“Almeno un quarto della superficie terrestre mondiale è tradizionalmente posseduto, gestito, utilizzato e occupato da popolazioni indigene” si legge nel rapporto del 2019 dell’Ipbes (la piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici), uno degli istituti internazionali creati nell’ultimo ventennio per far fronte alla crisi climatica globale.
Non solo l’Ipbes misura la presenza indigena sul pianeta, ma sottolinea che
“in generale nei territori di insediamento dei popoli indigeni la natura tende
a declinare meno rapidamente” e nonostante questo, le aree che gestiscono “si
trovano ad affrontare una crescente estrazione di risorse, la produzione di
materie prime, la nascita di miniere e di infrastrutture per il trasporto e
l’energia, con varie conseguenze per i mezzi di sostentamento e salute locali.”
A chiusura del G20 Interfaith Forum, il presidente del Consiglio Mario
Draghi aveva ricordato che i paesi partecipanti al summit sono responsabili
“di circa quattro quinti delle emissioni globali” evidenziando
che gli effetti dei cambiamenti climatici si riversano però in modo particolare
“sugli Stati più poveri [che] hanno beneficiato meno di altri del nostro
modello di sviluppo, ma ne sono le principali vittime”.
La COP26 di Glasgow, nel Regno Unito, è
sotto i riflettori mondiali come un negoziato cruciale perché
gli oltre 190 capi di Stato partecipanti dovranno spingersi ben oltre i limiti previsti
dall’accordo di Parigi per contenere l’aumento della
temperatura del pianeta a 1,5°C.
Eppure, tra i numerosi attori politici convocati ad affrontare e mitigare
le drammatiche conseguenze della crisi climatica a cui andiamo incontro non ci
sono le popolazioni indigene, né le comunità locali che custodiscono i
territori più colpiti da incendi, inondazioni, processi di desertificazione,
fenomeni direttamente correlati all’innalzarsi della temperatura terrestre.
Futuros Indigenas
va a Glasgow
“Se le Conferenze delle Parti fossero efficaci, non sarebbe già più
necessario farle”, esclama con ironia uno dei partecipanti alla riunione della
rete Futuros
Indigenas in uno degli incontri preparatori in vista della
COP26. “Tutto nasce da un laboratorio di comunicazione a cui hanno assistito
diverse comunità”, spiega Rosa Marina Flores Cruz, ricercatrice binnizá e
attivista per la difesa dell’Istmo de Tehuantepec, in Messico, che si sta
preparando per andare nel Regno Unito. “L’invito era rivolto a movimenti
indigeni e gruppi di difesa del territorio, il collettivo Hackeo Cultural convocava a discutere le
narrazioni sul cambio climatico e la crisi ambientale e offriva un interscambio
con giornalisti, illustratori, professionisti della comunicazione”.
La rete Futuros Indigenas si costituisce dopo il laboratorio,
con rappresentanti di più di 20 popoli indigeni, con l’obiettivo di mantenere
in vita l’esperienza e ampliare i legami con altre lotte territoriali. La
proposta di recarsi a Glasgow arriva poco dopo da attivisti più giovani che si
organizzano nelle città: i gruppi Legaia e División
Juvenil de Cambio Climático sono più vicini a Fridays For
Future e avevano già in mente di recarsi alla COP26. Così la delegazione di
giovani sceglie di accompagnare otto rappresentanti di diverse comunità
indigene tra Messico e Guatemala, impegnate nella difesa dei loro territori,
nel recupero della lingua e dell’identità culturale, per la salvaguardia dei
diritti umani, dei diritti delle donne e della vita comunitaria.
Futuros Indigenas è una rete mista, ma le persone partite per Glasgow sono
quasi tutte donne. “Anche se non è stata una scelta ragionata, ci emoziona
molto poter presentare questo cambio di narrazione sulla crisi climatica dal
punto di vista di donne che inoltre sono indigene e che difendono il
territorio, perché possiamo evidenziare i diversi tipi di oppressione che
viviamo”, racconta Marina Flores Cruz.
Sta pensando al lungo lavoro di dialogo svolto nelle comunità per discutere
se andare o no alla COP26, perché sostenere questo progetto così costoso da
finanziare per andare in uno spazio che è riconosciuto come “burocratico,
istituzionalizzato, dove si prendono decisioni che hanno conseguenze dirette
sulle comunità, dove la visione dei popoli non viene presa in considerazione, mentre
siamo visti come un contorno folklorico: facciamoli ballare coi i loro vestiti
tradizionali così possiamo dire che hanno partecipato alla COP”.
Oltre la COP26
Marina, come molte delle altre donne che stanno costruendo questo processo,
sono vicine all’Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), alcune sono parte
del Consejo Nacional Indigena, condividono una
stessa idea di autonomia rispetto alle strutture statali e intergovernative.
Eppure, proprio per queste ragioni, pensano che sia importante andare a Glasgow
e recuperare la visione del collettivo, costruire la propria posizione, portare
la voce delle altre compagne che non potranno partecipare.
Per lei e per tutta la delegazione è chiaro che la COP26 non è l’obiettivo,
l’intenzione è piuttosto irrompere con una narrazione sul cambiamento climatico
che è sempre esclusa dai luoghi decisionali, e sviluppare questo stesso dibattito
dentro le comunità. “Non crediamo che questi summit abbiano effetti concreti,
sappiamo che sono risposte create a partire dal mercato e per il mercato, per
garantire la continuità dell’accumulazione del sistema capitalista”, spiega.
“Sappiamo che la necessità urgente di passare dai combustibili fossili alle
rinnovabili ha portato all’invasione dei nostri territori, all’usurpazione
della terra e l’espulsione della vita contadina e comunitaria”.
Ma se non vanno bene nemmeno le rinnovabili, che cosa resta? Marina si è
sentita spesso porre questa domanda, anche nelle comunità dove lavora su
progetti di sovranità energetica: “La discussione deve guardare al modello da
cui arrivano le proposte per affrontare la crisi climatica: il capitalismo
verde genera alternative alle energie fossili con un discorso di protezione
dell’ambiente, ma deve garantire innanzitutto la crescita, gli stessi profitti
di prima”. Nell’Istmo di Tehuantepec, dove Marina vive, l’attacco avviene con
l’istallazione di immensi campi eolici che escludono la convivenza con le
comunità, espulse dai loro territori. “Non si tratta di discutere se
l’energia prodotta è rinnovabile o no, ma piuttosto se ripara i danni che lo
stesso sistema ha creato. C’è un problema di fondo, e quel che fa il
capitalismo è rattopparlo colorando di verde qua e là”.
In difesa di tutta
la Terra
La ONG Global Witness dal 2012 raccoglie dati
sugli omicidi di persone che difendono la terra e l’ambiente. I numeri
registrati fino a oggi mostrano una relazione chiara tra l’intensificarsi della
crisi climatica e la costante crescita della violenza contro chi protegge la
biodiversità.
Nel rapporto annuale della ONG, lo sfruttamento minerario e la
deforestazione necessaria per l’agro-business sono individuati i principali
settori in cui opporsi significa rischiare la vita. Inoltre, nel 2020 la
pandemia ha favorito l’estrattivismo delle grandi imprese, che hanno potuto
avanzare indisturbate, mentre le quarantene restringevano le possibilità
d’azione per la difesa dei territori, e infine ha reso più facile la
persecuzione dei leader indigeni e ambientalisti direttamente nelle loro dimore.
Nel 2020 gli attivisti ambientali uccisi sono stati 227, cifra che
corrisponde a una media di 4 alla settimana, più della metà di questi attacchi
è avvenuta in soli tre paesi: Colombia, Messico e Filippine. Più dei due terzi
degli omicidi sono stati registrati in America Latina, classificata
costantemente da Global Witness come la regione più colpita dalla violenza.
L’America Latina è anche una delle regioni del globo dove l’impronta
ecologica è a credito, mentre ci vorrebbero cinque pianeti se tutta
l’umanità adottasse i livelli di consumo degli Stati Uniti. I popoli indigeni
sono responsabili della salvaguardia dell’80%
della biodiversità presente sulla Terra, tuttavia più di un
terzo degli omicidi sono risultati da attacchi contro queste popolazioni.
Futuros Indigena nasce dalla consapevolezza che “la crisi climatica è
conseguenza dei sistemi di diseguaglianza strutturale che oggi governano il
mondo” e ha scelto di organizzarsi di fronte all’imposizione della morte. Il
messaggio che lascia è chiaro: “Ci sono acqua, alimenti e terra sufficienti
perché tutte le persone e le esistenze vivano degnamente in questa casa comune
chiamata Terra. Possiamo rigenerare i sistemi di vita a cui è legato il nostro
futuro. Ma il cambio deve essere radicale. Perché dopo ogni crisi non vogliamo
tornare alla normalità, vogliamo tornare alla terra”.
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