Nei moli di Genova, uno dei porti più
importanti d’Europa, transitano navi saudite cariche di armi. Ufficialmente,
l’Italia ha revocato l’esportazione di armamenti verso l’Arabia Saudita,
permettendo però che le navi attracchino nei propri porti. Di fatto viene
aggirato il vincolo e le armi raggiungono contesti di guerra—Yemen in primis.
Le organizzazioni dei portuali genovesi non sono disposte a collaborare con
questo traffico di morte e si stanno rifiutando di operare sui carichi di navi
battenti bandiera saudita.
Durante
l’aggressione militare degli Stati Uniti d’America in Vietnam, i portuali
genovesi decisero di sostenere attivamente il popolo vietnamita: nel novembre
1973 la nave Australe salpava dalla Liguria, con una dozzina di ore di ritardo
a causa del falso allarme bomba e presunti problemi burocratici. All’interno
era colma di viveri e materiale sanitario di primo soccorso, tra cui il sangue
donato dai civili: destinazione fu il porto di Haiphong, minato e sotto i
bombardamenti dell’aviazione militare statunitense. Attraccò dopo quasi
sessanta giorni e tredici miglia percorse. È nel DNA di questa città e di
questo porto avere una certa sensibilità contro le guerre.
Il porto di
Genova è il più grande d’Italia: è lungo ventidue chilometri, ha una superficie
totale di 290.000 metri quadrati e, soprattutto, ha il maggiore traffico merci
del Paese. A livello internazionale occupa il 31esimo posto per il port
liner shipping connectivity index, ossia il grado di connettività di un
porto alla rete logistica globale.
A
beneficiare del porto di Genova c’è anche la compagina saudita della Bahri e le
sue sei navi adibite al trasporto di armi, che vengono impiegate anche nello
Yemen.
Qui, nel
solo anno 2018 gli attacchi aerei e quindi le bombe hanno causato la maggior
parte delle morte dei civili: 3.820 vittime (79% delle morti totali), tra cui
952 bambini e 581 donne.
La commessa
ed il relativo trasporto delle bombe saudite è affidata alla Bahri, che
si rifornisce e fa tappa nei porti dei paesi occidentali con il
beneplacito dei governi ospitanti. In altre parole, la guerra inizia in
Occidente.
Si prenda il
caso della Francia. Nel 2020 il governo Macron ha venduto armi all’Arabia
Saudita per circa dieci miliardi di euro di cui 224.681.660 di bombe, siluri e
razzi: è quindi scontato che la compagnia saudita con cargo di armi abbia
accesso ai porti francesi. Nella compravendita di armamenti sull’asse
Parigi-Riyad vengono erogati anche agenti per la cosiddetta “guerra chimica”,
che nello stesso periodo hanno fruttato 83.245.000 euro. Uno dei punti focali
delle inchieste del giornalista Khashoggi, verosimilmente ammazzato ad Istanbul
su mandato dei regnanti sauditi, sembra fosse proprio l’utilizzo di armi chimiche dell’esercito saudita in
Yemen.
Oppure la Spagna,
che nel solo 2019 ha venduto armamenti all’Arabia Saudita per 392.795.258 euro
e, pur di far accomodare le navi saudite, è finita al centro di una discussione
presso il Parlamento europeo: il 1 marzo 2021 un’imbarcazione Bahri attraccava presso Sagunto, verosimilmente carica di armi con annessi
equipaggiamenti militari caricati a Valencia. Pur di piegarsi ai principi
sauditi, il governo spagnolo viola la posizione comune 2009/944/PESC.
In Italia,
invece, nonostante la revoca dell’export di armi verso Arabia Saudita ed
Emirati Arabi Uniti, si è deciso di aggirare il problema applicando un modus
operandi “furbo”: le armi non vengono vendute ma le navi che trasportano
armamenti hanno libero passaggio. Del resto l’Italia è l’ottavo partner
commerciale dell’Arabia Saudita.
Il CALP e le sei sorelle Bahri
In questo
contesto, i portuali genovesi riuniti sotto il CALP (Collettivo autonomo
lavoratori portuali) stanno conducendo una battaglia per sabotare gli
ingranaggi, apparentemente indistruttibili, di questo mercato che collega il
capoluogo ligure alla capitale saudita. Genova per le navi Bahri è una tappa
fissa: nonostante il porto italiano abbia il 40% in meno rispetto a Rotterdam
(primo posto) nel Port liner shipping connectivity index, i sauditi
preferiscono per i loro traffici la Liguria e l’Italia.
Le sei
sorelle Bahri (Yanbu, Tabuk, Jazan, Jeddah, Abha, Hofuf) nascono da una
commessa affidata dal governo saudita alla Hyundai Mipo Dockyard e
le imbarcazioni sono state consegnate tra il 2013 ed il 2014. L’azienda
sudcoreana ha la sede principale ad Ulsan ed è all’interno del gruppo Hyundai
Heavy Industries, che con la compagnia saudita fa affari multimilionari
ormai da anni. A maggio èarrivata la consegna della portarinfusa SARA, a
seguito dell’accordo ufficiale sull’asse Riyad-Ulsan; in ultimo, una commessa
da 410 milioni di dollari per la costruzione di dieci chimichiere a medio
raggio (49999 DW) da consegnare entro il primo trimestre del 2022 porterà la
flotta saudita a quota 101 navi.
Nel maggio
2020, i portuali genovesi hanno detto no al transito delle Bahri, portando le
proteste al rifiuto di caricare sulla Bahri Yanbu due casse con all’interno i
generatori elettrici della Defence Tecnel di Roma, talvolta
utilizzati nelle operazioni belliche.
Associazione per delinquere
Le proteste
dei portuali hanno portato ad un’inchiesta, da parte della Procura di Genova,
che vede cinque indagati per “associazione per delinquere”.
José Nivoi,
coordinatore CALP Genova, lavora nel porto da quindici anni: ha iniziato ventunenne, oggi è padre
di famiglia e di anni ne ha 36. Ha origine sarde, viene da una famiglia di
delegati sindacali. Sembra cosciente di essere finito in qualcosa più grande di
lui, pur nascondendo il peso con un sorriso. È tra cinque indagati dalla
Procura di Genova.
“Il 24 di febbraio, alle cinque del mattino, ci ha citofonato la Digos per perquisire casa: hanno sequestrato cellulari, computer, hard disk, documenti politici; ad alcuni anche caschi, bandiere e adesivi”, spiega Nivoi. “Quando ci hanno preso dalle case e ci hanno portato giù in porto per sequestrare tutto il materiale che avevamo all’interno della nostra sede e dentro il nostro container, c’erano circa sessanta poliziotti, tutta la Digos di Genova, artificieri, la scientifica, la cinofila, il pm. Sembrava una maxi operazione di polizia di quelle che a Genova non si vedevano da vent’anni. Non potevamo parlare tra di noi e ci hanno sequestrato i cellulari: non potevamo neanche comunicare con i nostri avvocati. Di fatto, siamo stati in arresto otto ore”.
Alla fine
l’accusa della procura è associazione a delinquere finalizzata alla resistenza
a Pubblico Ufficiale e all’attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti.
Nell’inchiesta è finita anche l’accensione di fumogeni.
“Cose
prescrivibili con delle multe. Non credo ci sia neanche una pena che superi i
sei mesi per robe del genere. Tranne che per il blocco del servizio pubblico.
Eppure si tratta del blocco legato alla compagnia Bahri, non è un servizio
pubblico, ma privato. Ma il blocco non è stato fatto così, in maniera
estemporanea e mettendoci di fronte, bensì durante uno sciopero. Stanno
cercando di bloccare tutti quei movimenti che si palesano per la solidarietà
attiva, perché per noi bloccare la compagnia Bahri era una maniera attiva di
dare solidarietà uscendo dalle solite logiche che vediamo: noi volevamo fare
un’azione concreta”.
Di concreto,
secondo i membri del Calp, non avrebbe niente in mano la procura. “Quando
saremo in tribunale decadrà tutto. Serve solo a mantenerti in uno stallo
giudiziario: da quando sei indagato rischi con più facilità domiciliari,
sorveglianza speciale o addirittura il carcere. Si tratta di un modo per dirci:
‘vi tengo sott’occhio’”.
Leggi non applicate
L’Italia
revoca l’esportazione di armamenti verso Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita,
ma lascia invece attraccare le Bahri cariche di armi utilizzate nella guerra
nello Yemen. Un controsenso, che va contro la legge 185/1990, “che di fatto
vieta il transito ed in qualche modo il commercio a quei Paesi che usano come
risoluzione finale l’atto della guerra. E la Costituzione ripudia la guerra
tramite l’articolo 11. Noi abbiamo chiesto a più riprese l’applicazione della
185/1990”. Tra gli interlocutori la Farnesina: “Il portavoce del Ministero
degli Esteri Luigi Di Maio ci ha detto che il conflitto tra Arabia Saudita e
Yemen non è da considerarsi guerra perché un governo fantoccio yemenita ha
chiesto aiuto per risolvere le controversie interne allo Yemen”.
C’è poi il
caso della RWM, sita in Sardegna a Iglesias, che produce armamenti
per conto della Rheinmetall tedesca poiché dopo la Seconda
guerra mondiale è stato stabilito che alcune tipologie di armi non posso essere
più prodotte in Germania. “In questo modo l’Italia riesce a raggirare le leggi,
sia quelle locali, sia quelle europee, sia quelle internazionali”.
La
delocalizzazione produttiva è in contrasto con la già citata 185/1990 (modificata
dal DDL S. 1049 del 7 aprile 2019), che nell’articolo uno vieta espressamente
l’esportazione ed importazione di armamenti verso quegli Stati che usano la
guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Nel quinto
articolo viene vietato il business nel momento in cui non
sussistono “adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei
materiali di armamento”.
Lo stesso
vale per il governo di Riyad, che evidentemente non rispetta i requisiti per
intrattenere il business di armi: all’ascesa del principe
ereditario è corrisposta una sequela di violazioni repressive di enorme portata
con esecuzioni macabre, processi farsa contro gli oppositori del regime, attivisti arrestati e condannati a lunghe pene detentive.
L’asse
Roma-Riyad è rimasto solido, anzi è stato rinsaldato. Si veda il Memorandum of understanding firmato all’alba del nuovo anno tra il ministro
degli Esteri italiano Luigi Di Maio e quello saudita Faisal bin Farhan al-Saud.
Di aziende italiane presso l’Arabia Saudita ce ne sono circa una cinquantina ed
il passo che viene registrato sembrerebbe quindi un ampliamento dei rapporti,
non un ridimensionamento.
La
sensazione è che ai sauditi, nonostante la pericolosità di armare un governo
così belligerante, nessuno vuole rinunciare: immediatamente dopo lo stop
all’export di armamenti firmato dall’allora premier Giuseppe Conte, RMW ha
fatto ricorso: a maggio 2021, però, il TAR del Lazio ha confermato il blocco.
Oltre alla
questione morale e alla dubbia legalità dei transiti, c’è un problema con la
sicurezza pubblica. Quanto è grande il rischio di incappare in una esplosione
come quella del porto di Beirut, quando il 4 agosto 2020 2.750 tonnellate di
nitrato d’ammonio esplose in una nave abbandonata hanno ucciso 214 persone e
ferite altre 7.000?
“Altro che Beirut”
Quanto è
grande il rischio di ripetere una nuova Beirut visto il traffico di navi di
armi nei porti? “Secondo noi è molto alto il rischio: una distrazione, una vite
messa male, potrebbe incidere su un potenziale incidente nell’area portuale”,
spiega Nivoi. “Senza considerare che nella Bahri ci sono dei container con una
portata di trenta tonnellate con all’interno esplosivi, materiale infiammabile
e proiettili. In un caso come questo basterebbe che cadendo un piedino da stiva
buchi il tetto e faccia la scintilla. Altro che Beirut…”
I portuali
affiliati al Calp sono inoltre preoccupati per il progetto di rinnovo dell’area
portuale, che sposterebbe la zona del petrolchimico di Pegli all’interno del
porto, aumentando a livello “esponenziale” il rischio di esplosione. “Abbiamo
esposto sia alla giunta comunale sia all’autorità portuale questa problematica,
chiedendo un piano di evacuazioni in caso di incidente così che la
cittadinanza, che vive molto vicino a dove attraccano le navi, sappia cosa
fare”. Pur consci del problema, “le autorità ci hanno detto che c’è un
interesse sovranazionale e quindi non si può intervenire a bordo di queste
navi”.
Non meno
delicata è la questione della sicurezza degli operai portuali. La difficoltà
palese dello svolgere questo lavoro è aggravata dal contesto burocratico. Pochi
sanno che il porto di Genova è gestito da tredici aziende diverse: “Ognuna
gestisce una banchina che è del demanio ed ogni azienda ha un DVR (Documento di
Valutazione dei Rischi). Noi chiediamo che ci siano degli standard
generalizzati così che se scoppia un incendio anche quelli dei terminal vicini
sappiano come comportarsi”.
Armi smembrate
La
prevenzione degli incidenti diventa più complessa se non si conoscono i
materiali depositati nei container. Per legge i cargo che pesano più di cento
tonnellate sono etichettati con dei codici (IMO) che identificano la tipologia
di pericolosità. Le etichette, quindi, permettono di conoscere la pericolosità
grazie agli adesivi applicati su tutti i lati dei container. “Ad esempio
abbiamo scoperto per caso che in un container diretto in Israele ci fossero
delle armi: abbiamo visto un camion andare verso il porto di Genova con
l’etichetta 1A, quindi missili già composti con l’esplosivo”.
Ma le armi
non vengono spedite tutte come pericolose e spesso vengono usati i porti
civili: “Hanno trovato questa ‘magnifica’ idea di smontare le armi e mandare su
un container l’involucro del missile, su un altro il detonante, sull’altro
l’esplosivo. In questa maniera tu hai due container che viaggiano come merci
normali perché sono pezzi di ferro ed un altro esplosivo, diminuendo i costi:
pagano un terzo di quello che dovrebbero pagare per il commercio di armi”.
A volte per
capire dove finisce realmente la merce contenuta nei container servono degli
stratagemmi: “Un giorno, quando avevamo iniziato da poco la nostra lotta, ci
siamo accorti che all’interno della sopraelevata del porto c’era una fila di
quei fuoristrada bianchi che si vedono nelle zone di guerriglia”. Gli operai
hanno applicato gli adesivi con la direzione dei mezzi, in questo caso “porto
di Tangeri”. “Un giorno, sarà passato un anno, scopriamo un video
su YouTube in cui si vede un fuoristrada color sabbia con sopra una
mitragliatrice utilizzata da un uomo che sparava come un pazzo; c’era un
adesivo mezzo strappato ma ancora leggibile: ‘Tangeri’. Vuol dire che facevano
una triangolazione Genova-Tangeri-Libia, dove montavano l’artiglieria”.
Una sfida globale
I membri del
CALP si sono messi in contatto con i lavoratori portuali di altre città:
Livorno, Trieste, Napoli e poi Amburgo, Anversa, Inghilterra. “Ed
effettivamente anche in quei porti c’è un aumento dei traffici di armi: l’unica
risposta era fare fronte comune. Ognuno con le proprie modalità, ognuno con i
propri mezzi contro gli armamenti”.
Comunicando,
ad esempio, i nomi delle agenzie che gestiscono gli imbarchi. A Genova gli
imbarchi della compagnia Bahri sono curati dalla Delta Agenzia Marittima srl,
che ha pubblicato un documento rivolto alla regione, al prefetto, al comune ed
all’autorità di sistema portuale per denunciare il rischio concreto che la
compagnia Bahri abbandonasse come scalo Genova. Nella missiva è
scritto: “È accettabile che nelle stive di una nave che è territorio straniero,
ovvero territorio sovrano dello Stato di cui questa nave batte la bandiera,
vengano inviati lavoratori portuali, per fotografare il carico e pubblicare poi
che nella stiva erano presenti anche mezzi militari imbarcati in America e
regolarmente denunciati con destinazione Arabia Saudita?”
La Bahri sembra
temere questo fronte unico pensato dai portuali genovesi: nei primi mesi del
2021 si affaccia nelle acque territoriali spagnole la Bahri Jazan con cargo di
armi. I sauditi tracciano rotte strane, mentono sulla destinazione. “In ogni
porto dove andava questa nave era presente o una contestazione oppure uno
sciopero. Rendendosi conto che aveva delle difficoltà ha mandato un marinaio
sulla fiancata a cancellare la scritta Bahri: la compagnia che è prima al mondo
in commercio di petrolio ed armi si sente messa in una posizione di imbarazzo
da venti portuali genovesi”.
I blocchi
degli operai portuali hanno portato a vari problemi diplomatici per l’Italia:
soprattutto con Israele per un carico di bombe destinato a Gaza e, per
l’appunto, con l’Arabia Saudita, dopo il congelamento delle licenze
all’esportazione di circa ventimila bombe da aerei agli Emirati Arabi e ai
sauditi a giugno 2021.
Proprio
nello stesso periodo, il senatore Matteo Renzi volava a Riyad nell’ambito del
ben noto meeting del
board saudita di cui è membro. Se non è ben chiaro il senso del viaggio, è
certo che negli anni in cui era premier abbia intrattenuto un rapporto
remunerativo con Salman. Rispetto ai precedenti governi, l’export di armi verso
l’Arabia Saudita è aumentato del +581%. Nel 2013 (Monti-Letta) le esportazioni
verso Riyad erano 2,1 miliardi di euro, nel 2016 (ultimo anno di Governo Renzi)
valevano 14,6 miliardi.
Un alleato inatteso
Papa
Francesco ha recentemente citato indirettamente proprio i portuali genovesi.
“Tramite un professore della Sapienza, siamo entrati in contatto col Cardinale
Coccopalmerio a cui abbiamo consegnato una lettera da consegnare al Papa: noi
pensavamo finisse lì, invece poi ci hanno chiamato per un appuntamento con il
Pontefice, il 23 giugno 2021. Se il Papa si spende per noi, la Questura di
Genova fa veramente una brutta figura: vallo a spiegare alla cittadinanza che
il Papa ha dato la solidarietà a un gruppo di lavoratori che sono un’associazione
per delinquere”.
Ma la paura,
per José Nivoi e gli altri operai sotto inchiesta, non svanisce: “Abbiamo
molteplici esempi di dissidenti politici finiti in una certa maniera. La mia è
una famiglia di sindacalisti, anche mio padre, tra il ’70 e l’80 ha avuto una
serie di problematiche politiche. Mia madre è terrorizzata, mi dice: ‘Ma chi te
lo fa fare? Hai una figlia…'”.
Da Genova alla Spagna
La
ribellione dei portuali genovesi ha avuto eco in altri porti europei. Nella
battaglia contro le Bahri ha avuto e ha un ruolo di primo piano il
movimento no-war “La guerra empieza aquì” (“La guerra inizia
qui”), nata da una piattaforma cittadina spagnola in difesa dei rifugiati come
risposta al traffico d’armi verso l’Arabia Saudita che coinvolgeva il porto di Bilbao.
Frontiere
News ha chiesto al suo coordinatore Luis Arbide se la Spagna
rispetta le leggi nazionali per la regolamentazione del traffico di armamenti.
“No, non rispetta né le leggi internazionali delle Nazioni Unite né la stessa
legislazione interna spagnola, poiché entrambe vietano espressamente
l’esportazione di armi verso determinati Paesi ‘qualora vi siano ragionevoli
indizi che il materiale possa essere utilizzato per perturbare la pace, la
stabilità o la sicurezza a livello mondiale o regionale’”.
Secondo
Arbide, in Spagna c’è un problema di trasparenza sulle aziende private o a
capitale pubblico implicate nel commercio di armamenti con i sauditi. “Si
tratta di un tema opaco e nascosto, che il governo nasconde dietro una vecchia
legge franchista e antidemocratica denominata ‘Legge sui segreti ufficiali’,
ombrello su cui si basa per non dare informazioni né a mezzi di informazione né
a commissioni o iniziative parlamentari”. Sebbene le proteste degli attivisti
spagnoli non abbiano avuto risvolti giudiziari sostanziali come quelli di
Genova, è nata una forte solidarietà verso i colleghi italiani, il cui modello
di battaglia è “un modello di sensibilità ed etica non comune all’interno di un
collettivo lavorativo. Credo che siano un esempio: hanno tutta la mia
ammirazione. Vorremmo che con la disponibilità dei lavoratori portuali
catalani, questo modello di gestione sindacale con un marcato profilo sociale
possa diffondersi in tutti i porti e fabbriche”.
Se il business della guerra inizia in Europa, per molti lavoratori portuali la battaglia contro i trafficanti di armi è appena iniziata.
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