La prima lettera Nawal la scrisse bambina e la
indirizzò a Dio. Gli chiedeva conto dei torti compiuti in nome suo e lo minacciava: se
continuerai ad essere ingiusto, non potrò credere in te.
La ribellione ce l’aveva nel sangue. Sua nonna era una rivoluzionaria, illetterata,
analfabeta ma dissidente. E anche lei è diventata una dissidente. Quando andava
a scuola percorreva tutta la strada correndo per sfuggire agli sguardi degli
uomini e alle pietre dei bambini. Gliele lanciavano semplicemente perché era una femmina e si trovava per strada
invece che a casa. Ma lei un giorno raccolse quelle pietre e gliele scagliò
contro con la stessa rabbia, la stessa violenza. Quando i ragazzini videro che
sapeva essere violenta proprio come loro, si spaventarono. Da quel giorno non
le tirarono più pietre. Capì che essere una dissidente, utilizzare l’aggressività
e attaccare le persone dalle quali si era attaccati, era l’unico modo per
impedire di essere sottomessa.
La mia memoria resta una pagina vuota
Sin dall’infanzia
Una montagna nascosta sott’acqua
Con un solo occhio che mi fissa
L’occhio di Dio o Satana
Perché sono una cosa sola
E io li temo entrambi
La ribellione l’aveva nel sangue, Nawal, ma quella genetica, innata, non
bastava: doveva sommarsi a quella acquisita con i libri, le letture, il
pensiero. Da ragazzina cominciò a scrivere un diario segreto per
cercare di tirar fuori la rabbia e la frustrazione che provava per ciò che ogni
giorno viveva. Studiava tanto e a scuola era molto brava. Suo fratello più
grande, al contrario, era pigro e svogliato. Eppure, aveva molti più doni
e privilegi di lei e durante le feste riceveva, come
gli altri fratellini, 2 monete, mentre a lei ne spettava solo una. Nawal si
arrabbiava e chiedeva perché. Le veniva risposto che era stato dio a dirlo: una femmina vale la metà di un maschio.
Quando aveva 10 anni la sua famiglia decise che avrebbe dovuto sposarsi.
Sua cugina, anche lei di 10 anni, si era sposata poco tempo prima. Nawal
bambina la ricorda, vestita di bianco, piangere il giorno del suo matrimonio.
Anche le altre donne piangevano e vedeva nei loro occhi la tristezza del
ricordo della loro prima notte. Dio diceva che la moglie
doveva assaggiare il bastone del marito già dal primo giorno.
Nawal ricorda le urla della cuginetta, per il dolore del bastone e della deflorazione che il marito compì a mani nude, per
dare prova alla comunità di aver sposato una bambina pura. Nawal utilizzò, per
allontanare il suo promesso sposo, la stessa violenza che aveva utilizzato con
i bambini sulla strada per la scuola. E poi studiava,
continuava a studiare senza sosta. Sua madre volle continuare a garantirle
un’istruzione anche quando i soldi in casa erano pochi e il padre era fiero di
avere una figlia tanto diligente. Ma i pretendenti non apprezzavano una
ragazzina che preferiva avere in mano una penna invece che un mestolo o un
manico di scopa. “Fu il saper leggere e scrivere che mi salvò
dai potenziali mariti”.
La mamma, per prima, le aveva insegnato l’alfabeto e poi a scrivere il suo
nome. Ne andava molto fiera e le sembrò naturale, quando il primo anno la
maestra le chiese di scrivere per esteso come si chiamava, mettere vicino a
Nawal il nome di sua madre, Zaynab. Ma la maestra la sgridò, le disse di
cancellarlo e sostituirlo con quello di suo padre e di suo nonno, El
Saadawi. Non era solo il nome di sua madre a dover essere cancellato.
Alle bambine veniva insegnato a vergognarsi del proprio corpo,
della propria pelle, delle gambe, dei seni, del ciclo mestruale, del
clitoride. All’età di 6-7 anni arrivò la daya e glielo
tagliò via con una lametta. La madre non aiutò Nawal e anzi era tra
le donne che la tenevano ferma, con le gambe e le braccia larghe, così come sua
madre aveva fatto con lei molti anni prima. Nawal non dormì per molte notti,
aspettandosi che la daya ritornasse per tagliarle via un
altro pezzo del suo corpo, un altro pezzo che potesse essere vergognoso agli occhi di Dio.
Poi dimenticò quell’evento, lo rimosse, sepolto nella memoria per tanti
anni. Un giorno, però, quando da studentessa di medicina prese a visitare le
donne che erano state circoncise, cominciò a ricordare, l’inconscio sputò fuori
quello che le pareva essere solo un incubo. Così iniziò a lottare contro quella terribile pratica
di mutilazione. Allora tutti le si misero contro: il ministro della salute, i
religiosi, anche i suoi colleghi medici. Cristiani, ebrei, musulmani
l’accusavano di essere contro dio.
“Nel corpo, da qualche parte appena
sotto il cuore, nell’incavo profondo tra le costole, sentivo un’energia, una
vitalità imprigionata. Di che cosa era fatta? Gioia, tristezza, collera, il
sogno di essere libera, di librarmi oltre i muri della cucina, della nostra
casa, della scuola. Ma per andare dove? […] La mattina, al momento del
risveglio, guardavo mia sorella Leila o le altre negli occhi alla ricerca di
quella cosa, del sogno che mi turbava la notte: ma i loro sguardi erano sempre
limpidi e rilassati, senza tracce d’ansia, né di qualcosa che ne avesse potuto
disturbare il sonno. Anche a scuola guardavo le compagne alla ricerca di uno
solo di questi segni e anche dopo, all’Università, alla facoltà di medicina,
facevo lo stesso con le ragazze, le mie colleghe o quelle che esercitavano la
professione. Ovunque andassi, continuavo a cercare, a guardare gli occhi delle
altre persone sperando di ritrovare quel sogno”.
Con la pubblicazione, nel 1971 del volume Donne e sesso, lo scontro con il potere e con il sistema che la
circondava fu formalizzato: Nawal venne allontanata dal Ministero della Sanità
e costretta a lasciare la rivista per cui scriveva e sulla quale aveva più
volte denunciato la pratica della circoncisione genitale femminile. Anni dopo
Nawal, quando ricorderà questo periodo, dirà che la scelta del governo egiziano
fu per lei quasi una liberazione: le permise di fare quello che realmente
voleva fare. E quello che Nawal voleva fare era scrivere,
parlare, organizzarsi e manifestare per i diritti delle donne.
Lavorò come consulente delle Nazioni Unite per
il Programma per le Donne in Africa e Medio Oriente. Intanto, gli arresti dei contestatori e degli avversari
politici del presidente egiziano Anwar al-Sadat si moltiplicavano e nel 1981
toccò anche a Nawal El Saadawi, fermata per crimini contro
lo Stato. In prigione non le davano la carta igienica, preoccupati
che potesse utilizzarla per scrivere. Ma lei trovò comunque il modo di farlo.
Si è ritrovata a combattere tutt’insieme
l’ignoranza, il patriarcato, la religione e la crudeltà. Ha cominciato a farlo
scrivendo e poi organizzandosi con le altre donne. Era certa che
l’organizzazione fosse essenziale e così nel 1982 ha fondato l’Arab Women’s Solidarity Assocation, una associazione di
donne che si definivano storiche, socialiste e femministe. Grazie
alla storia sapevano che l’oppressione delle donne esisteva in ogni epoca e in
ogni luogo. Erano certe che il capitalismo e il patriarcato
fossero strettamente connessi e si opponevano alla dominazione dell’uomo nella scienza, nella
cultura, nell’economia, nella politica. Era un’associazione di donne ma formata
per il 40% da uomini: anche loro si sentivano vittime della società patriarcale e volevano sovvertirla.
L’associazione venne dichiarata fuori legge
10 anni dopo, poco prima che Nawal al-Saadawi venisse prima di nuovo incarcerata e cominciasse poi il
suo esilio negli Stati Uniti, quando fu emessa la sua condanna a morte da parte di un gruppo fondamentalista
religioso. Anche da lì continuò a parlare dell’oppressione economica e
militare dei popoli occidentali su quelli africani e orientali,
oppressione che affonda le sue radici, da sempre, nelle ragioni di interesse
economico, e che non ha quindi nulla a che fare con quello “scontro di civiltà” molte volte richiamato e utilizzato
per giustificare sopraffazione e schiavitù. Nel 2002
tentarono di sottoporre Nawal e suo marito al divorzio coatto: la
ferma opposizione del marito e la mobilitazione internazionale riuscirono ad
impedirlo. Nel 2004 si candidò alle elezioni egiziane ma ritirò la
partecipazione quando capì che non le sarebbe stato permesso di fare campagna
elettorale né di vincere. È stata denunciata più
volte per apostasia e per eresia, rispondendo
alle accuse in tribunale, dove vinse le cause che la vedevano imputata.
Ha scritto molti libri e ricevuto altrettanti premi. Scrivere le veniva
naturale “come parlare o respirare”, non poteva farne a meno. Ci ha lasciato,
così, un patrimonio grande di civiltà, esperienza, impegno
civile, ma soprattutto di immensa forza e umanità.
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