(ripreso da https://tempofertile.blogspot.com)
Un interessante dibattito rimbalza sulle colonne di “Sinistra in rete”,
attraverso una confutazione sulla quale torneremo[1],
muovendo da un libricino[2] disponibile
in rete della filosofa francese Valérie Gérard. La Gérard si interroga sulla
natura di quel movimento che ogni sabato batte le strade francesi contro il
pass sanitario e che apparentemente ha preso la staffetta lasciata dai Gilet
Gialli. La tesi della filosofa è che per giudicare un movimento non bisogna
tanto prestare attenzione alle idee, quanto ai discorsi ed alle pratiche
concrete. Ovvero agli atti ed agli affetti che mette in campo.
La tesi è quindi che il movimento in oggetto ha un segno diverso da
quello dei Gilet Gialli, e per alcuni versi opposto (con tutto
che alcuni leader dei GG sono presenti). Si tratterebbe infatti di un movimento
individualista e iper-liberista. In sostanza la mobilitazione contro il
pass sanitario, e contro la “società del controllo”, si muoverebbe in
continuità con ambienti che la nostra non esita a chiamare di estrema destra o
segue promotori disonesti di trattamenti inefficaci, no-vax, complottisti[3].
Un elemento che seduce la sinistra radicale è la critica del controllo sociale
sicuritario, oltre, ed è un altro tema, il tentativo di non lasciare la piazza.
O, come scrive, la pretesa di essere l’avanguardia illuminata che guida quelli
che non sanno quel che fanno.
Quel che la preoccupa “sono le linee di forza che acquisiscono importanza
nel campo politico e quello che questo movimento costituisce e
prefigura”. E la diagnosi è impietosa:
“Quello che viene
affermato è la libertà dell’individuo contro gli altri, la libertà
di essere contaminato e incidentalmente di contaminare gli altri, ma anche
quello di lasciare che il virus circoli, col rischio delle mutazioni e dunque
di divenire più pericoloso e di far durare più a lungo l’epidemia e
le restrizioni – e anche la disgregazione sociale – che le sono ovviamente
legate. È una libertà puramente egocentrica per la quale il
mondo può anche finire, ma le libertà puramente individuali non devono essere
toccate. Sono degli individui-monadi autarchici, imperi in un impero, e quello
che accade agli altri non gli interessa minimamente. È un discorso radicato in
una visione spenceriana della società in cui la gente sana, con delle buone
difese immunitarie, sopravviverà e tanto peggio per gli altri”.
Oppure si può anche riconoscere che alcune provenienze sono connesse ad
una naturopatia che non è radicata solo nelle posizioni della
sinistra (come ingenuamente si pensa), quanto anche della destra radicale.
Anche qui si fa strada una posizione che suona più o meno così: “se io da
sempre mi prendo cura di me non posso permettere che per colpa di altri (o per
altri) una sostanza estranea entri dentro di me”. Una posizione che, al di
là dell’eventuale realtà o adeguatezza, suona eticamente e politicamente
irresponsabile. In sostanza si dice che se io sono in forma ed ho una (presunta)
buona immunità (perché sono aderente alla ‘natura’) allora mi posso chiamare
fuori. Che gli altri pensino a sé, fatti loro. Come scrive: “Non si
tratta in nessun caso, ai loro occhi, di pensare a una forma di risposta
collettiva contro la pandemia (mentre è evidente che la risposta non può che
essere collettiva). Dell’idea che ci si prenda tutti e tutte la
responsabilità di farsi vaccinare (e applicare delle misure serie per frenare
la pandemia), di fermare insieme, in modo solidale, la circolazione del
virus, non ne vogliono neanche sentir parlare”.
Qui la questione non è di prova scientifica (che nessuno è
in grado di discutere con la necessaria competenza, se non scegliendo la
ciliegia del principio di autorità che conferma i propri orientamenti), ma
di preferenze per delle relazioni. E quindi la preferenza che
delimita la scelta della Gérard è quella per il modo di vivere e legarsi agli
altri, quindi “una preferenza per un mondo in cui si è solidali gli uni con gli
altri per far fronte a un pericolo, a un virus, più che per uno in cui si
lascia ciascuno a vedersela da solo con la sua pretesa natura o la sua fortuna,
le sue eredità o capitali sociali”.
La potenza che si manifesta nel movimento rinvia al contrario alla
distruzione di ogni solidarietà, ad un immaginario politico
ultra-liberale ed anti-egualitario. Anche i pochi che cercano di far
sentire la propria voce su agende più condivisibili, per la sanità pubblica,
per la vaccinazione obbligatoria in categorie a rischio primario (e diffusa nel
terzo mondo), per la revoca dei brevetti, non danno il tono al movimento. Che
resta offuscato dalle grida per la ‘libertà’, per ‘la libera scelta del proprio
corpo’, etc. Preso interamente in una enorme confusione e caos (che
riconosceranno tutti gli autori che qui leggiamo) che fa uso di volta in volta
delle citazioni del “biopotere”, applicato fuori senso per misure di mutua
protezione (qui la nostra cita Agamben), o dalla ripresa delle posizioni di
Raoult (che la nostra chiamar direttamente “impostore” e “manipolatore”). Un
movimento nel quale è finito per passare, per essere accettato, che “la
resistenza al sistema, al potere, allo Stato, al governo, si allei col
covid-scetticismo” e nel quale “si è fatto troppo poco per separare le due
questioni, quella della resistenza all’indurimento autoritario del regime e
quella della protezione reciproca da organizzare collettivamente, per
combattere insieme il virus e proteggersi a vicenda”. Vedremo nell’ultimo
intervento che l’intera esistenza di un “noi” che si dovrebbe difendere è
negata in radice.
Per l’autrice, invece, si poteva combattere ad un tempo Macron e il virus.
Il presidente francese, come i premier italiani, non ha infatti investito
abbastanza su scuola e trasporto, ha manifestato carenze nelle politiche di
vaccinazione, nei controlli negli aeroporti e nelle procedure di accesso al
paese, ha prodotto un’azione piena di contraddizioni e insufficienze. Ma un
punto bisogna tenerlo fermo: “Il campo di forza costituito dal movimento
attuale non è né egualitario né emancipativo. Prospera sulla confusione. Per
questo è tanto più importante tracciare delle linee chiare”.
Questa posizione molto netta, e con toni anche qui e là problematici, viene
commentata con favore da Marcello Tarì[4] e
con sfavore da Michele Garau.
Il primo a tutta evidenza parla da una posizione più radicale e segnala la
disgregazione e sconfitta del senso di direzione e comunanza di quel movimento
che nel finire degli anni novanta si riunì sotto le bandiere “no global”.
Chiarisce “l’esplosione, dispersione e dileguamento di
quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo,
quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e
lottare»”. E con essa anche l’inevitabile decomposizione di tutti i “noi”,
per quanto piccoli, che erano sorti intorno a questa prospettiva (che aveva
raccolto, per un breve attimo, gli orfani della lotta di classe).
Precisamente questa confusione produce l’ambiente nel quale il concetto di
libertà è slittato, anche nella sinistra radicale, dal “noi” (che si è perso)
all’ “io”. Cioè che ha finito per ancorarsi a ciò che “il so”, “io voglio”, “io
giudico”.
Dunque:
“dagli insorgenti di
Capitol Hill a quelli che assaltano i centri di vaccinazione in Francia, la
tendenza emergente è che quegli Io si aggregano e formano delle folle compatte
le quali inclinano naturalmente verso pulsioni anarco-fasciste. Sarebbe
ingenuo credere sia una novità dovuta a questo momento storico costituito dalla
pandemia ma, come sempre quando si tratta di storia delle mentalità, era
qualcosa che era già qui da tempo e a cui l’evento pandemico ha dato la
possibilità di riconoscersi e mostrarsi a cielo aperto. Nello stesso
identico modo in cui la pandemia ha permesso che strumenti tecnologici per la
produzione-consumo-controllo individualizzanti, anch’essi già presenti da tempo
nelle nostre abitazioni e nelle nostre tasche, cioè installati nella
nostra mente, abbiano ricevuto una nuova coerenza logistica che permette
ai governi e alle corporation di fare un «salto di qualità». Gli uni sono lo
specchio degli altri, ovvero gli uni sono funzionali agli altri,
avendo come base comune il delirio monocratico dell’Ego. Spirito
dell’Io e spirito della Tecnica, unificati nel capitalismo apocalittico,
costituiscono un dispositivo diffuso, un gas atmosferico attraverso
cui spira e regna lo «spirito di questo mondo», spirito della
separazione e dell’angustia”.
Si tratta, dunque, di un concetto angusto di libertà che è penetrato anche
nel campo che dovrebbe opporvisi. Persa la prospettiva anticapitalista comune,
smarrito il “noi”, è restato solo lo “stare bene, padrone della mia vita”.
Questo è il senso letto nell’articolo della Gérard e rimarcato da Tarì:
“il suo
puntare una cruda luce sul fatto che lo sfondo ideologico e le pratiche
di quel movimento non hanno nulla di emancipativo o liberante, nonostante
gli sforzi di quelli che cercano di portarvi un discorso contro il controllo
sociale, ma che è un exploit sostanzialmente ultra-liberista,
dove ciò che conta è solo il mio desiderio, la mia salute,
la mia scelta, il mio corpo, la mia libertà,
la mia festa, la mia vita e, al limite, la mia piccola
cerchia. Gérard è chiara e tagliente: si tratta in fin dei conti della
libertà feroce di un Io, alleato ad altre individualità che si immaginano vere,
forti e vincenti, usata contro i più fragili. Il problema
è che questi Io, pochi o tanti che siano, sono all’offensiva”.
Questo è un punto da scolpire: “libertà feroce di Io, alleati ad altre
individualità che si immaginano vere, forti, vincenti” e che,
per questo, rifiutano qualunque per quanto minimo sacrificio. Gli altri se
la cavino da soli.
Per Tarì, insomma, anche se il testo della Gérard “non è abbastanza
antagonista” solleva una questione vera. Il taccheggiare, l’assecondare la
confusione e dare spago a “una massa di narcisi egoisti truccati da
anti-sistema”. Quindi, alla fine, “Quello che resta del campo antagonista o
alternativo davanti all’evento maggiore di quest’epoca balbetta, non sa
bene che dire né che fare e quello che fa e dice spesso lo fa e dice male,
cercando di darsi delle ragioni per essere presente o assente. Capisco
che non sia facile, comprendo il balbettamento e anche gli errori. Sono in gran
parte anche le mie difficoltà, il mio balbettamento e i miei errori, ma detesto
l’ipocrisia, l’ambiguità e la furberia”.
Quella di chi non sa distinguere tra chi esprime in sostanza una “adesione
piena all’individualismo ultrà” che domina sulla scena. Chi immagina l’intera
realtà come nemica, malvagia e rivolta contro se stessi. Chi ha una visione
chiaramente paranoico-ossessiva (così la definisce) che vede solo biopotere,
apparati securitari, potere medico, occulti centri di controllo e masse di
stupidi che rifiutano la ‘verità’.
“È come
se un brutto sogno notturno assumesse al risveglio la dignità di manifesto
politico del giorno. I concetti che per un periodo hanno costituito l’armatura
di un discorso antagonista all’ordinamento del mondo, che sono stati usati per
comprendere il presente, vengono così banalizzati e stravolti in una ideologia
bipartisan i cui aderenti, per essere davvero coerenti, dovrebbero onorare
Trump e Bolsonaro come i veri padri nobili della “nuova resistenza”; quelli
infatti se ne sono sempre fottuti tanto dei vaccini che di tutto il resto. Per
contro, in tale visione totalizzante, non esistono i morti, i malati, i deboli,
i poveri, gli ultimi, i Sud del mondo. O comunque non contano nulla nella mia lotta
contro lo sfregio alla mia libertà”.
Infine, sulle stesse colonne Michele Garau
ha una posizione del tutto opposta, ed è quella riportata da “Sinistra in
rete” (che ha evidentemente scelto la parte in cui stare). Garau parte da
un preambolo nel quale riconosce che l’intero dibattito collassa e si polarizza
mischiando piani sanitari, tecnici, politici ed epidemiologici in un modo che
si interseca con la questione diversa delle potenzialità conflittuali delle
proteste in corso. Il piano della critica scientifica è rigettato dall’autore,
che in proposito ricorda la presa di posizione contro Illich dello stesso
Foucault[5]. Non si può criticare una formazione di
sapere assumendone linguaggio e categorie, ovvero immettendosi nel suo proprio
campo di interrogativi e di competenze tecniche. Si fa inevitabilmente la
figura del dilettante o del ‘raccoglitore di ciliegie’[6].
La domanda è quindi:
“È
possibile schivare questo rischio? È accettabile individuare un campo di
battaglia nel progetto di manipolazione e mappatura del vivente, di raccolta di
dati biologici e quadrillage poliziesco che il dispositivo del passaporto vaccinale porta con sé,
senza per questo entrare nel merito dell’efficacia sanitaria del vaccino, ma
soprattutto delle alternative più o meno credibili al suo utilizzo? È legittimo
criticare il modo in cui l’emergenza è stata affrontata, compreso il
perseguimento della campagna vaccinale come assoluta panacea,
l’ospedalizzazione sistematica a discapito di qualsiasi cura domiciliare, senza
perdere la lucidità rispetto alle dimensioni del problema? Si può, inoltre,
guardare con interesse al conflitto sul passaporto sanitario in termini
politici, di sintomo epistemologico e di rifiuto della presa delle istituzioni,
mediche ed economiche, sui corpi, andando oltre il linguaggio della medicina?”
Evidentemente Gérard propone come criterio alternativo
l’affinità verso le ‘forme di vita’ elette, l’intesa sulle visioni
dell’esistenza, il “fondo antropologico”. Una posizione che Garau non può
accettare completamente. Per lui si tratta, al contrario, di accettare
il rischio di frammentarietà, di balbettamento, ma non esimersi
completamente dalla critica verso il complesso delle tecniche e dei registri
scientifici, e relativi apparati. Criticare quindi, malgrado il rischio di
incomprensione, la politicità intrinseca, la decisionalità, le caratteristiche
di strategia e comando, proprie della razionalità scientifica come
‘istituzione’.
Anche se l’autore non crede che
questa mobilitazione darà una scossa e che avrà carattere di permanenza e lungo
respiro, purtuttavia resta legato ad un principio metodologico che enuncia
così: “un conflitto non si giudica dagli enunciati iniziali dei suoi
soggetti, dalla loro identità. Un principio metodologico semplice che è
soggetto a brusche oscillazioni e non fornisce garanzie, quello di privilegiare
il divenire degli eventi rispetto alla sostanza dei ruoli, delle etichette, del
calcolo sociometrico”. Un principio chiaramente e radicalmente
anti-marxista, di evidente matrice anarchica (per chi conosce le famiglie
ideologiche del novecento).
Se, quindi, il nostro ammette tranquillamente che “in
gran parte il profilo delle persone che scendono in strada sia lo stesso, con
la medesima costituzione antropologica «ultraliberale» ed un’analoga e spuria
visione del mondo”, e quindi resta sempre il rischio di “essere travolti
dal fango”, purtuttavia rifiuta di squalificare gli elementi di verità presenti
(la riduzione dei corpi a fondo e mappatura dei dati[7]), sulla base di un mero “giudizio
antropologico”.
Ricapitoliamo:
Garau non mette affatto in discussione il “giudizio
antropologico” di iper-liberismo, lo accetta per vero, ma nega che questa
diagnosi debba guidare l’azione. Perché lo nega? Il motivo è semplice e netto,
e lo scrive molto bene: “In quanto al progetto di difendere o ricucire il
legame sociale, resto convinto che il gioco delle forme di vita, il loro
conflitto e la loro composizione come sola essenza di un agire etico, passi
dalla sua distruzione e frammentazione”. Quel che vuole
produrre è quindi, ed anche nel mezzo di una pandemia, una “secessione” e
uscita dalla civiltà presente; intende arrivare ad un “fuori esistenziale e
politico”. E, per questo, per lui bisogna ammettere che questa prospettiva “non
si può intravvedere da nessuna altra parte che in desideri e immaginari
che sono, da principio, ‘ultraliberali’.”
La posizione è quindi compiutamente e consapevolmente
anarchica (e probabilmente di un anarchismo ‘accelerazionista’): “L’elaborazione
di un tipo di «libertà comunista», irriducibilmente altra dal presente, non sta
in nessun’osservanza della responsabilità sociale, in nessun piegarsi in
sacrificio alla collettività come norma universale”, e quindi viene
indicato chiaramente l’avversario, ovvero “i bizzarri rigurgiti
socialisti di quei compagni che delirano di vaccini come «bene comune» o atto
d’amore verso la comunità”.
Il suo romanticismo (direi piccolo-borghese, ma qui mi
perdonerà) scaturisce dalla motivazione di questa scelta, che segue
immediatamente: “fare una manifestazione selvaggia, anche solo per chiedere di
tornare alla vita di prima, per rivendicare la mera e individualistica
riproduzione materiale – tra lavoro e consumo – è comunque una condizione per
esperienze più vive ed autentiche della semplice obbedienza”.
Si ricollega quindi ed infine alla esperienza piazze contro il lock down, anche
se il programma non era generalizzabile, se rasentava l’egoismo. Lo rivendica.
Gramsci, nel 1919[8], scriverà che gli anarchici, in sostanza,
“puntano a ridurre tutto ad una avventura romantica”. Non potrebbe
essere più chiaro.
L’autore conclude, infatti:
“è
sempre bene tenere a mente che nessuna nuova idea di libertà verrà impressa
dall’esterno a questa condizione. Mentre cortei selvaggi e disordini
estemporanei animano le strade della mia città, mentre ministri ed organi di
informazione agitano minacce estremistiche, convocano il pericolo terroristico
per un tirapugni ed il cazzotto (sacrosanto) ad un giornalista, mi pare
che l’ultima cosa da fare sia tracciare le linee sbagliate.
Ammettere di balbettare, di essere interdetti di fronte alla realtà e di
faticare a prendere posizioni chiare, come mostrano queste righe scritte
malvolentieri, mi sembra una migliore soluzione. E se in questa confusione la
linea che delimita un punto credibile da cui pensare e attaccare non è stata
forse ancora disegnata, è certo che passerà più probabilmente tra i
farfugliamenti inarticolati dei tumulti, con tutti i loro pericoli e le loro
scorie (anche con i loro deliri) che in mezzo alla tiepida saggezza di chi
resta ben allineato”.
Se poi, mentre il nostro amico si sente vivo
ed autentico, mentre sperimenta, farfuglia, accetta i deliri, qualcuno
muore (magari qualche inutile vecchio come Sepulveda) non fa niente.
L’importante è sollevare la “forza anonima che mina il legame sociale”,
scontandone gli effetti antisociali, irresponsabili e particolaristici dai
quali muove. L’importante, lo dice chiaramente, è distruggere il “patto
sociale”.
Ovvero, come cita:
“L’oscuro
spettacolo delle rivolte del 2011 aveva un aspetto stranamente conformista, e
il focus sul saccheggio dei beni di consumo indica l’enorme potere
dell’immaginario consumistico e l’uniformità ideologica del periodo neoliberale
contemporaneo. Quelli che si sono rivoltati non erano gruppi politicizzati che
lottavano per un mondo più giusto ed equo. Non hanno fatto richieste a chi era al
potere, e non erano in possesso di una visione ideologica di un percorso
storico nuovo e progressivo. Consapevolmente, non volevano cambiare
nulla. Erano sussunti dall’avventura esperienziale della rivolta e,
per quanto riguarda i saccheggi, volevano quello che potevano. Inconsciamente,
volevano cambiare tutto ciò che riguardava il loro essere-nel-mondo”[9].
Dunque, direi che siamo perfettamente d’accordo, tutte
queste sono mobilitazioni neoliberali e non vogliono cambiare nulla.
Ma, dico, per questo non basta il capitalismo?
Di sicuro a me basta per sapere dove stare.
[1] - Un pezzo,
davvero interessante e di cui parleremo tra breve, di Michele Garau “Alcune note polemiche a partire da uno scritto di Valérie Gérard”
[2] - Disponibile a
questo link https://www.editions-mf.com/produit/108/9782378040420/tracer-des-lignes
[3] - In questo
contesto non si intende, naturalmente, il fatto che più persone si riuniscano
in segreto per agire contro altre (perché questo avviene continuamente), ma
quelli che riguardano la politica e che sono indeterminati e contemporaneamente
illimitati. Ovvero è una ‘teoria del complotto’, in questo contesto,
l’attribuzione di un fenomeno sociale all’azione di indeterminati attori, dai
fini vaghi, perfettamente eseguiti, interminabili, non connessi ad una
specifica conformazione temporale e spaziale. Esse sono, tipicamente: ‘sfocate’
(hanno fini illimitati come il dominio del mondo); coinvolgono attori sia
indefiniti sia innumerevoli (ed estendibili a chiunque li neghi); dallo
svolgimento coerente e perfetto (ad onta della innumerevole partecipazione e
vaghezza degli obiettivi); astorici e fuori contesto e quindi eterni.
[4] - Marcello Tarì,
“We are
Winning”
[5] - M. Foucault, Crisi
della medicina o crisi dell’antimedicina? (1976), in Il
filosofo militante: Archivio Foucault 2. Interventi, colloqui, interviste. 1971-1977, Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 202-219.
[6] - Si usa questa
locuzione di chi sceglie da un albero (es. da un dibattito disciplinare) solo
quelle parti che si confanno sin dall’inizio alla propria tesi, ignorando
quelli contrari e spesso forzando l’interpretazione di testi e significati.
[7] - Singolare
affermazione per un semplice, banalissimo, certificato di avvenuta vaccinazione
(i cui dati non sono certamente prodotti per l’essere scaricati nell’app “io”),
quando la Pubblica Amministrazione registra, come ovvio e necessario, ogni
visita, ogni prestazione, medicina, visita in ospedale, e innumerevoli altri
momenti della vita. E, soprattutto, quando lo fanno tutti.
[8] - Antonio
Gramsci, ad esempio in “Lo Stato e il socialismo”, L’Ordine Nuovo, 1919, chiarisce che
il “tipo sociale” dell’anarchico, con riferimento ad un articolo precedente
nella medesima rivista, deve essere “conosciuto, studiato, discusso e
superato”, perché si tratta di “pseudorivoluzionari” che basano la propria azione
solo sulla “mera fraselogia ampollosa, sulla frenesia operaia,
sull’entusiasmo romantico è solo un demagogo, non è un rivoluzionario”. E’ tutto il
contrario, infatti, “Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente
sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano
viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da
scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino
l'integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che
facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla
disperazione e alla pazza strage interna il popolo. L'entusiasmo verbale e la
sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi
problemi deve essere risolto anche solo in un villaggio di cento abitanti”.
[9] - S. WINLOW, S. HALL, Gone shopping:
Inarticulate politics in the English riots of 2011, in D. BRIGGS, The
English riots of 2011: a summer of discontent, London, Waterside press,
2012, pp. 149-168: p. 153.
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