giovedì 11 novembre 2021

La guerra dei portuali genovesi contro le armi saudite - Pietro Giovanni Panico

 

Nei moli di Genova, uno dei porti più importanti d’Europa, transitano navi saudite cariche di armi. Ufficialmente, l’Italia ha revocato l’esportazione di armamenti verso l’Arabia Saudita, permettendo però che le navi attracchino nei propri porti. Di fatto viene aggirato il vincolo e le armi raggiungono contesti di guerra—Yemen in primis. Le organizzazioni dei portuali genovesi non sono disposte a collaborare con questo traffico di morte e si stanno rifiutando di operare sui carichi di navi battenti bandiera saudita.


Durante l’aggressione militare degli Stati Uniti d’America in Vietnam, i portuali genovesi decisero di sostenere attivamente il popolo vietnamita: nel novembre 1973 la nave Australe salpava dalla Liguria, con una dozzina di ore di ritardo a causa del falso allarme bomba e presunti problemi burocratici. All’interno era colma di viveri e materiale sanitario di primo soccorso, tra cui il sangue donato dai civili: destinazione fu il porto di Haiphong, minato e sotto i bombardamenti dell’aviazione militare statunitense. Attraccò dopo quasi sessanta giorni e tredici miglia percorse. È nel DNA di questa città e di questo porto avere una certa sensibilità contro le guerre.

Il porto di Genova è il più grande d’Italia: è lungo ventidue chilometri, ha una superficie totale di 290.000 metri quadrati e, soprattutto, ha il maggiore traffico merci del Paese. A livello internazionale occupa il 31esimo posto per il port liner shipping connectivity index, ossia il grado di connettività di un porto alla rete logistica globale.

A beneficiare del porto di Genova c’è anche la compagina saudita della Bahri e le sue sei navi adibite al trasporto di armi, che vengono impiegate anche nello Yemen.

Qui, nel solo anno 2018 gli attacchi aerei e quindi le bombe hanno causato la maggior parte delle morte dei civili: 3.820 vittime (79% delle morti totali), tra cui 952 bambini e 581 donne.

La commessa ed il relativo trasporto delle bombe saudite è affidata alla Bahri, che si rifornisce e fa tappa nei porti dei paesi occidentali con il beneplacito dei governi ospitanti. In altre parole, la guerra inizia in Occidente.

Si prenda il caso della Francia. Nel 2020 il governo Macron ha venduto armi all’Arabia Saudita per circa dieci miliardi di euro di cui 224.681.660 di bombe, siluri e razzi: è quindi scontato che la compagnia saudita con cargo di armi abbia accesso ai porti francesi. Nella compravendita di armamenti sull’asse Parigi-Riyad vengono erogati anche agenti per la cosiddetta “guerra chimica”, che nello stesso periodo hanno fruttato 83.245.000 euro. Uno dei punti focali delle inchieste del giornalista Khashoggi, verosimilmente ammazzato ad Istanbul su mandato dei regnanti sauditi, sembra fosse proprio l’utilizzo di armi chimiche dell’esercito saudita in Yemen.

Oppure la Spagna, che nel solo 2019 ha venduto armamenti all’Arabia Saudita per 392.795.258 euro e, pur di far accomodare le navi saudite, è finita al centro di una discussione presso il Parlamento europeo: il 1 marzo 2021 un’imbarcazione Bahri attraccava presso Sagunto, verosimilmente carica di armi con annessi equipaggiamenti militari caricati a Valencia. Pur di piegarsi ai principi sauditi, il governo spagnolo viola la posizione comune 2009/944/PESC.

In Italia, invece, nonostante la revoca dell’export di armi verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, si è deciso di aggirare il problema applicando un modus operandi “furbo”: le armi non vengono vendute ma le navi che trasportano armamenti hanno libero passaggio. Del resto l’Italia è l’ottavo partner commerciale dell’Arabia Saudita.

 

Il CALP e le sei sorelle Bahri

In questo contesto, i portuali genovesi riuniti sotto il CALP (Collettivo autonomo lavoratori portuali) stanno conducendo una battaglia per sabotare gli ingranaggi, apparentemente indistruttibili, di questo mercato che collega il capoluogo ligure alla capitale saudita. Genova per le navi Bahri è una tappa fissa: nonostante il porto italiano abbia il 40% in meno rispetto a Rotterdam (primo posto) nel Port liner shipping connectivity index, i sauditi preferiscono per i loro traffici la Liguria e l’Italia.

Le sei sorelle Bahri (Yanbu, Tabuk, Jazan, Jeddah, Abha, Hofuf) nascono da una commessa affidata dal governo saudita alla Hyundai Mipo Dockyard e le imbarcazioni sono state consegnate tra il 2013 ed il 2014. L’azienda sudcoreana ha la sede principale ad Ulsan ed è all’interno del gruppo Hyundai Heavy Industries, che con la compagnia saudita fa affari multimilionari ormai da anni. A maggio èarrivata la consegna della portarinfusa SARA, a seguito dell’accordo ufficiale sull’asse Riyad-Ulsan; in ultimo, una commessa da 410 milioni di dollari per la costruzione di dieci chimichiere a medio raggio (49999 DW) da consegnare entro il primo trimestre del 2022 porterà la flotta saudita a quota 101 navi.

Nel maggio 2020, i portuali genovesi hanno detto no al transito delle Bahri, portando le proteste al rifiuto di caricare sulla Bahri Yanbu due casse con all’interno i generatori elettrici della Defence Tecnel di Roma, talvolta utilizzati nelle operazioni belliche.

Associazione per delinquere

Le proteste dei portuali hanno portato ad un’inchiesta, da parte della Procura di Genova, che vede cinque indagati per “associazione per delinquere”.

José Nivoi, coordinatore CALP Genova, lavora nel porto da quindici anni: ha iniziato ventunenne, oggi è padre di famiglia e di anni ne ha 36. Ha origine sarde, viene da una famiglia di delegati sindacali. Sembra cosciente di essere finito in qualcosa più grande di lui, pur nascondendo il peso con un sorriso. È tra cinque indagati dalla Procura di Genova.

“Il 24 di febbraio, alle cinque del mattino, ci ha citofonato la Digos per perquisire casa: hanno sequestrato cellulari, computer, hard disk, documenti politici; ad alcuni anche caschi, bandiere e adesivi”, spiega Nivoi. “Quando ci hanno preso dalle case e ci hanno portato giù in porto per sequestrare tutto il materiale che avevamo all’interno della nostra sede e dentro il nostro container, c’erano circa sessanta poliziotti, tutta la Digos di Genova, artificieri, la scientifica, la cinofila, il pm. Sembrava una maxi operazione di polizia di quelle che a Genova non si vedevano da vent’anni. Non potevamo parlare tra di noi e ci hanno sequestrato i cellulari: non potevamo neanche comunicare con i nostri avvocati. Di fatto, siamo stati in arresto otto ore”.

Alla fine l’accusa della procura è associazione a delinquere finalizzata alla resistenza a Pubblico Ufficiale e all’attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti. Nell’inchiesta è finita anche l’accensione di fumogeni.

“Cose prescrivibili con delle multe. Non credo ci sia neanche una pena che superi i sei mesi per robe del genere. Tranne che per il blocco del servizio pubblico. Eppure si tratta del blocco legato alla compagnia Bahri, non è un servizio pubblico, ma privato. Ma il blocco non è stato fatto così, in maniera estemporanea e mettendoci di fronte, bensì durante uno sciopero. Stanno cercando di bloccare tutti quei movimenti che si palesano per la solidarietà attiva, perché per noi bloccare la compagnia Bahri era una maniera attiva di dare solidarietà uscendo dalle solite logiche che vediamo: noi volevamo fare un’azione concreta”.

Di concreto, secondo i membri del Calp, non avrebbe niente in mano la procura. Quando saremo in tribunale decadrà tutto. Serve solo a mantenerti in uno stallo giudiziario: da quando sei indagato rischi con più facilità domiciliari, sorveglianza speciale o addirittura il carcere. Si tratta di un modo per dirci: ‘vi tengo sott’occhio’”.

Leggi non applicate

L’Italia revoca l’esportazione di armamenti verso Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, ma lascia invece attraccare le Bahri cariche di armi utilizzate nella guerra nello Yemen. Un controsenso, che va contro la legge 185/1990, “che di fatto vieta il transito ed in qualche modo il commercio a quei Paesi che usano come risoluzione finale l’atto della guerra. E la Costituzione ripudia la guerra tramite l’articolo 11. Noi abbiamo chiesto a più riprese l’applicazione della 185/1990”. Tra gli interlocutori la Farnesina: “Il portavoce del Ministero degli Esteri Luigi Di Maio ci ha detto che il conflitto tra Arabia Saudita e Yemen non è da considerarsi guerra perché un governo fantoccio yemenita ha chiesto aiuto per risolvere le controversie interne allo Yemen”.

C’è poi il caso della RWM, sita in Sardegna a Iglesias, che produce armamenti per conto della Rheinmetall tedesca poiché dopo la Seconda guerra mondiale è stato stabilito che alcune tipologie di armi non posso essere più prodotte in Germania. “In questo modo l’Italia riesce a raggirare le leggi, sia quelle locali, sia quelle europee, sia quelle internazionali”.

La delocalizzazione produttiva è in contrasto con la già citata 185/1990 (modificata dal DDL S. 1049 del 7 aprile 2019), che nell’articolo uno vieta espressamente l’esportazione ed importazione di armamenti verso quegli Stati che usano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Nel quinto articolo viene vietato il business nel momento in cui non sussistono adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di armamento.

Lo stesso vale per il governo di Riyad, che evidentemente non rispetta i requisiti per intrattenere il business di armi: all’ascesa del principe ereditario è corrisposta una sequela di violazioni repressive di enorme portata con esecuzioni macabre, processi farsa contro gli oppositori del regime, attivisti arrestati e condannati a lunghe pene detentive.

L’asse Roma-Riyad è rimasto solido, anzi è stato rinsaldato. Si veda il Memorandum of understanding firmato all’alba del nuovo anno tra il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio e quello saudita Faisal bin Farhan al-Saud. Di aziende italiane presso l’Arabia Saudita ce ne sono circa una cinquantina ed il passo che viene registrato sembrerebbe quindi un ampliamento dei rapporti, non un ridimensionamento.

La sensazione è che ai sauditi, nonostante la pericolosità di armare un governo così belligerante, nessuno vuole rinunciare: immediatamente dopo lo stop all’export di armamenti firmato dall’allora premier Giuseppe Conte, RMW ha fatto ricorso: a maggio 2021, però, il TAR del Lazio ha confermato il blocco.

Oltre alla questione morale e alla dubbia legalità dei transiti, c’è un problema con la sicurezza pubblica. Quanto è grande il rischio di incappare in una esplosione come quella del porto di Beirut, quando il 4 agosto 2020 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio esplose in una nave abbandonata hanno ucciso 214 persone e ferite altre 7.000?

“Altro che Beirut”

Quanto è grande il rischio di ripetere una nuova Beirut visto il traffico di navi di armi nei porti? “Secondo noi è molto alto il rischio: una distrazione, una vite messa male, potrebbe incidere su un potenziale incidente nell’area portuale”, spiega Nivoi. “Senza considerare che nella Bahri ci sono dei container con una portata di trenta tonnellate con all’interno esplosivi, materiale infiammabile e proiettili. In un caso come questo basterebbe che cadendo un piedino da stiva buchi il tetto e faccia la scintilla. Altro che Beirut…”

I portuali affiliati al Calp sono inoltre preoccupati per il progetto di rinnovo dell’area portuale, che sposterebbe la zona del petrolchimico di Pegli all’interno del porto, aumentando a livello “esponenziale” il rischio di esplosione. “Abbiamo esposto sia alla giunta comunale sia all’autorità portuale questa problematica, chiedendo un piano di evacuazioni in caso di incidente così che la cittadinanza, che vive molto vicino a dove attraccano le navi, sappia cosa fare”. Pur consci del problema, “le autorità ci hanno detto che c’è un interesse sovranazionale e quindi non si può intervenire a bordo di queste navi”.

Non meno delicata è la questione della sicurezza degli operai portuali. La difficoltà palese dello svolgere questo lavoro è aggravata dal contesto burocratico. Pochi sanno che il porto di Genova è gestito da tredici aziende diverse: “Ognuna gestisce una banchina che è del demanio ed ogni azienda ha un DVR (Documento di Valutazione dei Rischi). Noi chiediamo che ci siano degli standard generalizzati così che se scoppia un incendio anche quelli dei terminal vicini sappiano come comportarsi”.

Armi smembrate

La prevenzione degli incidenti diventa più complessa se non si conoscono i materiali depositati nei container. Per legge i cargo che pesano più di cento tonnellate sono etichettati con dei codici (IMO) che identificano la tipologia di pericolosità. Le etichette, quindi, permettono di conoscere la pericolosità grazie agli adesivi applicati su tutti i lati dei container. “Ad esempio abbiamo scoperto per caso che in un container diretto in Israele ci fossero delle armi: abbiamo visto un camion andare verso il porto di Genova con l’etichetta 1A, quindi missili già composti con l’esplosivo”.

Ma le armi non vengono spedite tutte come pericolose e spesso vengono usati i porti civili: “Hanno trovato questa ‘magnifica’ idea di smontare le armi e mandare su un container l’involucro del missile, su un altro il detonante, sull’altro l’esplosivo. In questa maniera tu hai due container che viaggiano come merci normali perché sono pezzi di ferro ed un altro esplosivo, diminuendo i costi: pagano un terzo di quello che dovrebbero pagare per il commercio di armi”.

A volte per capire dove finisce realmente la merce contenuta nei container servono degli stratagemmi: “Un giorno, quando avevamo iniziato da poco la nostra lotta, ci siamo accorti che all’interno della sopraelevata del porto c’era una fila di quei fuoristrada bianchi che si vedono nelle zone di guerriglia”. Gli operai hanno applicato gli adesivi con la direzione dei mezzi, in questo caso “porto di Tangeri”. “Un giorno, sarà passato un anno, scopriamo un video su YouTube in cui si vede un fuoristrada color sabbia con sopra una mitragliatrice utilizzata da un uomo che sparava come un pazzo;  c’era un adesivo mezzo strappato ma ancora leggibile: ‘Tangeri’. Vuol dire che facevano una triangolazione Genova-Tangeri-Libia, dove montavano l’artiglieria”.

 

Una sfida globale

I membri del CALP si sono messi in contatto con i lavoratori portuali di altre città: Livorno, Trieste, Napoli e poi Amburgo, Anversa, Inghilterra“Ed effettivamente anche in quei porti c’è un aumento dei traffici di armi: l’unica risposta era fare fronte comune. Ognuno con le proprie modalità, ognuno con i propri mezzi contro gli armamenti”.

Comunicando, ad esempio, i nomi delle agenzie che gestiscono gli imbarchi. A Genova gli imbarchi della compagnia Bahri sono curati dalla Delta Agenzia Marittima srl, che ha pubblicato un documento rivolto alla regione, al prefetto, al comune ed all’autorità di sistema portuale per denunciare il rischio concreto che la compagnia Bahri abbandonasse come scalo Genova. Nella missiva è scritto: “È accettabile che nelle stive di una nave che è territorio straniero, ovvero territorio sovrano dello Stato di cui questa nave batte la bandiera, vengano inviati lavoratori portuali, per fotografare il carico e pubblicare poi che nella stiva erano presenti anche mezzi militari imbarcati in America e regolarmente denunciati con destinazione Arabia Saudita?”

La Bahri sembra temere questo fronte unico pensato dai portuali genovesi: nei primi mesi del 2021 si affaccia nelle acque territoriali spagnole la Bahri Jazan con cargo di armi. I sauditi tracciano rotte strane, mentono sulla destinazione. “In ogni porto dove andava questa nave era presente o una contestazione oppure uno sciopero. Rendendosi conto che aveva delle difficoltà ha mandato un marinaio sulla fiancata a cancellare la scritta Bahri: la compagnia che è prima al mondo in commercio di petrolio ed armi si sente messa in una posizione di imbarazzo da venti portuali genovesi”.

I blocchi degli operai portuali hanno portato a vari problemi diplomatici per l’Italia: soprattutto con Israele per un carico di bombe destinato a Gaza e, per l’appunto, con l’Arabia Saudita, dopo il congelamento delle licenze all’esportazione di circa ventimila bombe da aerei agli Emirati Arabi e ai sauditi a giugno 2021.

Proprio nello stesso periodo, il senatore Matteo Renzi volava a Riyad nell’ambito del ben noto meeting del board saudita di cui è membro. Se non è ben chiaro il senso del viaggio, è certo che negli anni in cui era premier abbia intrattenuto un rapporto remunerativo con Salman. Rispetto ai precedenti governi, l’export di armi verso l’Arabia Saudita è aumentato del +581%. Nel 2013 (Monti-Letta) le esportazioni verso Riyad erano 2,1 miliardi di euro, nel 2016 (ultimo anno di Governo Renzi) valevano 14,6 miliardi.

Un alleato inatteso

Papa Francesco ha recentemente citato indirettamente proprio i portuali genovesi. “Tramite un professore della Sapienza, siamo entrati in contatto col Cardinale Coccopalmerio a cui abbiamo consegnato una lettera da consegnare al Papa: noi pensavamo finisse lì, invece poi ci hanno chiamato per un appuntamento con il Pontefice, il 23 giugno 2021. Se il Papa si spende per noi, la Questura di Genova fa veramente una brutta figura: vallo a spiegare alla cittadinanza che il Papa ha dato la solidarietà a un gruppo di lavoratori che sono un’associazione per delinquere”.

Ma la paura, per José Nivoi e gli altri operai sotto inchiesta, non svanisce: “Abbiamo molteplici esempi di dissidenti politici finiti in una certa maniera. La mia è una famiglia di sindacalisti, anche mio padre, tra il ’70 e l’80 ha avuto una serie di problematiche politiche. Mia madre è terrorizzata, mi dice: ‘Ma chi te lo fa fare? Hai una figlia…'”.

Da Genova alla Spagna

La ribellione dei portuali genovesi ha avuto eco in altri porti europei. Nella battaglia contro le Bahri ha avuto e ha un ruolo di primo piano il movimento no-war “La guerra empieza aquì” (“La guerra inizia qui”), nata da una piattaforma cittadina spagnola in difesa dei rifugiati come risposta al traffico d’armi verso l’Arabia Saudita che coinvolgeva il porto di Bilbao.

Frontiere News ha chiesto al suo coordinatore Luis Arbide se la Spagna rispetta le leggi nazionali per la regolamentazione del traffico di armamenti. “No, non rispetta né le leggi internazionali delle Nazioni Unite né la stessa legislazione interna spagnola, poiché entrambe vietano espressamente l’esportazione di armi verso determinati Paesi ‘qualora vi siano ragionevoli indizi che il materiale possa essere utilizzato per perturbare la pace, la stabilità o la sicurezza a livello mondiale o regionale’”.

Secondo Arbide, in Spagna c’è un problema di trasparenza sulle aziende private o a capitale pubblico implicate nel commercio di armamenti con i sauditi. “Si tratta di un tema opaco e nascosto, che il governo nasconde dietro una vecchia legge franchista e antidemocratica denominata ‘Legge sui segreti ufficiali’, ombrello su cui si basa per non dare informazioni né a mezzi di informazione né a commissioni o iniziative parlamentari”. Sebbene le proteste degli attivisti spagnoli non abbiano avuto risvolti giudiziari sostanziali come quelli di Genova, è nata una forte solidarietà verso i colleghi italiani, il cui modello di battaglia è “un modello di sensibilità ed etica non comune all’interno di un collettivo lavorativo. Credo che siano un esempio: hanno tutta la mia ammirazione. Vorremmo che con la disponibilità dei lavoratori portuali catalani, questo modello di gestione sindacale con un marcato profilo sociale possa diffondersi in tutti i porti e fabbriche”.

Se il business della guerra inizia in Europa, per molti lavoratori portuali la battaglia contro i trafficanti di armi è appena iniziata.


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