Pensioni, la riforma Fornero penalizza tutti - Felice Roberto Pizzuti
Nel
dibattito sulle pensioni suscitato dalla proposta governativa inserita nella
legge di bilancio ci sono due equivoci di fondo: il primo è che la normalità
cui si dovrebbe tornare sarebbe l’assetto stabilito dalla riforma Fornero nel
2011; il secondo è che essa favorirebbe i giovani.
Nei dieci
anni trascorsi, specialmente dopo la crisi pandemica, i fatti hanno mostrato
chiaramente i danni creati dalla filosofia della “austerità espansiva” seguita
dal governo Monti e dalla sua applicazione al sistema pensionistico. Prima
ancora che la riforma Fornero venisse applicata, furono subito segnalate le sue
incongruità anche tecniche che davano luogo a fenomeni economicamente e
socialmente insostenibili come la creazione di una nuova penosa figura, quella
degli “esodati”, cioè persone che improvvisamente venivano a trovarsi senza
salario e senza pensione, un risultato decisamente estraneo ai compiti che dovrebbero
essere svolti dalla previdenza sociale.
Naturalmente,
bisognò correre subito ai ripari e si procedete alle cosiddette misure di
salvaguardia; nel corso degli anni successivi ne sono state fatte nove,
portando a circa 250.000 la platea dei lavoratori “salvaguardati” dalla
“normalità” della legge Fornero. Questa, peraltro, era stata giustificata
sostenendo pure che alzando l’età di pensionamento sarebbe aumentati gli attivi
e gli occupati; ma mentre il primo effetto era statisticamente ovvio, il secondo
era una colpevole illusione. Infatti l’occupazione non aumentò poiché proprio
le politiche governative restrittive ostacolarono la crescita di un sistema già
molto depresso. Quanto all’effetto sui giovani, trattenere forzosamente in
attività chi stava per andare in pensione, inevitabilmente ridusse i posti
disponibili per i nuovi ingressi nel mondo del lavoro; cosicché, oltre a
penalizzare le aspirazioni comprensibili e complementari degli anziani e dei
giovani, si ridusse il turnover e la sua
normale spinta all’innovazione e alla dinamica della produttività.
“Quota 100”
è stato un altro tentativo di compensare i problemi generati dalla riforma
Fornero, ma è stata una misura sopravalutata sia dai suoi sostenitori sia dai
suoi detrattori. In una fase di grande precarietà economico-sociale, la
sensibile riduzione di reddito che già si verifica nel passaggio dalla
retribuzione alla pensione, accentuata dalla penalizzazione per l’anticipazione
del pensionamento nel sistema contributivo, ha consentito solo ai lavoratori
più benestanti, prevalentemente maschi, di usufruire di “Quota 100”. Questa,
dunque, da un lato, si è rivelata una misura inadeguata e discriminante
rispetto all’obiettivo, d’altro lato, è stata meno costosa di quanto temuto. Ma se oggi, alla prevista scadenza del triennio di
applicazione di “Quota 100”, l’intervento del Governo si riduce alla sua
progressiva eliminazione tramite “quote” intermedie (102, 103, …) per tornare
alla legge Fornero, non solo non si realizza il bene dei giovani falsamente
decantato, ma si continuano ad ignorare i problemi strutturali sempre più
urgenti del nostro sistema previdenziale e dei suoi effetti negativi sui
complessivi equilibri economico-sociali.
Da anni,
nel Rapporto sullo stato
sociale redatto in Sapienza viene richiamata
l’attenzione sulla “bomba sociale” in arrivo: quasi il 60% di quanti hanno
iniziato a lavorare a metà degli anni ’90, a causa dei salari bassi e instabili
finora avuti, permanendo gli assetti del sistema previdenziale e del mercato
del lavoro, matureranno una pensione inferiore alla soglia di povertà. Alle
stesse generazioni che nell’età attiva stanno subendo le conseguenze di
politiche economico-sociali controproducenti che alimentano la precarietà di
vita, pregiudicando perfino la loro possibilità di fare figli, si sta
prospettando una anzianità con condizioni di vita ancora peggiori.
Preoccuparsi
per i giovani (e non solo) significa offrirgli una maggiore stabilità, che
sarebbe favorita non solo da maggiori e migliori opportunità di lavoro e di
realizzazione oggi, ma anche da prospettive di sicurezza per il domani, tenendo in conto che le prime e le
seconde interagiscono tra di loro. Assicurare ai giovani d’oggi una anzianità
almeno decente, mettendola a riparo dall’automatica riproposizione delle
precarietà lavorative attuali e riducendo l’ansia che induce risparmi
eccessivi, stimolerebbe comportamenti più favorevoli alla crescita del reddito
(attuale e futuro) da cui poter attingere anche il finanziamento delle pensioni
(attuali e future).
Il sistema
pensionistico richiede interventi più significativi e innovativi rispetto alla
logica dell’austerità che ha dominato negli ultimi decenni. Occorre riconoscere
una contribuzione figurativa ai lavoratori involontariamente disoccupati per
ridurre strutturalmente le conseguenze negative sulle loro pensioni derivanti
dalla attuale precarietà del modo del lavoro; ciò, peraltro, non graverebbe sul
bilancio pubblico attuale e offrirebbe le maggiori certezze favorevoli alla
crescita e ai bilanci pubblici anche futuri. E’ utile e giusto dare a ciascun
lavoratore elasticità di scelta dell’età di pensionamento (e della prestazione
maturata) in un arco temporale variabile anche in relazione alle mansioni
svolte; questo grado di libertà (peraltro inizialmente previsto nella riforma
del 1995) nel sistema contributivo non avrebbe effetti sul bilancio
previdenziale di medio periodo (un anticipo del pensionamento e un maggior
numero atteso di annualità delle prestazioni ricevute sarebbe compensato
dall’adeguamento attuariale del loro valore unitario); anche questa misura
contribuirebbe a favorire le sicurezze personali e, quindi, gli equilibri
economici.
Il sistema
produttivo e quello previdenziale sono strettamente collegati; il superamento della
visione macroeconomica rigorista imposto dal suo fallimento richiede che si
proceda in modo corrispondente anche nel sistema pensionistico. Ecco perché è
necessario smetterla con i rattoppi di una riforma tecnicamente sbagliata
inserita dieci anni fa in un disegno di politica economico-sociale dimostratosi
disastroso che, per di più, alimenta immotivate e pericolose contrapposizioni
generazionali a danno della coesione sociale che ricordano i capponi di Renzo.
Vi piace
l'Unione europea? Vi piace il PNRR? Beccatevi la riforma delle pensioni - Thomas Fazi
In questi giorni molti - sindacati in primis - si stanno scandalizzando per
la riforma delle pensioni di Draghi che innalza ulteriormente l'età
pensionabile, con l'obiettivo ultimo di farci sgobbare tutti per un salario da
fame finché non crepiamo.
Ci fa piacere vedere che i sindacati e tanti sinceri progressisti, mentre
combattono il ritorno del fascismo, annuncino di voler dare battaglia anche su
questioni che riguardano effettivamente la vita e la morte dei lavoratori.
Lascia un po' interdetti, semmai, la reazione sorpresa di molti. Così come
il fatto che molti di quelli che oggi cascano dalle nuvole e annunciano
barricate sono gli stessi - a partire dai sindacati confederali - che da un
anno a questa parte profetizzano le sorti magnifiche e progressive del PNRR e
dei «fiumi di soldi in arrivo dall'Europa» come «occasione storica per
l'Italia».
Peccato che è lo stesso PNRR stilato dal governo - che, sospetto, nessuno
dei suoi cantori abbia effettivamente letto - a ricordarci, a pagina 25, che
l'erogazione dei fondi europei è soggetta alle Raccomandazioni specifiche per
paese (country-specific recommendations) della Commissione europea, che
abbracciano praticamente ogni aspetto della politica economica dei paesi membri:
politica fiscale, mercato del lavoro, welfare, pensioni ecc.
Ed è sempre il PNRR a ricordarci che tra le ultime Raccomandazioni [leggi
diktat] della Commissione europea all'Italia - la cui implementazione è
vincolante per avere accesso ai fondi - spicca proprio quella di «attuare
pienamente le passate riforme pensionistiche», ossia la Legge Fornero, «al fine
di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica».
Che dire? Vi piace l'Unione europea? Vi piace il PNRR? Bene, adesso
lavorate finché non crepate. Perché è questo che ci chiede (ordina) l'Europa.
D'altronde, quando l'Europa chiede (ordina), il sincero progressista
ubbidisce.
Pensioni: il lavoro infame di
CgilCislUil - Sergio
Scorza
“Per
quanto riguarda le pensioni l’impegno del governo e ritornare in pieno al
sistema contributivo”. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Mario
Draghi, nel corso della conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri
che ha approvato la legge di bilancio.
E come al
solito, su un tema delicato qual’è quello delle pensioni perché va ad incidere
sulle condizioni di vita di decine di milioni di persone, assistiamo, per
l’ennesima volta, alle indecenti sceneggiate delle tre maggiori confederazioni
sindacali.
Si, perché,
a proposito delle manovre in corso, in questi giorni, sulle pensioni, andrebbe
ricordato ai più giovani che l’idea di cambiare il metodo di calcolo da
“retributivo” a “contributivo” con la legge Dini del 1995, in vigore
dal 1° gennaio 1996, fu dei proprio dei sindacati confederali Cgil,
Cisl e Uil.
Una legge
che segnò la fine del sistema previdenziale italiano solidale che garantiva
pensioni dignitose a tutti. Basti dire che la proposta di Berlusconi di 2 anni
prima che prevedeva “soltanto” di diminuire il coefficiente di ogni anno di
anzianità, era, senza alcun dubbio, migliore.
Il calcolo
contributivo, infatti, non si basa sugli ultimi stipendi o sulla media delle
retribuzioni percepite come il sistema retributivo, ma sui contributi
effettivamente versati nel corso dell’attività lavorativa, rivalutati e
trasformati in rendita da un coefficiente che aumenta all’aumentare dell’età
pensionabile.
Un calcolo
che penalizza fortemente le categorie più povere, non prevedendo più nessun
meccanismo solidaristico di compensazione. Di fatto, una poderosa spinta alla
privatizzazione di tutto il sistema previdenziale pubblico che viene così
trasformato progressivamente in ente che elargisce solo sussidi caritatevoli
per i più poveri.
E quale fu
il movente? Semplice: con l’entrata in vigore della riforma Dini (legge
335/1995) furono introdotti i fondi pensione cogestiti da assicurazioni e
sindacati con la previsione di consigli di amministrazione “chiusi”, ovvero con
dentro i sindacalisti (i così detti “enti bilaterali“, ovvero, organismi
paritetici costituiti da associazioni padronali e sindacati dei lavoratori).
Sul punto
Cgil Cisl e Uil non hanno mica cambiato idea e lo hanno chiaramente ribadito in
questi giorni come da dichiarazioni riportate dal quotidiano il
manifesto del 28 ottobre 2021(nel riquadro).
Sappiano,
dunque, chi devono ringraziare i lavoratori più giovani (tirati in ballo
continuamente solo per aizzarli contro i più anziani) i quali, alla fine della
loro infinita vita lavorativa (di mezzo tanti lavori a termine), percepiranno
importi pensionistici da fame proprio grazie a quella riforma.
Una norma
sciagurata che introdusse il famigerato “calcolo contributivo” proprio per
ridurre drasticamente gli importi e spingere così i lavoratori a devolvere la
propria indennità di fine rapporto in favore di una pensione integrativa
privata.
Da allora,
le sedi sindacali si sono trasformate, infatti, in dependance di alcuni grandi gruppi
assicurativi ed i funzionari sindacali in veri e propri brokers sempre a caccia
di nuovi clienti.
Ma la cosa
ancora più ignobile è che la svendita del sistema pensionistico pubblico del
nostro paese fu ripagata ai traditori con una legge del 1996 che
consente ancora oggi ai dirigenti sindacali italiani apicali di andare in
pensione con il calcolo retributivo migliore del mondo: quello che consente
di calcolare la pensione sull’ultimo mese di retribuzione percepito.
Ecco come si
spiega, a titolo esemplificativo, una pensione stratosferica come quella
dell’ex segretario della CISL Bonanni che ammonta a 336mila euro l’anno,
ovvero, la stessa cifra che percepisce il presidente degli Stati Uniti, Joe
Biden, o, per restare in Europa, il doppio esatto dello stipendio annuale del
presidente francese Emmanuel Macron.
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