La sociologa
ha presentato la relazione insieme al ministro del Lavoro Orlando, che non ha
nascosto dubbi sul fatto che sia possibile recepire le indicazioni in manovra.
Tra i punti divisivi per la maggioranza c'è la riduzione del periodo di
residenza in Italia necessario per aver diritto all'aiuto. Un assist potrebbe
arrivare dalla Consulta, che sta per pronunciarsi sulla costituzionalità del
requisito dei 10 anni. Il comitato intanto critica alcune modifiche previste
dal governo: "Palesemente assurdo e punitivo" imporre di accettare la
seconda offerta di lavoro anche se è all'altro capo del Paese
Meno paletti per i cittadini stanieri, aiuti più generosi per le famiglie numerose, abolizione dell’obbligo di spendere l’intero aiuto entro il mese
successivo all’erogazione e cumulo parziale tra
reddito da lavoro e sussidio, in modo da non penalizzare chi accetta un’offerta. Ma anche
un’apertura alla necessità di considerare “congrue” offerte di lavoro di
brevissima durata. A patto che si eliminino le “disposizioni palesemente assurde e inutilmente punitive”
inserite in legge di Bilancio stando alle quali la
seconda proposta va accettata anche se è all’altro capo del Paese. Sono alcune delle dieci
proposte del comitato di valutazione del reddito di
cittadinanza istituito dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e guidato da Chiara Saraceno. L’attesa relazione è stata
presentata dalla sociologa insieme all’esponente dem, che si è detto
personalmente d’accordo con la riforma “organica e ambiziosa”
descritta nel documento ma non ha nascosto di avere molti dubbi sul fatto che il governo riesca a recepire
le indicazioni degli esperti. “È una base da cui il Parlamento può partire per
riflessioni e ulteriori integrazioni”, ha chiosato, ma ci sono modifiche “che
hanno una valenza di buon senso e possono
essere recepite rapidamente” mentre “su altre, con valenza politica più
impattante, le forze politiche faranno le loro valutazioni”.
Tra i punti evidentemente divisivi per la maggioranza c’è il dimezzamento del periodo di residenza in
Italia richiesto agli stranieri per aver diritto all’aiuto. Ma un assist
potrebbe arrivare dalla Corte costituzionale, proprio
oggi in udienza per valutare la compatibilità del limite attuale di 10 anni con
la Carta. “Spero che questo lavoro contribuisca a risanare il dibattito sul
reddito”, ha commentato dal canto suo Saraceno, che si è detta dispiaciuta per il fatto che nel
decidere le modifiche già inserite in manovra il governo non
abbia tenuto conto dei dati e degli orientamenti degli esperti: “A me sembra
che non abbia riformato il Reddito ma abbia semplicemente irrigidito un po’ i controlli e in parte anche le
condizioni di accesso”. Il rapporto si conclude non a caso con una
considerazione amara: “Ovviamente, questo lavoro, e lo stesso
Comitato Scientifico, hanno un senso non puramente di studio solo
a condizione che i decisori politici ne facciano uso nel prendere le loro
decisioni”.
1 – Non discriminare i cittadini
stranieri – Il comitato, di cui fanno parte l’ideatore dell’Alleanza contro la
povertà in Italia Cristiano Gori, il docente di
Politica economica ed esperto di disuguaglianze Maurizio
Franzini, il capo della direzione centrale Studi e Ricerche
dell’Inps Daniele Checchi e la sociologa
dell’ufficio Politiche sociali della Caritas italiana Nunzia De Capite, il professore di Sociologia Economica
alla Sapienza Andrea Ciarini e la docente di
diritto del lavoro Paola Bozzao, ha rilevato
cinque tipi di criticità da affrontare per
rendere il sussidio più equo e più efficace. Si tratta dei criteri di accesso,
della difformità sostegno a seconda dell’ampiezza e composizione della
famiglia, dei requisiti legati a reddito e ricchezza e dell’implementazione dei
patti per il lavoro e per l’inclusione sociale. La prima proposta è quella
di ridurre il periodo minimo di residenza in Italia richiesto ai cittadini extracomunitari per avere diritto al
reddito da 10 anni a 5. Gli esperti avrebbero preferito un
abbassamento più drastico, a due anni, ma “in subordine” ritengono sia
indispensabile almeno ridurre il requisito al tempo necessario per ottenere
lo status di soggiornante di lungo periodo. Un
intervento di buon senso, considerato che la soglia attuale esclude per esempio
anche i titolari di protezione internazionale. E già all’indomani del varo del
reddito il Servizio
studi del Senato aveva rilevato il rischio di incostituzionalità e ad ore la
Consulta si pronuncerà proprio su questo. “Nessun Paese europeo richiede un
periodo di residenza così lungo”, ha sottolineato Saraceno, spiegando che la
modifica “costerebbe circa 300 milioni in più all’anno” e consentirebbe di raggiungere 68mila persone in più.
2 – Un reddito a misura di famiglie
numerose – La seconda modifica che gli esperti considerano necessaria riguarda la
cosiddetta scala di equivalenza: l’obiettivo è superare il metodo attuale
che penalizza le famiglie numerose, che sono più facilmente
escluse dal beneficio (perché la soglia di accesso è meno generosa per i nuclei
con minorenni) e a cui spetta una cifra ingiustamente bassa rispetto
a quella garantita ai single perché a ogni minore viene attribuito un coefficiente
pari a solo 0,2, contro lo 0,4 per i maggiorenni. “Chiunque abbia un figlio
adolescente ha sicuramente qualche dubbio sul fatto che mangi meno di un adulto
o richieda una spesa più bassa, per esempio, per le scarpe, visto che gli
crescono i piedi…”, ha commentato Saraceno. Ed è tanto più un paradosso in un Paese in cui la diffusione della
povertà tra i minorenni è più alta che tra adulti e anziani. La proposta allora
è quella di portare il valore massimo a 2,8 (2,9 in caso di componenti con
disabilità) dal 2,1 attuale e ridurre la soglia di partenza
per i nuclei di una persona da 6000 a 5.400 euro. In caso di
decadenza dal diritto al beneficio di un componente della famiglia bisognerebbe
poi prevedere che la decadenza valga solo per lui e non per l’intero nucleo.
L’implementazione “sarebbe quasi a costo zero”, secondo la Saraceno, perché la
riforma “si intreccia con l’entrata a regime dell’assegno unico” per i
nuclei con figli. Se le proposte saranno accettate il beneficio massimo mensile
ottenibile da una famiglia di sei componenti che vive in affitto potrebbe
passare da 1.330 euro al mese a 1.540.
3 – Più equità sui costi dell’abitare – La terza
proposta consiste nel differenziare il contributo per l’affitto in
base alla dimensione del nucleo familiare, riducendolo per i nuclei formati da
una sola persona e incrementandolo al crescere del numero dei componenti. La
normativa attuale prevede una quota di integrazione al reddito fino a un
massimo di 500 euro a cui si somma la componente affitto, fino a 280 euro. Ma questa seconda parte “è uguale per tutte
le famiglie, indipendentemente dalla loro dimensione”. Di conseguenza, spiega
il comitato, “si produce un ulteriore svantaggio per i nuclei numerosi. I dati,
infatti, mostrano che sono soprattutto le famiglie di maggiore ampiezza quelle
che non riescono a coprire per intero il costo della locazione con il
contributo”.
4 – Non penalizzare chi lavora – E’ uno dei punti
cruciali in vista dell’inserimento di quella fetta di percettori – comunque una
minoranza – che è in grado di lavorare. Oggi ai beneficiari “lavorare non
conviene”, è la considerazione oggettiva del comitato. Questo perché per ogni
100 euro di reddito da lavoro, 80 vengono decurtati dall’ammontare del
sussidio. “Di fatto è come prevedere una tassazione dell’80% sul nuovo
reddito”, spiegano gli esperti. E “entro un anno”, quando i nuovi introiti
entrano nell’Isee, “questa percentuale salirà al 100%”. Di qui la necessità di
consentire un cumulo parziale tra reddito da lavoro e sussidio, in
modo da non penalizzare chi accetta un’offerta. La proposta è
di considerare il reddito da lavoro solo per il 60%
5 – Considerare il patrimonio in modo
flessibile – Utilizzare una soglia fissa di patrimonio (6mila
euro in caso di un solo componente) comporta l’esclusione tout court dall’aiuto
di chi supera di pochissimo quel tetto, sottolinea il comitato. Inoltre, visto
che l’ammontare del sussidio dipende solo dal reddito, si creano forti iniquità
tra percettori che possono contare su “cuscinetti” di risparmio di entità molto
diversa. La proposta dunque è quella di considerare il patrimonio mobiliare
come solo una delle tre fonti – insieme a reddito familiare e RdC – che
contribuisce a determinare la capacità di spesa della famiglia, prevedere che
fino a 4mila euro non siano liquidabili perché sono una riserva a cui attingere
in caso di necessità e calcolare il sussidio come differenza tra soglia di
reddito che si vuole garantire e somma di reddito disponibile e quota di
patrimonio liquidabile.
6 – No all’obbligo di dichiarazione di
disponibilità al lavoro per tutti – La dichiarazione di immediata
disponibilità al lavoro dovrebbe essere chiesta solo dopo che i beneficiari
occupabili sono stati indirizzati ai Centri per l’impiego. Oggi, tutti i
percettori devono firmarla “indipendentemente dal fatto che come singoli o come
famiglia siano poi effettivamente indirizzati ai Cpi o invece ai servizi
sociali”, spiega il comitato. Un obbligo che, per chi è indirizzato ai servizi
sociali, si sovrappone a quello di sottoscrivere il patto di inclusione. Cosa
che crea confusione e lascia molte persone in una sorta di limbo tra due istituti, imponendo un “inutile carico di lavoro ai Cpi che, se non
avvertiti per tempo dai servizi sociali della situazione di, più o meno
temporanea, inoccupabilità dei beneficiari, devono avviare, appunto, una
procedura di presa in carico”.
7 – Ridefinire i criteri di lavoro congruo -Perché una
proposta di lavoro sia congrua e quindi non rifiutabile dal punto di vista
temporale dovrebbe bastare, secondo il comitato, che il contratto sia di almeno un mese. Questo perché occorre
“incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare
ad entrarvi e fare esperienza”. In più va considerato che i settori in cui
potrebbero trovare un’occupazione i beneficiari del sussidio (edilizia, turismo, ristorazione, logistica) sono spesso
caratterizzati da una forte stagionalità. Di
conseguenza va anche modificata la definizione di retribuzione minima accettabile, rimodulandola – ma
questo era già previsto dalle bozze della manovra – in base all’orario di
lavoro per tenere conto anche di occupazioni part time. Sempre in quest’ottica,
spiega la relazione, si dovrebbe ritenere congruo un orario di lavoro non inferiore all’60% (contro l’80% attuale)
dell’orario a tempo pieno previsto nei contratti collettivi più
rappresentativi. Il Comitato propone in compenso di eliminare le “severe
disposizioni che, ai fini della congruità dell’offerta lavorativa, fissano,
dopo la prima offerta, il distanziamento del luogo di lavoro su tutto il
territorio nazionale, disposizioni palesemente assurde e
inutilmente punitive per lavori spesso a tempo parziale e con
compensi modesti”.
8 – Promuovere le assunzioni dei
percettori – Di conseguenza, l’incentivo alle imprese che
assumono i beneficiari del reddito deve valere anche nel caso di assunzioni
part time o con contratto a tempo determinato, se con orario pieno e di durata
almeno annuale. Bisogna infatti tener conto che il mercato del lavoro “non
sempre”, per usare un eufemismo, consente verosimilmente di puntare subito a un
assunzione stabile, “anche per chi non è, a differenza dei beneficiari di RdC,
in situazione di particolare fragilità. D’altra
parte, anche un contratto part-time o a tempo determinato lungo può essere
utile per ricominciare a lavorare e avviare un percorso che conduca, nel tempo,
verso una più solida configurazione contrattuale”. E va almeno temporaneamente
sospeso il requisito della presenza dell’offerta di lavoro sulla piattaforma dell’Anpal (questo è già
previsto nelle bozze della manovra).
9 – Rafforzare i patti per l’inclusione e
l’attuazione dei progetti di utilità collettiva – Come nel caso dei
patti per il lavoro, rileva il Comitato, “la difficoltà riscontrata
nell’attivazione dei patti per l’inclusione è largamente dovuta alla carenza di organico, particolarmente grave in
alcuni contesti, spesso quelli con un maggior numero di beneficiari”.
Difficoltà che hanno anche rallentato
anche l’attuazione dei Puc, i progetti di utilità collettiva promossi
dai Comuni, cui sarebbero tenuti a partecipare tutti i beneficiari adulti.
Occorre quindi rafforzare e formare l’organico dei servizi sociali comunali e
definire meglio il sistema di governance, oltre a valutare se “utilizzare
criteri di priorità generali e rigidi per coinvolgere i beneficiari nei Puc (i
componenti adulti della famiglia più giovani) sia il modo più adeguato per far
funzionare i progetti e per rafforzare le capacità delle persone”.
10 – Abolire l’obbligo di spendere
l’intero aiuto entro il mese successivo all’erogazione – L’ultima richiesta
riguarda l’obbligo di spendere l’intero reddito entro il mese
successivo alla percezione, pena decurtazioni, e il limite mensile di 100 euro (moltiplicato per la
scala di equivalenza se si tratta di una famiglia) ai prelievi di contante. Il
comitato rileva che questi paletti impediscono di risparmiare,
anche a scopo precauzionale, in vista di spese future. E questo è in contrasto
“con ogni principio di saggia gestione del
proprio bilancio”. Quanto ai vincoli all’utilizzo della carta, non solo
“limitano la libertà delle persone” ledendo il loro status di cittadini adulti e responsabili, ma suggeriscono “una
visione dei beneficiari come potenzialmente incapaci o
irresponsabili solo perché poveri“.
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