In questo piccolo libro, il cui sottotitolo è “Come il capitalismo è
nato dal cristianesimo e come lo ha tradito”[1],
l’economista e teologo cattolico Luigino Bruni[2] prosegue
la sua lettura delle relazioni tra il capitalismo e la religione rileggendo le
loro profonde ed antiche radici intrecciate. Il legame esplicito è con quella
tradizione che avanza il dubbio che il capitalismo abbia una natura cristiana
(autori come Max Weber[3],
Werner Sombart[4],
poi Toniolo e Fanfani, ma anche Karl Marx e Walter Benjamin[5]).
Per mettere alla prova questa ipotesi circa la natura cristiana dello ‘spirito
del capitalismo’ Bruni cerca di inquadrarne il rapporto sin dal suo sorgere e
dentro la tradizione ebraico-cristiana.
L’esito della ricerca non è automaticamente scontato: ne deriva che il
capitalismo si radica abbastanza profondamente nella visione cristiana della
ricchezza e povertà, e quindi dell’economia, nel senso che trova in essa alcuni
dei presupposti per essere accettato come naturale ed imporsi. Per come la
mette, anzi, la ricchezza ha sempre avuto una natura religiosa, e
non solo nel protestantesimo descritto da Weber. La ricchezza ha infatti sempre
esercitato sugli uomini il fascino di porli in qualche modo come Dio, di
esporli di meno alla vulnerabilità, ha consentito di allungarne la vita
(facendoli mangiare e curare meglio). Nella Bibbia, come in molte altre culture,
cioè, “l’essere ricco è considerato una benedizione di Dio – non a caso usiamo
l’espressione ‘beni’, cioè cose buone – e l’esser poveri una maledizione”[6].
E, naturalmente, questa potenza religiosa della ricchezza cresce man mano che
prende spazio, nella modernità, l’area della vita sociale che viene coperta dal
denaro. Ma, in un certo senso, il denaro era già dio, ben prima del
capitalismo.
Lo mostra, anche in controluce, il linguaggio dei salmi, una delle fonti
testuali più antiche della tradizione religiosa ebraica, quando scrive (Salmo
49, “Le ricchezze sono un nulla”):
“perché temere nei
giorni tristi,
quando mi circonda la
malizia dei perversi?
Essi confidano nella
loro forza,
si vantano della loro
grande ricchezza.
Nessuno può riscattare
se stesso,
o dare a Dio il suo
prezzo.
Per quanto si paghi il
riscatto di una vita,
non potrà mai bastare
per vivere senza fine,
e non vedere la tomba.
[…] questa è la sorte
di chi confida in se stesso,
l’avvenire di chi si
compiace nelle sue parole”[7].
Dunque qui viene attaccato il riscatto della vita implicitamente promesso
dalla ricchezza (si tratta di un riferimento all’antica norma giuridica e
consuetudinaria per la quale alcuni reati passibili di morte potevano essere
riscattati, dietro risarcimento all’offeso). Il denaro può riscattare la morte,
rinviandola, ma non può evitare la condizione naturale di mortalità che è
propria di ogni vivente.
È utile prestare attenzione all’argomento addotto, che dichiara l’infinità
e quindi incommensurabilità nella metrica numerica e finita del denaro
del valore della vita. Non si può dare a Dio il prezzo; per quanto
si paghi non si può vivere senza fine. L’infinito non si traduce
nel finito, non si può fare numero e non si può tradurre in cose. È impagabile.
Nella misura in cui, quindi, il lavoro è l’uomo stesso, parte inseparabile
della sua vita (come ricordano Polanyi[8] e
lo stesso Marx), anche questo è impagabile. Non può
essere ridotto ad una metrica e quindi ad un insieme di merci. Il lavoro si
dovrebbe pagare con altre metriche, fondate sul riconoscimento dell’uomo[9] e
della sua dignità.
Il testo di Bruni, che svolge un esercizio di archeologia delle idee,
sottolinea l’ovvia circostanza che il capitalismo, cresciuto in Europa, è
cristiano (come riconosceva anche Carl Schmitt ogni concetto dell’economia
moderna non è altro che un concetto teologico secolarizzato). Ma la questione
da comprendere è che cosa del cristianesimo è entrato nel
capitalismo, come lo ha fatto e cosa è rimasto fuori.
Da una parte, ovviamente, lo scambio, il dò-per-avere, era già presente
nelle forme religiose antiche, che scambiano sistematicamente i doni per la
grazia nei sacrifici, e tutte le categorie chiave, ‘prezzo’, ‘scambio’,
‘valore’, ‘dono’, ‘debito’, ‘credito’, ‘merito’, ‘ordine’, ‘premio’, ‘tributo’,
‘sacrificio’, sono sia religiose sia economiche. Esse si formano infatti come
religiose, provenendo dall’esperienza di base della vita della comunità, e
quindi sono insieme ‘economiche’ e ‘sociali’. Da questo punto, per Bruni, “la
tesi più probabile è che con la rivoluzione agricola i commerci e le religioni
si siano sviluppate insieme e che il matrimonio tra l’economia e il sacro sia
avvenuto naturalmente all’alba delle grandi civiltà”[10].
Ne è indizio la nascita e lo sviluppo della moneta (qualunque essa sia), che
avviene intorno ai templi ed è misurata per la necessità di calibrare i
‘sacrifici’, quindi le ‘colpe’ ed i ‘meriti (i ‘debiti’ ed i ‘crediti’). La stessa
parola ‘pecunia’ deriva notoriamente da ‘gregge’ (pecus) e indica
specificamente i capi di bestiame offerti in sacrificio, quindi contati e
contabilizzati nei rapporti commerciali con la divinità. In sostanza, il
necessario contesto di fiducia e di fede per dare corso al miracolo del
denaro avviene nel sacro.
Ma qui c’è il primo elemento specifico messo in evidenza dal nostro.
L’etica economica che informa la cristianità nel medioevo non è presa dalla
tradizione interna, dai vangeli, piuttosto viene presa in prestito da quella
‘pagana’ del tardo impero. E con questa osservazione abbiamo un indizio su quel
che si è perso e un precedente per quel che, poi, farà il capitalismo: a sua
volta esso prenderà il posto della religione come ordinatore centrale del
sociale trasmutandone/assorbendone i valori, come questa aveva fatto con
l’etica romana. Con questo doppio passaggio metamorfico abbiamo infine nel
capitalismo sia le tracce dell’etica stoica di Cicerone e Seneca sia quella
delle beatitudini evangeliche. Al fine si è creata una nuova religione
sincretica, potentissima, che come un parassita (Benjamin) ha trasmutato il
cristianesimo (come questo aveva fatto in precedenza con l’etica romana).
Insomma, il capitalismo è cresciuto nei nidi cristiani perché l’uovo somigliava
a quelli che già c’erano.
E qui si ritrova la profondità, Bruni lo riconosce, dell’analisi del
feticismo della merce di Marx, sono queste infatti ad avere il ruolo chiave. Il
feticismo si ‘appiccica’ ai prodotti del lavoro quando sono presi nel circuito
del valore come merci. Le merci sono dei feticci, in quanto realtà inanimate
che nascondono un rapporto tra uomini, ovvero qualcosa di vivo e di
“impagabile”. È dunque questa centralità, del circuito delle merci, che si
attiva nel capitalismo e che lo attiva. Chiaramente come ben vede la “teologia
della liberazione”[11] nel
linguaggio religioso il nome giusto per questo è ‘idolatria’.
È così che il cammello è passato per la cruna dell’ago.
Passando si è sostituito alla cultura della beatitudine e della gratuità
(della Grazia) nutrendosi di essa come un parassita. Nelle fonti evangeliche il
rapporto con la ricchezza è infatti complesso, diversi dei discepoli e lo
stesso Gesù non sono ‘poveri’ ma questi ricuce la sua visione della ricchezza
sulla grande tradizione biblica di Amos, Isaia, Giobbe e Qoelet[12].
Al contempo, però, mentre il Nuovo Testamento sviluppa una critica
della ricchezza come eccesso di cui liberarsi è presente anche la
tradizione che la vede come benedizione di Dio (presente sin da luoghi arcaici
come la Genesi, la storia di Abramo e dei patriarchi). Quindi c’è un altro e
terzo modello, presente negli “Atti degli apostoli”, per il quale le
primissime comunità cristiane redistribuiscono internamente le ricchezze (non
le danno ai poveri), in quanto hanno “un cuore solo ed un’anima sola”. Invece
della povertà è qui esaltata la mancanza di bisogno tra i fedeli, condotta
dalla comunione dei beni; i beni non sono spoliati e distribuiti, ma ritenuti
in comune. Lo stesso concetto nelle Lettere di San Paolo, in cui
tutto è centrato sul concetto di uguaglianza.
Ma quando il cristianesimo inizia vincere nei ceti alti della società
allora, tra il 404 ed il 405, capita che due giovani, Valerio Piniano e Melania
la giovane, provano effettivamente a disfarsi della loro grande ricchezza per
vivere asceticamente in povertà. Dunque affrancano i loro 8.000 schiavi e
vendono le proprietà, l’esito è che i primi restano senza protezione e le
seconde vanno in rovina. L’episodio, noto nelle “vita Melanie”,
contribuisce ad un vasto dibattito teologico tra il IV e il V secolo. Si tratta
di scegliere tra i tre modelli: povertà, ricchezza comunitaria o ricchezza come
grazia.
In questo contesto si scontrano due prospettive irriducibili:
- Agostino
di Ippona, che prevale, sposta l’accento dal disfarsi delle ricchezze
materiali a quello di disfarsi piuttosto delle passioni cattive. Lo spostamento
è decisivo e recupera la cultura pagana e l’etica tradizionale romana; la ricchezza
in sé torna ad essere buona, ma come tutti i beni può corrompersi. Ciò che
conta sono piuttosto i valori spirituali come la concordia, la filantropia,
quindi le elemosine, ovviamente anche l’ordine e l’amor civicus. In sostanza
Agostino riprende quasi in toto, ricorda Bruni, l’etica economica romana
classica, “inclusa l’idea che i ricchi sono necessari per la gestione del
potere e del buon governo”[13].
- Pelagio,
al contrario, recupera dai Vangeli una visione negativa della ricchezza, la
quale non si può acquisire senza ingiustizia. Collegandosi alla filosofia
stoica la salvezza è legata alle opere per cui i ricchi, per salvarsi dovevano
intanto rinunciare alle ricchezze e poi cercare di passare per la cruna. Come
scrive nel “De divinis”, “un ricco che rimanga in possesso delle sue
ricchezze, non può entrare nel Regno”[14].
Il motto di Pelagio è “togli i ricchi e non ci saranno anche i poveri”, e perde
contro quello di Agostino “togli la superbia e la ricchezza non ti recherà
nocumento”.
Vincendo, Agostino, allarga la cruna dell’ago anche perché la dottrina
presente nei Vangeli era decisamente troppo esigente. Il cristianesimo nel
passaggio dal mondo antico al medioevo piuttosto recupera l’etica presente in
esso e produce un’ideale che può essere possibile perseguire per tutti, senza
imporre una trasformazione dell’assetto dei poteri nella società.
Ma qui si innesta infine una divisione tra l’etica per tutti, in sostanza
quella romana trascendizzata, e quella per pochi, che è di ispirazione
evangelica ma è riservata ai monaci. Un doppio binario che sarà poi
sciolto dalla riforma protestante. Nel monachesimo si trova, al contempo, una
delle più rilevanti radici dell’economia di mercato; stranamente è da qui che
nasce il capitalismo. Secondo la lettura di Bruni, infatti, “è stato il
monachesimo il primo grande episodio di ‘eterogenesi dei fini’ dell’economia
moderna”. In esso viene messa a punto la cooperazione produttiva vasta, stabile
e razionale. Non è presente solo in essi, fuori dei grandi monasteri compare
episodicamente in ‘fabbriche’ come l’Arsenale di Venezia, i cantieri delle
cattedrali, alcune grandi botteghe di artisti o di artigiani, ma questi erano
centinaia, la praticavano sistematicamente e duravano anche 500 anni e più.
Bisogna notare almeno due cose: da una parte il centro di tutto non erano
gli abati, quanto la “regola”. Dall’altra nasce anche una nuova e
radicale etica del lavoro, esemplificata dalla massima “ora et labora”.
La cosa è molto profonda, le due pratiche non sono distinte, sono un’unica
liturgia della regola. Si prega lavorando e si lavora pregando. E mentre ci si
immerge in questo spirito il tempo rallenta, diventa denso, si resta in un
altro ritmo di vita. Si vive, e si può ancora sperimentare se si prova, in un
tempo più lungo e profondo, nel quale il lavoro è vocazione. Vale in sé e per
sé, non per la merce o per la sua quantità, il suo numero, per il denaro.
Su questa tradizione, facendogli fare un salto, interviene il
francescanesimo che fu (anche per le istituzioni che creò), la prima scuola di
vero e proprio pensiero economico. Nel medioevo sono i francescani che creano i
“Monti di Pietà”, e ritornano a fare esile il cammello. “Oh, ignota
ricchezza! Oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro allo
sposo, sì la sposa piace” (Dante, “Paradiso”, XI, 84). Si tratta,
nuovamente, di un tentativo di distinguere la proprietà dei beni dal loro uso.
Ma un tentativo che nuovamente fallisce[15] e
al fine produce una nuova eterogenesi.
Al contempo la Chiesa, al principio del nuovo millennio, decide
definitivamente che non è il merito del singolo sacerdote o monaco a
qualificare le sue opere e la validità degli atti (quello di dire messa, di
sposare, e via dicendo), quanto il sacramento che ha validità intrinseca
essendo fondato su Cristo. È l’Opus ex opera operato, è la stessa
opera ad operare. Uno dei punti sui quali agisce la riforma di Lutero. Il
monachesimo ed il francescanesimo delle origini erano di diversa opinione, per
loro è una forma di vita e deve essere coerente, o non si è monaci. In sostanza
non hanno la rete di protezione di una opera che promana la sua validità
indipendentemente.
La rete che protegge dalla imperfezione delle intenzioni e delle relative
azioni è riprodotta infine dal capitalismo che separa le merci dalle intenzioni
(ed anche dalle condizioni di produzione), producendo un suo peculiare “opus
operatum”. Nessuna relazione tra la cosa e le qualità morali del produttore
è rilevante (relazione che, invece, è sempre presente nel mondo antico e
medioevale, si veda su questo Mauss[16]).
La cesura avviene quindi separando drasticamente la natura di feticcio della
merce e l’alienazione del produttore (Marx) dal valore. Questo, con il
capitalismo, diventa pienamente ex opera operato, non c’è più
traccia delle persone nascoste sotto l’involucro delle cose. Questa mossa
decisiva si vede già molto bene nell’etica calvinista raccontata da Weber[17],
nella quale l’etica del lavoro e la vocazione (beruf) è sconnessa dalle qualità
morali, ma viene ricondotta ad una radicale ed anti-pelagiana dottrina della
predestinazione e della ricchezza come segno di elezione. È paradossale, il
protestantesimo nasce anti-pelagiano, perché valorizza la ricchezza come segno
di salvezza, ma vi torna quando disprezza il consumo delle ricchezze ed il
godimento dei beni. La salvezza torna infine ad essere associata alle opere e
quindi, necessariamente, la povertà diviene nuovamente segnale di condanna e
oggetto di disprezzo.
Si riconosce qui una sorta di affinità elettiva tra capitalismo e mondo
protestante che è stata spesso osservata. Nel mondo cattolico, piuttosto, a
partire dalla sistemazione data dall’abate Genovesi[18] sono
stati privilegiati approcci etici, che non slegano i risultati sociali dalle
intenzioni individuali. La metafora della “mano invisibile” (pur
presente in Vico e Genovesi) è centrale solo per i protestanti e l’antropologia
nordica, nell’umanesimo latino è sussidiaria. Per essa “nella società
capitalistica non c’è bisogno di nessuna azione collettiva, nessun ‘noi’,
nessuna relazione, nessun incontro”[19].
Invece nel mondo latino il principio economico fondamentale è la mutua
assistenza ed i poveri non sono considerati maledetti da Dio. In esso la
ricchezza prodotta dalle fabbriche è sospetta, e per questo quelle di maggior
successo, e più stabili, cercano sempre un rapporto con il territorio. Si
sforzano di restituire una relazione (esemplare in proposito la vicenda di
Adriano Olivetti[20]).
Un altro aspetto si trascina nella doppia metamorfosi del parassita
cristiano verso l’etica greco-romana e di quello capitalista verso quella cristiana:
l’etica del merito e della perfezione che è estranea all’insegnamento
evangelico originario e deriva dalla prima metamorfosi. Il capitalismo
è, come il liberalismo che ne è il fratello siamese, una utopia di
società perfetta. Dunque è, necessariamente, come sottolinea molto bene la
‘teologia della liberazione’ una cultura della colpa. Perché gli
uomini sono imperfetti e sono chiamati ad un compito impossibile. Questo ideale
di perfettismo, preso dal mondo antico, viene però incubato nel monachesimo (dove
era tenuto sotto controllo dalla forte impostazione comunitaria), e, uscendo
dalle mura della ‘regola’, diviene infine tecnica di governo della colpa. La
cosa accade già nella pratica penitenziale del tardo medioevo (dove,
gradualmente, viene monetizzata e fatta oggetto di una sorta di partita
doppia del debito, per cui la pena viene trafficata, scambiata e in qualche
modo diventa un ‘titolo’). La trasformazione è graduale e decisiva, ed avviene
in uno dei luoghi della metamorfosi più importanti: dall’annuncio evangelico
originale, per il quale siamo amati a prescindere dalla presunta perfezione, si
passa al management della colpa necessaria per gestire l’imperfezione tramite
la confessione e la penitenza. Il monachesimo irlandese vede, ad esempio, la confessione
come una questione privata tra monaco e padre confessore (ovvero questa viene
individualizzata e privatizzata). Gradualmente viene anche formalizzata; una
minuziosa classificazione di colpe e penitenze elabora una vera e propria
tecnica contabile. E di tariffe. Nel Penitenziale di Colombano
si legge che se qualcuno spergiura deve fare penitenza per sette anni.
Di qui il passo breve e necessario è di staccare penitenza e peccatore.
Quindi con i pellegrinaggi e le altre forme di penitenza Dio può essere
soddisfatto (come qualunque creditore) indipendentemente da
chi le faccia. La penitenza diviene moneta scambiabile. Una vera e propria
merce con i suoi mercati. Peccava tizio e, purché solvibile, caio faceva per
lui il pellegrinaggio. Si arriva dal XII secolo in poi a mettere a punto veri e
propri algoritmi di commutazione tra pene, e poi alle indulgenze.
Quando arriva Lutero ormai l’economia della salvezza e quella del denaro
sono intrecciate strettamente. Dunque, “il primo ‘spirito del capitalismo’ si
era già sviluppato nel mondo medioevale, ma non era avvenuto tanto nei mercati
di panni e nelle banche delle città italiane del Trecento, ma molti secoli
prima tra i monaci penitenti e nei mercati delle penitenze e dei meriti”[21].
In definitiva l’Europa mercantile si sviluppa, intorno alla scoperta
dell’America con l’immane flusso di oro, argento, merci e schiavi che comporta,
perché “i cristiani da secoli erano stati abituati a ragionale di prezzo,
debiti, crediti nelle sfere più intime della vita, della morte, di Dio”.
Chiaramente, quando i riformatori aboliscono gli ordini religiosi, divenuti
luoghi di privilegio, e la confessione insieme a tutta la contabilità delle
penitenze, intesero combattere l’idea ‘pelagiana’ che la salvezza fosse
questione di opere. Ma il luogo dell’ascesi si spostò nel lavoro e
nell’economia ‘secolare’. Spostata dalla vita ritirata dal mondo la via per
acquisire il merito presso Dio, e la salvezza, divenne la perfezione e la
vocazione nel lavoro e nell’economia.
Altro luogo cruciale della trasformazione, qui della merce, è
il secolare mercato delle icone e delle reliquie, strettamente connesso ai
pellegrinaggi. Anche qui nei lunghi secoli medioevali, e in Europa, il
commercio delle reliquie divenne un vero e proprio fenomeno commerciale
globale. Si trattava di pseudo-merci che occupavano i mercati, rendendoli
promiscui e, al contempo, resistenti alla completa razionalizzazione. La
rivoluzione protestante eliminò l’ambiguità, lasciando sole le merci. Nacque il
“culto senza oggetto” di cui parla Benjamin. Nel cacciare il mondo incantato,
ricco e denso del medioevo la riforma in effetti, senza volere, portò
l’incantesimo nelle merci stesse.
Merci alle quali si attaccò in qualche modo anche la logica sacrificale.
Una logica antica e proto-economica, per la quale per ottenere la grazia
desiderata occorre sacrificare cose di valore. Anche qui l’insegnamento
originario evangelico è anti-sacrificale. E ciò che passa nella
istituzionalizzazione della Chiesa tardo antica e medioevale è, invece, un
contesto teologico sacrificale che “ha offerto a rapporti di potere asimmetrici
e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era,
semplicemente, sfruttamento”[22].
Questa dimensione è oggi presente in tutte le imprese, in particolare grandi,
dove si viene continuamente chiamati al sacrificio in cambio
della promessa della grazia.
Come scrive Bruni in questo caso “sono i lavoratori che devono offrirsi,
spontaneamente, sull’altare”. Il culto del capitalismo ha bisogno infatti delle
persone intere, e le chiama al sacrificio di sé; a privarsi spontaneamente
della vita sociale, della possibilità di mettere al mondo figli (e questo vale
in particolare per le donne ‘in carriera’), ad un voto di castità e celibato,
al rinvio del matrimonio. Scavando sotto le possibilità stesse di riproduzione
della società.
Così il cerchio si chiude. Il capitalismo è diventato l’unica religione.
[1] - Luigino Bruni,
“L’arte
della gratuità. Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha
tradito”, Avvenire, Vita e Pensiero, 2021.
[2] - Di cui abbiamo
giù letto, “Il mercato e il dono”, Università Bocconi,
2015, nel quale descrive l’economia civile della tradizione che proviene
dall’economista napoletano Antonio Genovesi (morto 1769), autore di “Lezioni
di economia civile”, 1765 (il primo trattato di economia europeo, nove anni
prima de “La ricchezza delle nazioni”) e nel quale mostra come il
capitalismo abbia natura religiosa, simbolica e spirituale; quindi “Fondati sul lavoro”, Vita e Pensiero
2014, nel quale ricostruisce la tradizione che nel monachesimo inquadra il
lavorare come rapporto di cura e custodia della terra. E quindi anche come
dono, reciprocità, vocazione. Infine, il piccolo “La piramide delle vittime”, una lettura del
libro di Qoèlet nell’Antico Testamento.
[3] - Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito
del capitalismo”, 1904
[4] - Werner
Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902
[5] - Walter
Benjamin “Il capitalismo come religione”, 1921.
[6] - Bruni, “L’arte
della gratuità”, Vita e Pensiero, 2021, p. 13.
[7] - Salmo 49,
6-13.
[8] - Karl Polanyi,
“La Grande Trasformazione”, 1944.
[9] - Si veda su
questo Luigino Bruni, “Fondati sul lavoro”, 2014.
[10] - Bruni, cit.,
p.24
[11] - Si veda Hugo
Hassmann, Franz Hinkehammert, “Idolatria del mercato. Saggio su
economia e teologia”, 1989.
[12] - Si veda
Luigino Bruni, “La piramide delle vittime”.
[13] - Idem, p.41.
[14] - Il testo è di
attribuzione incerta, ma circola molto nelle élite romane nel V secolo.
[15] - Nel 1322
Papa Giovanni XXII rettificò la “regola” e sancì l’impossibilità del solo uso
dei beni, restituendo all’Ordine francescano la piena proprietà dei Beni di cui
disponevano.
[16] - Marcel Mauss,
“Saggio sul dono”,
[17] - Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito
del capitalismo”, 1904
[18] - Antonio
Genovesi, “Lezioni di economia civile”, Vita e pensiero, 2019 (ed. or.
1765), si veda anche Luigino Bruni, “Il mercato e il dono. Gli spiriti
del capitalismo”, Bocconi 2015.
[19] - Bruni, cit.,
p.71
[20] - Si veda,
Vittorio Ochetto, “Adriano Olivetti”,
[21] - Bruni, cit.,
p. 81.
[22] - Bruni, cit.,
p.97
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