Un global flop, da Roma a
Glasgow - Nicoletta Dentico
Capita
raramente di assistere a una sequenza di eventi globali così incalzanti da
costringere i governi a metterci la faccia, per rispondere alla pressione
dell’opinione pubblica mobilitata per le strade, e non solo alle ragioni talora
oscure della geopolitica. Impegnati senza soluzione di continuità tra il summit
conclusivo del G20 e la storica COP26 in corso a Glasgow, i leader della
comunità internazionale, in un certo senso, non hanno scampo.
Al summit di
Roma, evento conclusivo della presidenza italiana del G20, i capi di Stato e di
governo ci sono arrivati stremati dalle assenze annunciate di Russia e Cina e
dalle profonde divisioni interne, e fino all’ultimo sono stati imbrigliati nel
negoziato, per atterrare con difficoltà sul terreno comune di una dichiarazione
finale dopo mesi di impegni vacui e una retorica sempre più lontana dalla
realtà. Dal canto suo, la diplomazia italiana era pronta a inventarsi qualunque
escamotage pur di dare l’impressione di aver lasciato un segno di successo
diplomatico sul fronte della lotta alla pandemia e del cambiamento climatico.
Francamente non è successo, nonostante il giudizio della stampa nostrana che ha
raccontato il G20 come un’inversione di tendenza nella storia del
multilateralismo, il ritorno simbolico sulla scena di un know-how tutto italiano in grado di convincere e
raccordare posizioni molto divergenti. Arroccata sulla propaganda di pompose
epocali decisioni, la stampa italiana, ben diversamente da quella straniera, ha
operato un autentico travisamento della realtà, un travisamento privo di
sensatezza perché induce al contrappunto di un’opinione pubblica sempre più
cinica, disillusa di trovare risposte nell’autismo della politica.
Gli
appuntamenti del G20 e della COP26 segnano del resto solo una prima fase di
settimane incandescenti e decisive per la definizione degli scenari futuri del
mondo, dopo due anni di pandemia. La partita si gioca su più tavoli, distinti
ma dialoganti tra loro, perché se c’è una cosa che COVID-19 ha insegnato al
mondo è l’interconnessione non solo tra le persone e i popoli, ma anche tra i
loro problemi.
All’Organizzazione
Mondiale del Commercio (Omc) non si sono mai interrotti i negoziati per cercare
una ostica mediazione sulla proposta di sospensione dei diritti di proprietà
intellettuale (TRIPS Waiver) che India e Sudafrica hanno presentato un anno fa
per liberare l’accesso alla conoscenza farmaceutica e ampliare la capacità di
produzione dei rimedi contro COVID-19, vaccini e non solo; in vista della
dodicesima conferenza ministeriale di fine novembre, la persistente reticenza
europea a questa proposta mette a dura prova il multilateralismo commerciale a
Ginevra. Pure all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) c’è una certa
fibrillazione da quando si sono accesi i motori della diplomazia internazionale
sulla proposta di un trattato pandemico, sospinto dall’Unione Europea, con
l’intento di stabilire regole vincolanti per rispondere alle pandemie del
futuro. Il trattato pandemico sarà oggetto di una sessione speciale della
Assemblea dell’Oms a fine di novembre, sempre a Ginevra. Si tratta di percorsi
diplomatici concomitanti e ad alta intensità: analisti molto accreditati
ritengono infatti che gli slanci della UE a favore del trattato pandemico
all’Oms siano una mossa diversiva rispetto alla moratoria temporanea della
proprietà intellettuale che Bruxelles continua ostinatamente a bloccare.
Finanza,
clima, salute: su questi temi, il consesso del G20 era improrogabilmente
chiamato a dare un forte segnale, anche perché racchiude l’80% delle emissioni
di CO2. La speranza era che, nella interazione tra pochi
governi, si potessero recidere, con visioni aderenti alla realtà e
finanziamenti vincolanti, i nodi gordiani che dall’inizio della crisi pandemica
mettono a dura prova il multilateralismo. Impreparato ad affrontare l’arrivo
del virus, e oggi incapace di trovare una convergenza efficace almeno sul
terreno dell’emergenza sanitaria e climatica, le due facce dello stesso
fallimento di modello economico. Sebbene evocato a
più riprese negli interventi della Nuvola, il coraggio di un orizzonte basato
su regole globali intese al perseguimento dell’interesse pubblico e in grado di
rilanciare la funzione dello Stato sulle sfrenate ragioni dell’economia
neoliberista, non si è visto. Non c’è. Il G20 ha coinvolto regine, principi e
privati per ragionare sull’urgenza delle soluzioni.
Si è vista
invece molta mistificazione. Sul clima, Draghi ha riconosciuto apertamente la
sfiducia tra paesi emergenti e industrializzati sul terreno della
responsabilità del riscaldamento globale, e ha speso parole forti sulla
necessità di rispondere ai rischi del futuro, di ingaggiare leadership
collettiva, di adattare tecnologie e stili di vita al “nuovo mondo da
costruire, se vogliamo che sia la gratitudine, e non il risentimento, a segnare
la risposta delle nuove generazioni”. Ma la dichiarazione finale del summit di
Roma, che pure consolida l’accettazione dei risultati scientifici dell’IPCC per
contenere il riscaldamento climatico entro 1,5 gradi centigradi, riproduce la
consueta incapacità dei vertici ufficiali di tradurre in impegni misurabili la
radicalità delle scelte climatiche che questo tempo impone, per la salute del
pianeta e della popolazione mondiale. Il testo del G20
non fissa una data per il conseguimento dell’obiettivo da parte dei più
impattanti emettitori di gas clima-alteranti. Consente anzi ai governi che detengono
l’80% del PIL mondiale e la più grande responsabilità per la devastazione del
pianeta di conseguire il traguardo in base alle loro intenzioni, interessi e
possibilità. Come se bastassero piccole modifiche incrementali a impedire il
crollo del complesso ecosistema planetario, visibilmente assediato da eventi
che segnano punti di non ritorno tali da rendere questo mondo inabitabile per
milioni di persone già oggi, come ha ricordato nel suo intervento a Glasgow la
straordinaria prima ministra delle Barbados in apertura dei lavori.
Senza
obblighi vincolanti, e senza una rotta temporale cogente all’altezza della
emergenza planetaria, il G20 ha consegnato alla COP26 di Glasgow declamazioni
vuote di credibilità, orientate ancora una volta alle ragioni della economia
globalizzata piuttosto che a un improrogabile nuovo pensiero sul modello di
sviluppo ecologico. E infatti i governi del G20 proseguono, con le loro imprese
a briglie sciolte, l’opera di erosione della biodiversità, l’incremento della
deforestazione globale, gli accordi di libero commercio che favoriscono
l’avanzare della catastrofe.
Il
capitalismo fossile va dritto per la sua strada, ha fatto notare Mariana
Mazzucato su The Guardian: un incredibile 56%
dei fondi per la ripresa post-pandemica dei paesi del G20 è destinato alle
aziende che estraggono combustibili fossili. E l’industria
finanziaria dal canto suo ( HSBC, Deutsche Bank, Credit Agricole, per citare i
big più noti), mentre firma ad aprile impegni per azzerare le emissioni entro
il 2050, sotto le spoglie della Glasgow Financial Alliance for
Net Zero, continua oggi a investire nelle pipeline che sventrano le
terre dei popoli indigeni, in un complesso sistema che tiene insieme
multinazionali delle energie fossili, enti di gestione di investimenti privati,
fondi pensione e istituzioni finanziarie internazionali. I miliardi di alberi
da piantare promessi nella dichiarazione del G20 di Roma non saranno la foglia
di fico con cui barattare il futuro delle nuove generazioni.
La fiducia
intergenerazionale non è merce che si acquista a buon mercato, vista l’onda di
mobilitazione popolare. E’ una tragedia che i leader del G20 non riescano a
capire il messaggio radicale che viene dalle strade – a Roma prima e in questi
giorni in Scozia: percorsi che vanno popolandosi del senso di rivolta
di chi non ha più nulla da perdere, perciò chiede,
anzi esige un nuovo paradigma. Il rapido superamento del capitalismo
finanziario che genera patogenesi tanto visibili: “la crisi climatica è una
crisi della salute globale”, ha dichiarato il Dr Tedros, direttore generale
dell’Oms, alla conferenza dell’Oms su clima e salute, in questi giorni a
Glasgow.
Ma neppure
sul fronte sanitario si sono registrati progressi. La crisi sanitaria persiste
– SARS-CoV-2 insidia la Russia e i paesi dell’Europa, non più solo orientale –
e persiste anche l’apartheid dei vaccini. Anzi, si aggrava. La responsabile
scientifica dell’Oms, Soumya Swaminathan, ha spiegato come il numero delle
terze dosi somministrate (circa un milione al giorno) sia tre volte superiore
alle prime dosi di vaccino iniettate nei paesi a basso reddito (circa 330.000
dosi al giorno). Su questa ingiustizia mondiale, la
dichiarazione del G20 mantiene il difetto di fabbrica di rilanciare impegni già
assunti e mai materializzati.
Il vertice
di Roma ha ribadito l’obiettivo sancito dai ministri del G20 salute a settembre
di vaccinare il 40% della popolazione mondiale entro la fine del 2021 e il 70%
di immunizzazione entro la metà del 2022. Per come
stanno le cose, con solo il 9% delle donazioni promesse dal G7 erogate –
ammesso e non concesso che siano le donazioni la soluzione – e con solo 435 milioni di dosi di vaccini
distribuiti da COVAX a 144 paesi (al 2 novembre), la dichiarazione ha tutti i
risvolti della presa in giro. Eppure, al
punto 5 della dichiarazione conclusiva, il G20 si ostina a
rilanciare iniziative internazionali in coma come COVAX, ovvero altre
iniziative specifiche nate nel 2021 sulla scia della pandemia, tutte ispirate a
un approccio puramente farmacologico delle soluzioni contro la pandemia, anche
quando il testo parla di One Health, la salute che abbraccia persone, animali e
ambiente. Ma nella esuberante frantumazione di soluzioni proposte, il G20
rinuncia a denominare la sola misura politica internazionale in discussione
all’Omc che, se attuata con tempestività, avrebbe permesso la produzione di 8
miliardi di vaccini con una ripartizione regionale delle capacità produttive, entro la fine del 2021. Lo dice uno studio
pubblicato da Public Citizen e dall’Imperial College di Londra la scorsa
estate. Sulla proposta di India e Sudafrica, membri del G20, la presidenza
italiana ha scelto un silenzio tombale, da sindrome di rimozione.
Infine, non
possiamo tacere sul compromesso raggiunto dal G20 in materia di nuove regole
fiscali per le multinazionali, la cosiddetta global corporate tax che
dovrebbe attaccare la patologica corsa al ribasso del sistema economico globale
sui costi di produzione, costi del lavoro, ambientali e fiscali, al fine di
massimizzare i profitti. Questa corsa al ribasso è una forza impressionante del
sistema della globalizzazione. In particolare, sul fronte fiscale, essa genera
una concorrenza distruttiva tra amministrazioni dei singoli stati, i quali
offrono opportunità di trattamenti fiscali di favore pur di attirare entro i
propri confini la localizzazione delle imprese, incentivando comportamenti
elusivi. In base all’accordo, le multinazionali con fatturato annuo superiore
ai 750 milioni di dollari residenti nei paesi del G20 saranno obbligate a
versare un’aliquota effettiva del 15%, a partire dal 2023, su una base
imponibile che beneficerà già di grosse deduzioni. Il tasso del 15% concordato
dal G20 risulta di poco superiore alle aliquote medie del 12% dei regimi
preferenziali nei paradisi fiscali, ciò che non cambia molto il quadro di
riferimento. Semmai, l’esito paradossale è quello di trasformare tutto il mondo
in un grande paradiso fiscale a partire dal 2023, stando ai dati medi correnti
che dimostrano come la aliquota delle tasse sulle multinazionali sia intorno al
27,46% in Africa, 27,18% in America Latina, al 20,71 in EU, 28,43% in Oceania e
21,43 % in Asia. La media globale si assesta intorno al 23,64%. Un livello così
basso di tassazione – perfino gli USA avevano proposto il 21% – potrebbe
configurare nuovi equilibri, decisamente al ribasso.
Infine, non
una sola parola sulla cancellazione del debito dei paesi poveri, una misura
anch’essa indispensabile e legata a doppio filo con la capacità di risposta
alle prossime pandemie. I paesi creditori del G20 hanno accumulato un debito
ecologico enorme verso il sud globale: i salti di specie degli ultimi decenni,
e la predizione di spillover futuri,
sono connessi alla necessità di affrontare la “crisi globale del debito”, così
dichiarata nel gennaio 2020 dalla Banca Mondiale, che esige anch’essa un nuovo
paradigma di gestione a livello internazionale.
Restiamo,
così, invischiati nella bassa marea della politica globale.
Cop26 e G20 sono solo una
farsa: abbiamo idea di quanto carbonio hanno prodotto? - Loretta Napoleoni
Ci risiamo:
dopo una breve pausa dovuta al Covid, ecco che riparte il teatrino dei big politici,
con tanto di cocktails, cene e foto di gruppo, tutte
rigorosamente senza mascherina.
Questa volta
però l’assurdità della farsa è palese: sullo sfondo della crisi climatica che
rischia, in un futuro non troppo lontano, di estinguere la nostra specie, ci si
incontra a Roma per il G20 e a
Glasgow, subito dopo, per il Cop26. Aerei di
linea, jet privati e velivoli di stato, su cui viaggiano i capi dei governi con
al seguito assistenti e stampa, sono volati a Roma per poi rialzarsi in volo
per Glasgow prima di tornarsene nel proprio continente e nazione. A questa
massa critica si sono aggiunti tutti i partecipanti al Cop26, molti dei quali
sono arrivati su uno dei 400 jet-privati che hanno mandato in tilt l’aeroporto
di Glasgow. Abbiamo idea di quanta CO2 l’incontro di Roma
e quello di Glasgow abbiano prodotto?
Incidentalmente,
è impossibile trovare una risposta, nessuno si è dato la briga di fare un
calcolo, anche molto, molto approssimativo, su questo aspetto. Eppure,
bisognerebbe iniziare proprio da questo inutile spreco per parlare seriamente
di clima.
Un aspetto
mai discusso del problema climatico è il marketing politico in casa e
all’estero: questo consuma molto carbonio. Joe Biden è
atterrato a Roma con il suo Air Force One carico di giornalisti e amministrazione
di supporto, inclusi coloro che portano la valigetta del nucleare, che lo
accompagna dovunque. Tutta questa gente si è mossa
con una carovana di 85 macchine, per la maggior parte Suv, e dalle
foto non sembrano auto elettriche ma a benzina o a diesel. Con questo codazzo
di carbonio costantemente al seguito, Biden è andato dal Papa a farsi benedire
per quello che farà per salvare l’umanità dalla catastrofe climatica. E magari
Sua Santità lo ha anche benedetto per questo!
Intanto a
casa sua, il presidente americano ha concesso ai produttori di carbone di
continuare ad estrarre il fossile a patto che catturino le emissioni di CO2 da
loro prodotte. Ma quali? Quelle relative all’estrazione o tutte, incluse quelle
prodotte dal consumo? Come sempre di questi particolari non si parla. Neppure
sanno gli americani che ad oggi non esiste negli Usa una tecnica applicata per
catturare il CO2 emesso dalla produzione di carbone ben testata e che
funzioni. Propaganda verde, dunque. La verità
è ben diversa: a fronte della crisi energetica la
cessazione dell’uso del carbone verrà posticipata e questa
vergogna sarà nascosta con la foglia di fico della “cattura”
dei suoi gas mortali.
Prima di partire,
Biden ha annunciato un programma di spesa di 1,75 trilioni di dollari per progetti di energia verde
e antinquinamento che vuole sia votato dal congresso. Il costo è 555 miliardi
di dollari che verranno prodotti, come ormai è di prassi, battendo qualche
tasto sulla tastiera del tesoro americano, ma anche di questa tecnica non si
parla mai e gli americani sono convinti che saranno le
loro tasse a pagare la riconversione verde. Con questo annuncio
Biden è volato in Europa senza preoccuparsi della scia di carbonio che si
lasciava dietro.
Perché il
G20 e il Cop26 non si sono svolti nello stesso posto per contenere l’impronta di carbonio? Sarebbe
stato un gesto significativo per il mondo. Ma a Mario
Draghi e a chi lo sostiene su entrambe le sponde dell’Atlantico
faceva comodo la foto davanti alla fontana di Trevi al centro dei colleghi
leader politici e non più di lato insieme ai banchieri centrali. Il G20 di
Roma, che non ha prodotto nulla, un comunicato neutro dove non
ci si impegna a fare nulla, è servito a sancire la posizione
politica dell’ex tecnico che ormai è a tutti gli effetti una figura politica.
Piace agli italiani questa immagine e piace al resto del mondo. La campagna di
marketing politico ha funzionato benissimo, i costi in termini di emissione di
carbonio sono stati alti, ma non importa: non se n’è accorto nessuno.
Si può
andare avanti elencando le politiche di marketing degli altri politici,
da Boris Johnson a Glasgow a Emmanuel Macron, che dopo una puntatina in Scozia se ne
è tornato a casa, ma non ne vale la pena. Più importante è l’assenza di Vladimir Putin e di Xi Jinping, rispettivamente grossissimo produttore e consumatore
di energia fossile, sia dal G20 che dal Cop26: qualsiasi accordo che verrà
raggiunto senza di loro varrà ben poco.
Se
continuiamo così, ignorando l’evidenza, nutrendoci
della propaganda del marketing politico e rallegrandoci che il clima alzi questo
gran polverone di CO2, allora forse i cambiamenti climatici ce li meritiamo!
La grande truffa dello zero netto - Giorgio
Salerno
Sono purtroppo molto fondati i diffusi timori che la COP 26 in corso a
Glasgow non riesca a concludersi con un accordo tra tutti i Paesi all’altezza
delle necessarie, drastiche decisioni di immediate e consistenti riduzioni
delle produzioni di combustibili fossili.
I grandi media accusano preventivamente Cina, India e
Russia – che indubbiamente hanno importanti responsabilità – di non voler
accettare la tempistica degli obiettivi di riduzione, per occultare una realtà
scomoda: le grandi multinazionali che hanno i loro centri direzionali
nei Paesi del ricco Occidente continuano a puntare sui combustibili fossili,
nonostante proclamino a gran voce di abbracciare la svolta “verde”, e i vari
governi non possono e/o non vogliono obbligarle a cambiare strategia.
Le analisi che lo confermano sono ormai numerose e in molti casi
autorevoli.
Per esempio, nel recentissimo “Production Gap Report” dell’UNEP – il
programma per l’ambiente dell’ONU – è scritto che la produzione globale di
carbone, petrolio e gas deve iniziare a diminuire immediatamente e
significativamente, per non superare l’aumento medio planetario di 1,5°C
rispetto all’epoca pre-industriale [siamo già a +1,1°C], limite ribadito
solennemente al termine del G20 concluso pochi giorni fa. Peccato che, se non si
modificano subito gli obiettivi reali di produzione, la
temperatura media della Terra, come ci informano i ricercatori dell’ONU nel
loro rapporto, schizzerà a +2,7°C nel corso di questo secolo:
provocando una catastrofe climatica certa e terribile per l’umanità e la
biosfera.
Infatti, i governi dei Paesi produttori hanno programmato fino al
2030 il 110% in più di produzione dei combustibili fossili rispetto
alla quantità che limiterebbe il riscaldamento globale a +1,5°C. Tale
aumento percentuale è composto da: +240% (!) carbone, +57% petrolio e +71% gas.
“Still A Big Con”,
un rapporto[1] stilato pochi giorni fa dal Corporate
Europe Observatory (insieme a Friends of the Earth, Corporate
Accountability, Global Forest Coalition), analizza le strategie di greenwashing di
sei aziende multinazionali di combustibili fossili – ma è una pratica comune di
tutta questa ricca e potente industria – e in particolare di cosa vuole
nascondere lo slogan che ripetono da tempo e rilanciano alla COP 26 di
Glasgow: NET ZERO (ovvero: Zero Emissioni Nette). Lo
scopo è, naturalmente, impedire che vengano prese decisioni che determinino
davvero l’azzeramento delle emissioni.
In breve, ecco cosa dice il rapporto.
# BRITISH PETROLEUM
Condannata nel 2019 per crimini ambientali in Sud Africa, il 28 ottobre
scorso è stata convocata dal Congresso degli Stati Uniti, accusata di
disinformazione sul clima. Investirà nei prossimi anni $ 71 mld per estrarre
combustibili fossili. Nel 2022 avvierà sette progetti di nuovi idrocarburi.
Giustifica i suoi investimenti affermando che il gas fossile, l’idrogeno
fossile e la cattura e immagazzinamento del carbonio sono soluzioni conformi
all’obiettivo di zero emissioni. E punta sulle “compensazioni”
[N.d.R.: piantando alberi], invece di ridurre le sue emissioni di gas serra.
Nei mesi precedenti la COP 26, ha avuto 58 incontri con i ministri britannici e
ha partecipato a tre importanti eventi con esponenti governativi,
sponsorizzando le sue false soluzioni.
# MICROSOFT
È la più grossa partner tecnologica dell’industria del petrolio e del gas,
vendendo macchine di intelligenza artificiale per la ricerca e l’estrazione.
Non ha fissato alcuna data per chiudere i suoi accordi con l’industria dei
combustibili fossili e i suoi piani per zero emissioni si
basano essenzialmente sulle “compensazioni” e sulle tecnologie per la cattura
di milioni di tonnellate di CO2 – anche se ammette che quelle tecnologie non
esistono ancora. Nell’attività di lobbying ha speso nel 2021
(finora) più di $ 5 mln a Washington e l’anno scorso oltre € 5 mln a Bruxelles.
Partner principale nella COP 26, consultata da capi di stato e di governo.
# DRAX[2]
È la maggiore fonte singola di emissioni di CO2 del Regno Unito e distrugge
aree di biodiversità, in parte incendiando foreste, più di qualunque altra
azienda nel mondo. I suoi piani per zero emissioni prevedono
la cattura e l’immagazzinamento di 16 mln di tonnellate annue di CO2,
utilizzando tecnologie pericolose e sperimentali. Anche se ci riuscisse, si
tratterebbe di appena l’1% della CO2 che produce. I suoi lobbysti hanno
incontrato i ministri britannici 31 volte nei mesi precedenti la COP 26,
ricevendo l’apprezzamento di molti politici di alto livello, incluso il
presidente della COP 26, Alok Sharma. Alla conferenza di Glasgow è partner del
Forum per l’Innovazione Sostenibile e ha contatti diretti con i decisori
politici.
# IETA
Associazione Internazionale per il Commercio delle Emissioni: fondata,
finanziata e diretta da grandi inquinatori come BP, Chevron, Shell. Da più di
20 anni impegnata nella promozione del fallimentare modello del “mercato del
carbonio”. Per zero emissioni considera fondamentale proprio
quel modello, che dichiara essere irrinunciabile per l’approccio
“multilaterale”. Ammette persino che i suoi piani non tengono conto del loro
impatto sociale ed ecologico. In cambio della centralità dei mercati del
carbonio, propone l’azzeramento del debito dei Paesi del Sud verso quelli del
Nord del mondo. La sua delegazione alla COP 26 è più numerosa di qualunque
altra dei Paesi presenti e organizza una serie di eventi a cui partecipano capi
di stato e di governo.
# BLACKROCK [3]
Ha investito $ 85 mld nell’industria del carbone e $ 75 mld in aziende che
ricavano petrolio dalla sabbie bituminose. Principale investitore nelle aziende
impegnate nella deforestazione. Il suo piano per zero emissioni indica
la data del 2050 ma non ha alcun progetto per decarbonizzare il suo capitale e
non ha definito alcun obiettivo quantitativo di riduzione di emissioni o
disinvestimento dalle industrie inquinanti. Ha bocciato l’88% delle proposte di
suoi azionisti per contrastare i cambiamenti climatici. Per meglio tutelare i
suoi interessi, fa parte dell’Alleanza Finanziaria di Glasgow per Zero
Emissioni. Nel 2020 ha finanziato con $ 1,83 mln la campagna elettorale di
Joseph Biden e con € 28 mln l’U.E. Ha partecipato a molte conferenze e gruppi
di lavoro di preparazione alla COP 26, dove parlerà in vari incontri e
conferenze su zero emissioni.
# SHELL
Responsabile del 2% delle emissioni storiche mondiali di biossido di
carbonio e metano. Rinviata a giudizio dalle corti di Amsterdam per le sue
attività estrattive in Indonesia, Sud Africa, Mozambico, Nigeria e Canada,
determinando situazioni di ingiustizia e violenza verso le popolazioni locali.
Il suo programma di zero emissioni prevede di spendere ogni
anno $ 8 mld per produrre petrolio e gas e aumentare del 20% quella di gas
naturale liquefatto. Invece di ridurre le sue emissioni, prevede di
“compensare” ogni anno 120 mln di tonnellate di CO2, riforestando una
superficie pari al triplo dei Paesi Bassi. Prima della COP 26, ha incontrato 57
volte i ministri britannici e ha speso € 4,25 mln in attività lobbystiche
dirette a decisori politici dell’U.E. È partner di Energia Sostenibile per
Tutti e ha un proprio padiglione nella sede della COP 26.
Per concludere, non sarebbe corretto dimenticare la multinazionale
italiana: l’ENI, di cui una quota importante è proprietà del governo. Sarebbe
interessante e istruttiva un’ampia analisi della sua strategia, ma qui ci limitiamo
a poco più di un accenno.
Il suo “Piano d’azione 2020-2023” prevede investimenti totali nella
produzione di idrocarburi per € 24 mld e… € 4 mld in “investimenti verdi”, di
cui € 2,6 mld in energie rinnovabili, mentre dei rimanenti € 1,4 mld non è
specificata la destinazione. Più in generale, il suo “Piano strategico al 2050”
prevede l’aumento della produzione di idrocarburi (petrolio e gas) del 23% fino
al 2025.
Infine, a proposito di come ridurre le sue emissioni
climalteranti, non fornisce previsioni chiare perché il piano di sviluppo
strategico «ha una grande flessibilità per adattarsi ai cambiamenti dei
mercati» nei prossimi trent’anni.
Ogni commento sarebbe superfluo.
[1] Rapporto “Still A Big Con”, tinyurl.com/StillABigCon.
[2] La mega centrale a carbone
di Drax, nel Regno Unito, è la seconda più “sporca” d’Europa nel registro UE
delle emissioni. Ha in progetto di riconvertirla alla produzione di gas.
[3] È la più grande società di
investimento nel mondo, con sede a New York. Gestisce un patrimonio totale di
quasi $ 8.000 mld (2020), di cui un terzo in Europa [fonte: Wikipedia]
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