Per capire come costruirci un buon futuro ci tocca
ragionare sul sistema dell’informazione. Di fatto, ogni nostra decisione,
piccola o grande, riguardante i prossimi trenta minuti o i prossimi trent’anni,
si basa su quello che noi sappiamo adesso.
E quello che noi adesso sappiamo, o crediamo di sapere, rispecchia l’assieme
delle informazioni che, nel corso delle nostre vite e fino a questo momento, ci
hanno raggiunto e colpito. E che, convincendoci della loro rilevanza, hanno
incessantemente contribuito a formare, a modificare (o a deformare) la nostra
visione di noi stessi e delle cose.
DECIDERE RAZIONALMENTE. Poter disporre di informazioni di qualità è
fondamentale perché sia i singoli, sia i governi decidano bene e, per dirla con
Steven Pinker, in modo razionale e responsabile: tale, cioè, da
“salvare il mondo”.
Il problema è che il sistema dell’informazione non è mai stato così turbolento,
pervasivo e soverchiante,
opaco e tossico. Mai così capace di influenzare in modo istantaneo gli
orientamenti individuali e collettivi. E mai così complesso: talmente complesso
che osservarne le dinamiche è difficile. Qui di seguito riassumo alcuni punti.
Unendoli è possibile, se si vuole, cominciare a farsi un quadro.
SITUAZIONE INEDITA. In realtà, tutto il sistema dell’informazione oggi
ruota attorno a un piccolo gruppo di entità che fino a venti, a dieci o a
cinque anni fa neanche esistevano. Facebook viene concepito nel febbraio del
2004 e arriva in Italia nel maggio del 2008. Youtube pubblica il suo primo
video ad aprile 2005. Twitter si costituisce nel 2007. WhatsApp viene lanciata
nel novembre 2009. Instagram nasce nell’ottobre 2010. Telegram nasce nel 2013.
Il lancio di TikTok è del settembre 2016.
Google precede tutti perché nasce nel 1998.
Già nel 2011 un articolo dell’Università dell’Indiana segnala che i social
media stanno disegnando un nuovo
ecosistema. La disintermediazione offre
opportunità e implica rischi inediti. E le cose succedono così in fretta che
neanche si riesce a capirne fino in fondo il funzionamento e le conseguenze.
Tanto meno si riesce a stabilire delle regole.
MAGGIOR QUANTITÀ, QUALITÀ
MINORE. Delle dinamiche di base
che, nel contesto del sistema dell’informazione, governano la produzione di
notizie, ci parla un ottimo
articolo pubblicato su Farnam Street.
In sintesi: in rete, la velocità di consegna delle notizie aumenta. Il costo
medio di produzione e la qualità media delle notizie diminuiscono. Le persone
vengono incentivate a investire sempre più tempo per consumare sempre più
notizie irrilevanti e di cattiva qualità.
Questo risultato si ottiene profilando gli utenti, confezionando notizie su
misura (quindi, alterandole in modo che risultino più gradite a ogni singolo
utente) e radicalizzandone i contenuti. Dei rischi connessi con la profilazione
degli utenti e con la manipolazione dell’opinione pubblica tramite notizie
false (elezioni Usa 2016, Brexit) ci si comincia ad accorgere solo nel 2018,
quando scoppia lo scandalo
Cambridge Analytica.
LA DISINFORMAZIONE RENDE. Oltre ad avere un ridottissimo costo di produzione
(non c’è bisogno di preparazione e competenza, di indagini sul campo, di
verifiche) in rete le notizie false offrono una redditività molto più alta di
quella delle notizie vere: come attesta il Mit già nel 2016, le fake news
raggiungono molte più persone, viaggiano più in fretta e arrivano più in
profondità.
Il motivo è semplice: le notizie false sono più “nuove”, sorprendono,
scandalizzano, impauriscono o fanno arrabbiare di più. In sostanza, coinvolgono
di più. Quindi, procurano anche più pubblico agli inserzionisti pubblicitari.
Un’indagine recente,
compiuta da NewsGuard e Comscore su un campione di 7500 siti, ci dice che, nel
solo mercato statunitense, ai siti che diffondono fake news le inserzioni
pubblicitarie rendono oltre un miliardo e mezzo di dollari di guadagni
all’anno.
INSERZIONI AUTOMARIZZATE. Poiché l’allocazione delle inserzioni è automatizzata,
molte grandi marche, senza neanche saperlo, finanziano i siti di fake news
attraverso la pubblicità. Secondo i dati del Pew Research Center per ogni 2,16
dollari di pubblicità digitale a testate giornalistiche
legittime, gli inserzionisti statunitensi danno circa 1 dollaro ai siti di
disinformazione. Minimizzare o eliminare la pubblicità su
questi siti sarebbe una buona idea: ogni dollaro speso in pubblicità che va a siti di disinformazione
contribuisce molto più alla produzione di notizie false di quanto un dollaro
speso in pubblicità che va a media legittimi contribuisca alla produzione di
giornalismo credibile. Questo intossica l’intero sistema
dell’informazione.
SEMPRE PIÙ SOLDI IN RETE. In una manciata di anni, una larga parte
dell’investimento pubblicitario ha smesso di sostenere i media classici,
riducendo drammaticamente le risorse necessarie a fare buona informazione.
In Italia, per esempio, tra il 2010 e il 2020 i ricavi dei maggiori gruppi
della stampa si sono più che
dimezzati. Negli Stati Uniti, come ricorda Jill Abramson nel
recentissimo Mercanti di
verità – La Grande guerra dell’informazione (Sellerio), lo smantellamento
dell’informazione locale è stato uno degli sviluppi più devastanti dell’era di
internet.
Sempre secondo Pew
Research, già nel 2018 si investe online il 49 per cento dello stanziamento
pubblicitario globale. Nel 2019 è il 51 per cento. Già el 2021 si stima che sia
il 63 per cento. Nel 2024 potrebbe essere il 67,9 per cento.
Nel 2020 fa capo al solo Facebook il 45 per cento dell’investimento
pubblicitario mondiale. Google segue con un ulteriore 10 per cento. Le
logiche economiche che in precedenza reggevano l’intero sistema
dell’informazione sono esplose.
E LE TASSE? A fronte di profitti giganteschi, la tassazione è sempre
stata irrisoria: per anni i colossi digitali hanno spostato i loro profitti nei
paradisi fiscali. Finalmente 136 paesi hanno concordato di applicare, a partire
dal 2023, una (modesta)
aliquota del 15 per cento sui profitti, e di farlo là dove i
guadagni vengono realizzati.
I due signori Google e il signor Facebook sono oggi nel gruppo dei dieci uomini più
ricchi del mondo (dello stesso gruppo fanno parte anche il
signor Amazon, il signor Microsoft e il signor Oracle).
POTENZA STRANIERA. Facebook si comporta come una
potenza straniera ostile; è ora che lo trattiamo come tale, titola
l’Atlantic. Il social network raggiunge oggi 2,9 miliardi di utenti
attivi mensili: è più delle popolazioni di Cina e India messe assieme. In
effetti, argomenta l’Atlantic, Facebook andrebbe considerato come una potenza straniera ostile perché è
focalizzato esclusivamente sulla propria espansione e
sull’incremento dei propri guadagni.
Secondo il politologo e storico Benedict Anderson, “le nazioni non sono
definite dai loro confini ma dalla loro immaginazione”. In questo senso,
Facebook pratica un nuovo tipo di colonialismo. È progettato per suscitare
reazioni emotive forti. Ha condotto esperimenti sulle reazioni psicologiche
degli utenti senza il loro consenso e ospitato contenuti che incitano all’odio
e al terrorismo.
Ricordiamo che, per esempio, alla disinformazione tramite Facebook nel 2018 si
imputa il massacro
dei Rohingya in Myanmar. E che a Facebook viene attribuito un ruolo
centrale nell’assalto di Capitol Hill.
BIG DATA E NEOCOLONIALISMO. Di neocolonialismo tecnologico parla anche Yuval
Noah Harari, intervistato da Repubblica: Se prima le diseguaglianze
erano nei possedimenti terrieri, oggi lo sono nei big data, l’asset più
prezioso della nostra epoca. È estremamente rischioso che questa enorme mole di
dati sia in mano a giganti come Facebook, Google, Alibaba. Se non stoppati
subito, le disparità saranno sempre più estreme. Potrebbe scatenarsi un nuovo
colonialismo digitale.
OPACITÀ. Altri, come il conduttore della CNN Brian Stelter,
rimarcano l’opacità e la perniciosità dei comportamenti di Facebook paragonandoli a
quelli delle multinazionali del tabacco. È quanto sostiene anche Frances
Haugen, l’ex dipendente che consegna al Wall Street Journal una quantità di
documenti scottanti: sono i Facebook
files, dai quali risulta che Facebook nulla fa per contrastare
gli usi penalmente perseguibili delle proprie pagine (spaccio, tratta di esseri
umani, pornografia, disinformazione sulla pandemia, bullismo, razzismo). Che si
sforza di coinvolgere utenti sempre più giovani, per la cui salute mentale
dimostra un totale disinteresse. Che il controllo sui post non in lingua
inglese è pressoché inesistente.
L’APPELLO DI HAUGEN. Testimoniando
davanti al Senato statunitense, Haugen dice: quando il governo si è reso conto che il fumo è nocivo per la
salute è intervenuto. Quando è stato chiaro che le cinture di sicurezza salvano
vite umane il governo ha obbligato l’industria dell’auto ad adottarle. Quando
si è visto che i farmaci oppioidi creano dipendenza la politica è intervenuta.
Vi supplico di farlo anche ora davanti ai danni sociali provocati da Facebook.
Un coinvolgimento di Facebook risulta perfino nella vendita illegale, e nella
conseguente deforestazione, di parti della
foresta pluviale: la fonte è la BBC, che ha condotto un’approfondita
indagine in merito.
MODELLO DI BUSINESS. Un consistente articolo del New York Times, invece,
segnala che l’azienda, con il Project Amplify,
ha avviato una intensa attività per tutelare e ricostruire la propria immagine,
utilizzando il NewsFeed per presentare storie positive, e limitando la
disponibilità dei dati che permettono ai ricercatori di studiarne gli effetti
sociali avversi.
Certo: è la stessa Haugen a sottolineare che Facebook non promuove
intenzionalmente l’odio, la rabbia, la frustrazione, l’illegalità o la
disinformazione. Ma, di fatto, la sua impostazione algoritmica, che corrisponde
a un modello di business inteso a incrementare a ogni costo il coinvolgimento
per massimizzare i profitti pubblicitari, va in questa direzione.
BLACKOUT. Il 4 ottobre 2021 Facebook, Instagram e WhatsApp si
spengono per 7 ore circa a causa di un errore umano nella configurazione dei
router. È il blackout più lungo di sempre. Il titolo perde 6.11 miliardi di
dollari. L’interruzione, scrive il
Guardian, evidenzia la dipendenza che gran parte del mondo ha nei
confronti del social network, mette in risalto la sua posizione dominante, ci
mostra quanto è ormai integrato nella vita quotidiana delle persone. Quanto è
al centro delle economie informali di paesi come India, Messico e Brasile. E
quanto è fragile.
Certo: nessuno nega che Facebook aiuti le persone a restare connesse, e anche a
lavorare. E che abbia contribuito a modernizzare il sistema dell’informazione.
Ma non fa solo quello. Una posizione dominante così accentuata, unita alla
dimensione planetaria e all’enormità delle risorse disponibili, dovrebbe
implicare un’altrettanto accentuata assunzione di responsabilità. Almeno per
ora, non è così.
UN ALTRO MILIARDO. Subito dopo il blackout, come scrive il
Sole24Ore, Facebook rilancia con prodotti e tecnologie intesi ad
aumentare la connettività dei paesi in via di sviluppo: il nostro impegno per la
connettività ha contribuito a fornire a più di 300 milioni di persone una rete
internet più veloce – ha dichiarato il vicepresidente Dan Rabinovitsj –
siamo impazienti di offrire la stessa opportunità a un altro miliardo di utenti.
E poi c’è il progetto del
Metaverso, che dovrebbe portare tutti quanti a vivere esperienze virtuali
grazie alla realtà aumentata, qualsiasi cosa questo significhi.
IL PROBLEMA E LA
SOLUZIONE. Chiariamoci bene: il problema non è la rete. E
non sono nemmeno i social media in quanto tali. È l’informazione tossica
(irrilevante, polarizzante o fuorviante) che alcune dinamiche della rete
incentivano a scapito dell’informazione di qualità. La soluzione non è star
lontani dalla rete. È riconoscere e privilegiare l’informazione di qualità,
dovunque si trovi: offline oppure online.
SISTEMA DELL’INFORMAZIONE E
DEMOCRAZIA. Haugen consegna i
suoi Facebook Files a un quotidiano autorevole come il Wall Street Journal, e
non altrove. Basterebbe questa scelta a rimarcare, proprio in tempi turbolenti
come questi, l’importanza dei giornali, della loro credibilità e
del loro ruolo di controllo nei confronti del potere (di ogni potere).
Della centralità della buona informazione per la democrazia ci parla il Nobel
per la pace recentemente attribuito a due giornalisti coraggiosi, la filippina
Maria Ressa, fondatrice di Rappler, una media company che si occupa di
giornalismo investigativo, e il russo Dmitry Muratov, fondatore e direttore di
Novaya Gazeta, la testata per cui lavorava Anna Politkovskaya.
Sono segnali da cogliere.
Il precedente Nobel per la pace attribuito a un giornalista risale al 1935. A
vincerlo è Carl von Ossietzky, incarcerato per la sua denuncia
dell’antisemitismo e del riarmo tedesco, e morto di tubercolosi nel 1938 mentre
è ancora sotto sorveglianza della Gestapo.
Merita un ricordo anche adesso. Anzi, proprio adesso.
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