del 28 ottobre 2021(nel riquadro).

Sappiano, dunque, chi devono ringraziare i lavoratori più giovani (tirati in ballo continuamente solo per aizzarli contro i più anziani) i quali, alla fine della loro infinita vita lavorativa (di mezzo tanti lavori a termine), percepiranno importi pensionistici da fame proprio grazie a quella riforma.

Una norma sciagurata che introdusse il famigerato “calcolo contributivo” proprio per ridurre drasticamente gli importi e spingere così i lavoratori a devolvere la propria indennità di fine rapporto in favore di una pensione integrativa privata.

Da allora, le sedi sindacali si sono trasformate, infatti, in dependance di alcuni grandi gruppi assicurativi ed i funzionari sindacali in veri e propri brokers sempre a caccia di nuovi clienti.

 

Ma la cosa ancora più ignobile è che la svendita del sistema pensionistico pubblico del nostro paese fu ripagata ai traditori con una legge del 1996 che consente ancora oggi ai dirigenti sindacali italiani apicali di andare in pensione con il calcolo retributivo migliore del mondo: quello che consente di calcolare la pensione sull’ultimo mese di retribuzione percepito.

Ecco come si spiega, a titolo esemplificativo, una pensione stratosferica come quella dell’ex segretario della CISL Bonanni che ammonta a 336mila euro l’anno, ovvero, la stessa cifra che percepisce il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, o, per restare in Europa, il doppio esatto dello stipendio annuale del presidente francese Emmanuel Macron.

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