In queste
ultime settimane, gli interventi negazionisti del cambiamento climatico
sembrano essere aumentati. Questo non è un caso. La macchina del negazionismo
si attiva a pieni giri quando l’azione per il clima è al centro dello scenario
politico, com’è accaduto in queste ultime settimane in occasione della riunione
del G20 a Roma e della COP26, la Conferenza internazionale sul clima di
Glasgow.
La COP26 si è conclusa con un accordo che contiene luci e ombre. Alok Sharma, presidente della
Conferenza, ha dichiarato che l'obiettivo di contenere
l'aumento della temperatura globale entro 1.5° è ancora in vita ma «il suo polso
è debole». È una «vittoria fragile», che dipenderà da quanto i singoli governi
rispetteranno gli impegni presi. Nel documento finale approvato alla COP si fa
riferimento, per la prima volta, ai combustibili fossili e alla necessità di
eliminare i sussidi per il settore. Questo viene giudicato un importante passo
avanti, anche se all'ultimo minuto ci sono state pressioni per cambiare la
formulazione del passaggio sul carbone. "Eliminazione" è stato
sostituito con un più debole "riduzione". Una questione critica
rimane inoltre quella del sostegno finanziario dei paesi ricchi alle azioni per
il clima nei paesi poveri, impegno che i primi non hanno ancora rispettato.
Rimane perciò ancora molto da fare per colmare il divario tra le politiche
nazionali e le emissioni di gas serra e il percorso che potrebbe portare il
pianeta a rimanere al di sotto di 1.5°.
Mentre il
mondo discute di come affrontare la crisi climatica, i negazionisti continuano
a cercare di inserirsi nella discussione. Questo sta avvenendo anche in Italia.
Sui social media ha ripreso a circolare una dichiarazione del fisico Antonino Zichichi, che
attribuisce il riscaldamento globale all’attività solare (una vecchia tesi, già
smentita). Zichichi aveva espresso queste opinioni nel 2019 in un'intervista
pubblicata sul Giornale (testata che ha pubblicato in questi
anni diversi interventi negazionisti), che era stata poi rilanciata dall'Huffington
Post senza nessun contesto né commento critico. Nella versione diffusa
sui social media Zichichi viene messo a confronto con Greta Thunberg, con
l’intento di presentarlo come un voce scientifica e autorevole, più credibile
di quella dell’attivista. È un confronto ingannevole, che oltre a dare credito
ad affermazioni false oscura la posizione della comunità scientifica.
Alcune trasmissioni
televisive e testate giornalistiche hanno di nuovo dato spazio a personalità
già conosciute per le loro posizioni “contrarie” sul cambiamento climatico. Di
recente il programma Cartabianca, su Rai3, ha ospitato Franco Battaglia, docente di chimica fisica
dell’Università di Modena. Durante la discussione Battaglia ha potuto ripetere
che le attività umane «non c’entrano niente con il cambiamento climatico».
Il giorno
successivo all'inaugurazione della COP26, Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Franco Prodi,
fisico dell’atmosfera. «Il cambiamento è connaturato al clima», afferma Prodi,
ripetendo di fatto un vecchio ritornello negazionista (“il clima è sempre
cambiato”). Il Foglio lo aveva già intervistato lo scorso agosto, dopo la
pubblicazione del nuovo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). La sua
posizione era racchiusa nel titolo del pezzo che, oltre a riproporre la solita
retorica sul "catastrofismo", non lasciava spazio a interpretazioni:
«ecco perché sul clima l'Onu sbaglia». Prodi - che compare tra i firmatari di
una lettera, apparsa nel 2019, intitolata “non
c’è nessuna emergenza climatica” - aveva dichiarato, in un’intervista all’Huffington Post del
2019, che nella comunità scientifica sarebbe ancora in corso una discussione
sulle cause del riscaldamento globale.
Tutte queste
posizioni sono in evidente contrasto con un consenso scientifico - la posizione collettiva
della comunità internazionale di scienziati - ormai consolidato da molti anni.
Il confronto tra tesi opposte è tipico delle discussioni che avvengono nei talk
show, ma su temi come il cambiamento climatico ha l’effetto di fare da megafono
alla disinformazione. Dare spazio a voci negazioniste, specialmente sui media
mainstream, dà al pubblico la falsa percezione che ci sia ancora qualche
incertezza sulla responsabilità umana nel riscaldamento globale e che il
dibattito scientifico sul tema sia ancora in corso. Anche se non lo è più da
molto tempo.
Quello a cui
assistiamo è un copione già visto. Da quando si è messa in moto,
negli anni ‘70 e ‘80, la strategia negazionista ha puntato a insinuare dubbi
sulla realtà stessa del riscaldamento globale e delle sue cause. Lo slogan, per
diverso tempo, è stato “la scienza non è ancora definita”. L’obiettivo era
impedire o ritardare l’approvazione di leggi e politiche contro le emissioni di
gas serra, attraverso campagne di disinformazione - sostenute da gruppi di
interesse, media, think tanks e dalle stesse industrie - e il lobbying politico
ed economico.
Da qualche
tempo, tuttavia, il negazionismo climatico sta cambiando pelle. Il
riscaldamento globale molto spesso non viene più negato apertamente e nemmeno
viene contestata la necessità di politiche e azioni per affrontarlo. Posizioni
platealmente contrarie alla scienza continuano a circolare, ma a queste si sono
aggiunti altri argomenti, più insidiosi e ingannevoli.
Il
negazionismo si adatta ai tempi e alle circostanze e sfrutta le occasioni che
il dibattito pubblico offre. Oggi la crisi climatica e la transizione
energetica si trovano al centro della politica mondiale e dei grandi piani dei
governi. In questo scenario, il negazionismo è perciò ancora all’opera. In una
cosa non è cambiato: il suo approccio continua a essere basato sulla
strumentalizzazione, la manipolazione di dati e studi scientifici e l’uso di
argomenti infondati e fallaci.
"Le politiche climatiche
costano troppo (e la crisi climatica è esagerata)"
La denuncia
dei costi delle politiche per ridurre le emissioni di gas serra, causate
dall'uso dei combustibili fossili, è sempre stata presente nella retorica
negazionista. Ora che la transizione ecologica ed energetica è entrata
nell’agenda dei media e delle politiche nazionali e globali questo argomento
ritorna in auge, adattato alle circostanze. Negli interventi che oggi
enfatizzano i costi della transizione raramente si parla della necessità di
distribuirli in modo equo nella società o a livello globale tra paesi ricchi e
poveri. L’intento, piuttosto, è quello di far apparire le politiche per
l’ambiente e il clima come un potenziale ostacolo alla crescita. Un fardello
per le imprese, i consumatori e per l’intera collettività.
Queste
posizioni sono spesso rivendicate come pragmatiche e realistiche, ma sono in
realtà una forma di "cherry-picking", cioè una selezione di dati ed evidenze a vantaggio di una tesi.
Inoltre, vanno spesso di pari passo con la minimizzazione delle conseguenze del
riscaldamento globale. Sono due argomenti speculari. Se le politiche per il
clima costano troppo e se la crisi climatica è esagerata, perché dovremmo
preoccuparci così tanto dell'aumento della temperatura? Perché investire
risorse economiche in azioni e politiche per impedirlo?
Secondo
Bjørn Lomborg, «una forte azione globale per il clima» causerebbe addirittura
«molta più fame e insicurezza alimentare rispetto al cambiamento climatico
stesso» e «il riscaldamento globale salva più
persone di quante ne uccida». Lomborg, un autore attivo da un paio di
decenni nella discussione sul clima e l'ambiente, è un perfetto esempio di
"lukewarmer". Nel gergo del dibattito sul clima, un lukewarmer è una persona che non nega
che esista il cambiamento climatico o che sia colpa delle attività umane, ma
sostiene che sia un problema meno grave di come viene dipinto. Le cose
starebbero andando molto meglio di quanto pensiamo. Per sostenere questa tesi, i
lukewarmer non scrivono sulle riviste scientifiche, ma cercano di tirare dalla
loro parte i dati e gli studi pubblicati da altri. Le affermazioni, citate
prima, sono conclusioni scorrette e arbitrarie che Lomborg trae da due ricerche
apparse su Nature Climate Change e su The Lancet. Commentando l'ultimo libro di
Lomborg, intitolato False Alarm, Joseph Stiglitz nota: «scritto con l’obiettivo di
convertire chiunque si preoccupi dei pericoli del cambiamento climatico, il
lavoro di Lomborg sarebbe assolutamente pericoloso se riuscisse a persuadere
chiunque che c'è del valore nelle sue argomentazioni».
L'azione di
questi commentatori è particolarmente insidiosa. L'abilità nel mescolare
informazioni veritiere con interpretazioni scorrette, argomenti ingannevoli e
manipolazioni, li fa sembrare credibili e ragionevoli. Queste tattiche
argomentative si ritrovano negli interventi di un altro autore, Michael
Shellenberger, che in un articolo pubblicato nel 2020 sulla rivista Forbes ha
scritto, tra le altre cose, che «il cambiamento climatico non sta peggiorando i
disastri naturali». Un'affermazione che è in aperto contrasto con le evidenze e la posizione
della comunità scientifica. In Apocalypse Never (libro
tradotto e pubblicato anche in Italia), Shellenberger alterna descrizioni
scorrette o inaccurate della scienza del cambiamento climatico ad argomenti
fallaci, attacchi rivolti a scienziati, giornalisti, attivisti e polemiche
contro «l'esagerazione, l'allarmismo, l'estremismo». Non è un caso che i suoi
interventi siano rilanciati da media che hanno posizioni negazioniste sul
cambiamento climatico.
Con questa
mescolanza di vero e di falso, di dati e di argomenti fallaci e ideologici,
difficile da districare per i non addetti ai lavori, questi autori riescono a
proporre una narrazione "ottimista e razionale" del cambiamento
climatico, alternativa a quella del cupo catastrofismo. Quella che offrono è
una visione del futuro cornucopiana, in cui
per risolvere problemi come il cambiamento climatico bastano la crescita
economica e qualche innovazione tecnologica (in questi scenari, in genere,
l'unica valida soluzione energetica è il nucleare, ma non le rinnovabili).
In queste
posizioni non c'è spazio per una corretta rappresentazione dei costi della
crisi climatica. Tantomeno, di quelli economici.
Il World
Economic Forum riporta che nel decennio 2010-2020 le perdite economiche causate
da eventi meteo-climatici estremi, come precipitazioni intense, siccità, ondate
di calore, sono aumentate rispetto al decennio
precedente. La comunità scientifica, a dispetto di quanto affermano i
lukewarmer, ritiene che questi eventi estremi stiano diventando più frequenti o
intensi a causa del riscaldamento globale. Oggi è possibile individuare la
traccia del riscaldamento globale in questi fenomeni, come le intense piogge,
seguite da inondazioni, che la scorsa estate hanno colpito la Germania e il Belgio e
l’ondata di calore, con temperature massime che hanno superato i 49°, che si è
verificata nell’ovest degli Stati Uniti e del Canada («virtualmente impossibile senza il cambiamento climatico
causato dall’uomo», scrive un gruppo di esperti).
Di recente,
anche la Banca Centrale Europea si è occupata del problema. La BCE ha
effettuato degli stress test, da cui è emerso che i cambiamenti climatici,
nello scenario peggiore, potrebbero determinare un crollo del 10% del PIL
dell’Unione Europea e un aumento del 37.5% della probabilità di default per le
imprese esposte ai maggiori rischi da eventi come alluvioni e incendi.
Nonostante la transizione richieda elevati costi a breve termine questi
«impallidiscono in confronto ai costi di un cambiamento climatico non frenato
nel medio e lungo periodo», scrive la BCE.
I costi
delle politiche per la transizione dovrebbero perciò essere messi a confronto
con quelli che stiamo già pagando e che pagheremo in futuro a causa del
riscaldamento globale. In un recente sondaggio, svolto dall’agenzia di
stampa Reuters, un gruppo di economisti ha espresso un forte
consenso di opinione sui benefici di un'azione tempestiva contro il cambiamento
climatico. Charles Kolstad, professore di economia alla Stanford University ha
dichiarato che «se rimandiamo l’azione sul cambiamento climatico, sarà più
elevato il costo per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050».
Secondo
questi economisti, gli investimenti per la transizione, necessari per
raggiungere l’obiettivo di Parigi, richiederebbero risorse pari al 2 o 3% del
PIL mondiale, ogni anno fino a al 2050. Il Fondo Monetario Internazionale,
ricorda Reuters, ha invece calcolato che sono necessari
investimenti pari allo 0.6-1% del PIL per le prossime due decadi. Secondo gli
economisti Nello studio G20 Climate Risks Atlas, il Centro
Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici ha calcolato che nei paesi del G20
- che comprende l’Italia - nello scenario peggiore di riscaldamento
globale, le perdite economiche potrebbero ammontare al 4% del
PIL annuale entro il 2050 e all’8% entro il 2100 (il doppio di quelle
causate dalla pandemia nei paesi del G20). Come nota il Centro, «in Europa, in
uno scenario ad alte emissioni, i decessi legati ad eventi di calore estremo
potrebbero aumentare da 2700 all’anno fino a 90.000 all’anno entro il 2100».
Gli impatti
del riscaldamento globale vengono oggi considerati un rischio anche dagli
operatori finanziari. Un rapporto dello Swiss Re Institute -
istituto dell’omonima compagnia assicurativa - afferma che, rispetto a quanto
accadrebbe su un pianeta senza l’attuale riscaldamento globale, un aumento
della temperatura fino a 2° determinerebbe una riduzione del PIL globale
dell’11% e del 18% se l'aumento della temperatura arrivase a 3.2°. «Il cambiamento
climatico è un rischio sistemico», avverte l’istituto. Se non verranno centrati
gli obiettivi dell’Accordo di Parigi gli impatti avranno dei costi
significativamente più elevati.
Sebbene
questo rischio sia oggi sempre più evidente, i costi potrebbero essere anche
maggiori di quanto pensiamo. La loro valutazione, infatti, potrebbe essere
ancora viziata da una sottovalutazione degli impatti della crisi climatica.
Esperti dell'Earth Institute della Columbia University, della London School of
Economics e del Potsdam Institute for Climate Impact Research scrivevano, nel 2019, che «le valutazioni
economiche dei potenziali rischi futuri del cambiamento climatico hanno omesso
o sottovalutato grossolanamente molte delle conseguenze più gravi».
Il
riscaldamento globale sta generando numerosi impatti, che hanno conseguenze su
molte attività umane. Se non si interviene oggi, le conseguenze future saranno
molto peggiori. Il dilemma perciò è questo: quanto siamo disposti a spendere
oggi per evitare costi che si manifesteranno in un futuro che percepiamo come
lontano? La risposta a questa domanda è oggetto di discussioni tra gli
economisti. Le risposte possono essere molto diverse a seconda degli approcci e
delle assunzioni di partenza. Ma sottostimare gli impatti del cambiamento
climatico - come molto probabilmente abbiamo fatto finora e continuiamo a
fare - ha rilevanti conseguenze sulle politiche sul clima. Come dichiara
all'agenzia Reuters Eric Neumayer, docente alla London School
of Economics, «il cambiamento climatico è qualcosa che rompe la cassetta degli
attrezzi degli economisti». «Come economisti - aggiunge - dovremmo ascoltare
gli scienziati quando ci parlano dell’impatto devastante del cambiamento
climatico».
Nonostante
questi limiti oggi c’è un ampio consenso tra gli esperti: i benefici della
transizione saranno molto maggiori dei costi necessari per portarla a termine e
la crisi climatica comporta un prezzo da pagare molto più elevato delle azioni
necessarie per fermarla. I costi di cui abbiamo parlato finora sono peraltro
solo di natura economica. La crisi climatica è oggi anche un serio problema di salute pubblica e una minaccia per l’esistenza
stessa di interi ecosistemi.
Perciò,
parlare solo dei costi della transizione, senza ricordare (o minimizzandoli)
quelli del riscaldamento globale, ha il solo effetto di insinuare il dubbio
sulla necessità delle azioni per il clima.
"I combustibili fossili
portano ricchezza e benessere"
Quando è
stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’IPCC ad agosto 2021, la macchina del
negazionismo climatico ha tentato di ridimensionarne l’urgenza e la gravità
promuovendo la narrazione dei combustibili fossili come “salvatori”, una
dinamica detta “fossil fuel saviour narrative”. In altre parole, il petrolio ha
fornito ricchezza e una più alta qualità della vita, e vietare i combustibili
fossili mette in pericolo la popolazione e “riporta l’umanità al medioevo”. Per
chi sostiene questa argomentazione, allontanarsi dai combustibili fossili sarà
costoso ed equivale a dire che le politiche sul cambiamento climatico ci
danneggeranno tutti, in alcuni casi porteranno persino la povertà. Questa
strategia ha l’obiettivo di minimizzare la realtà e la gravità del cambiamento
climatico e di radicare il sistema basato sui fossili. In particolare, fa leva
sul fatto che i fossili sono fornitori “passivi” e che non fanno altro che
rispondere alla domanda di energia da parte dei consumatori.
Sono stati
gli storici della scienza Naomi Oreskes e Geoffrey Supran a coniare
l’espressione “fossil fuel saviour narrative”. In uno studio hanno analizzato le
comunicazioni pubbliche della ExxonMobil sul riscaldamento globale durante la
metà degli anni 2000. Hanno scoperto che la compagnia è passata dal negare
completamente il fenomeno in un quadro di presunta “incertezza scientifica”, al
riconoscere implicitamente l’esistenza del cambiamento climatico attraverso due
strategie: far passare l’azione per il clima come una minaccia socio-economica
e far passare i combustibili fossili come “salvatori”. Vent’anni dopo, la
strategia di ExxonMobil non si discosta molto da quella dei primi anni 2000. Il
28 ottobre 2021 durante l’udienza di Big Oil all’Oversight
Committee del Congresso americano, che ha aperto un’indagine sul ruolo del
settore fossile nella disinformazione sul clima, la linea di difesa di Darren
Woods, CEO di Exxon è allineata con la “fossil fuel saviour narrative”. Questa
strategia, inoltre, non è utilizzata solo da Exxon ma anche da altre aziende
fossili e, più generalmente, da gruppi, individui e lobby che si impegnano per
ostacolare la transizione energetica ed evitare o ritardare il più possibile la
decarbonizzazione.
"Le politiche climatiche
sono una strategia governativa per limitare la nostra libertà"
L’appello
alla libertà personale ed economica è un argomento caratteristico di un copione
negazionista che si è ripetuto anche su altri temi, come i danni del fumo, i
vaccini e la stessa pandemia. La discussione pubblica sul
cambiamento climatico non ha mai riguardato soltanto la scienza e i fatti, ma
anche le loro implicazioni ideologiche e pratiche. Se la scienza dimostra che
il riscaldamento globale esiste, è di origine umana ed è un problema grave, le
politiche necessarie per fermarlo possono mettere in crisi alcune ideologie,
oltre che interessi economici. La negazione delle evidenze è perciò una
reazione a suo modo razionale, motivata dalla necessità di difendere interessi
o posizioni ideologiche che si ritiene siano minacciate.
La
presidenza di Donald Trump (che in passato era
arrivato a definire il riscaldamento globale una “bufala”), con la decisione di
ritirare gli Stati Uniti dall'Accordo sul clima di Parigi e la cancellazione di un centinaio di leggi sulla
protezione dell’ambiente, è stata l’applicazione sul campo di un’ideologia
conservatrice che negli ultimi decenni ha avuto una grande influenza nella
politica americana, anche sulle decisioni in campo ambientale ed energetico. Il
negazionismo climatico ha infatti trovato terreno fertile e supporto nell'area
conservatrice e di destra libertarian (una versione, più radicale, del liberalismo
classico), che in nome di una visione fondamentalista del libero mercato, di
una concezione dello Stato “minimo” e del rifiuto di politiche considerate
“socialiste”, si è opposta ai trattati internazionali e alle regolamentazioni
in campo ambientale. Comprese quelle necessarie per ridurre le emissioni di gas
serra.
Eppure, già
alla fine degli ‘80, la leader conservatrice britannica Margaret Thatcher mise in guardia dal pericolo
del riscaldamento globale, affermando che era un pericolo reale e che era
necessario affrontarlo. La sua era una posizione pragmatica e fondata sulle
migliori evidenze scientifiche allora disponibili.
Tuttavia,
negli anni ‘90, soprattutto negli Stati Uniti dove l’azione del negazionismo
organizzato è stato più pervasiva, il dibattito pubblico sul cambiamento
climatico ha subito una forte polarizzazione. Le posizioni più apertamente
negazioniste e antiscientifiche sul clima sono state propagandate dai think
tanks e dai media del mondo conservatore e libertarian.
L’ambientalismo
è stato attaccato come una minaccia per le libertà economiche e personali e per
il “nostro stile di vita” e come una pericolosa utopia. Secondo uno dei fondatori dell’Istituto Bruno Leoni - think tank italiano di
orientamento liberale, che per diverso tempo ha abbracciato tesi negazioniste
sul cambiamento climatico - «ammettere» l’origine antropica del cambiamento
climatico significherebbe correre il rischio che si attivino «meccanismi di
controllo che intervengono in maniera dettagliata sulla vita della gente». Uno
scenario distopico, che sarebbe il frutto di una deriva, nello stesso tempo,
scientista e ambientalista.
Oggi i
sondaggi mostrano che negli Stati Uniti il sostegno alle politiche per il clima
è cresciuto anche nell’elettorato repubblicano. Ciononostante, il partito
repubblicano (insieme ai più moderati tra i democratici) continua a mettersi di traverso alle
politiche energetiche a favore della transizione. E non solo. La strategia
negazionista sulle limitazioni della libertà individuale fa leva sulla paura
del controllo da parte del governo sulla popolazione. In particolare, sfrutta
la polarizzazione politica e sociale su temi legati al clima, come il consumo
della carne. Secondo questa narrazione chi si batte per le politiche climatiche
è oppressivo e ha l’obiettivo di controllare ogni aspetto della vita dei
cittadini, incluso ciò che possono o non possono mangiare. Per questo, quando
nell’ultimo anno si è parlato di politiche climatiche durante l’amministrazione
Biden i negazionisti hanno fatto circolare il falso mito che i democratici avevano
interesse a vietare gli hamburger.
Anche in
Europa, nonostante i sondaggi evidenzino una diffusa preoccupazione per la crisi climatica nell’opinione
pubblica, si riscontra ancora una correlazione tra
atteggiamenti negazionisti e ostili alle politiche per il clima e orientamenti
politici di destra. I partiti di destra (insieme al centro-destra rappresentato
dal Partito popolare europeo) si sono opposti alla decisione di innalzare
l'obiettivo di riduzione delle emissioni dell'Unione Europea al 60% entro il
2030. Secondo un’analisi del centro studi Adelphi, sul
cambiamento climatico la maggior parte dei partiti della destra populista
europea esprime posizioni negazioniste e scettiche o caute e poco interessate.
In Italia il
negazionismo climatico si ritrova in un'area politica sovranista, che si
estende oltre i confini degli attuali partiti di destra. Le opinioni non di
rado assumono tinte complottiste (le domande su “chi manovra” Greta Thunberg”
si sprecano). Secondo alcuni commentatori, all'orizzonte si starebbe perfino materializzando la minaccia di un
“lockdown climatico”, dopo quello pandemico. La stessa crisi climatica sarebbe
una scusa che le “élites globaliste” sfruttano per imporre costrizioni agli
individui e agli stati e distruggere le loro economie. Per quanto stravaganti,
si tratta di opinioni che si sono rafforzate durante la pandemia e che oggi
circolano negli stessi ambienti che si sono opposti alle misure di contenimento
o che - come aveva fatto lo stesso Trump - hanno negato o minimizzato la
gravità della diffusione del coronavirus.
Appello alla responsabilità
individuale
Secondo il
mito della responsabilità individuale, l’individuo viene identificato come
responsabile del problema della crisi climatica, dell’inquinamento, e del
riscaldamento globale e, di conseguenza, è responsabile anche della soluzione a
questi problemi. Oggi, l’appello alla responsabilità individuale è estremamente
diffuso ma, in realtà, nasce da una vecchia strategia comunicativa.
“L’Indiano
che piange”, il Crying Indian Ad, è uno spot pubblicitario degli anni ’70 il cui slogan
recitava “Le persone inquinano, le persone possono fermare l’inquinamento.” Lo
spot era parte di una campagna pubblicitaria messa su da Keep America Beautiful
(KAB), un’organizzazione fondata da aziende leader nel settore di bevande e
packaging che aveva l’obiettivo di prevenire i divieti statali sugli imballaggi
monouso. Fu questa campagna pubblicitaria a introdurre l’idea della
responsabilità individuale. L’obiettivo principale era distogliere l’attenzione
dall’attività delle industrie e dalla produzione, in modo tale che potessero
continuare ad agire indisturbate. Il messaggio all’opinione pubblica americana,
e poi mondiale, era che la soluzione dell’inquinamento dipende dagli individui
e non dal sistema.
Aveva
funzionato così bene che, inizialmente, lo spot televisivo era sostenuto anche
dai principali gruppi ambientalisti tra cui la National Audubon Society e il
Sierra Club. La risposta all’inquinamento, come intendeva KAB, non aveva nulla
a che fare con la politica o la produzione, era invece una questione di azione
individuale. Questa narrazione è fondamentale per capire come il negazionismo
climatico si è insinuato in maniera quasi del tutto invisibile, trasformando le
dinamiche comunicative a vantaggio delle lobby negazioniste, per cui grandi
problemi sistemici sono diventati esclusivamente questioni di responsabilità
individuale.
Questa
narrazione è stata talmente efficace che gli effetti della campagna sono,
ancora oggi, ben radicati nel pensiero collettivo. Nemmeno le aziende fossili
evitano più di parlare di ambiente, perché sanno che risulterebbe in un
effetto boomerang. Invece, tentano di mantenere il discorso sulla
responsabilità individuale: “cosa puoi fare tu per salvare il pianeta”. E di
sfuggire, a tutti i costi, alla responsabilità, distraendo dalla necessità
impellente di un cambiamento sistemico.
L’impronta
di carbonio individuale, un parametro utilizzato per stimare la quantità di
emissioni prodotte da un individuo, è un esempio tangibile di questa evoluzione
strategica. Nel 2004, la BP, azienda di gas e petrolio, ha presentato un calcolatore
per misurare la propria impronta di carbonio individuale. È stata un’idea
vincente soprattutto perché, nel giro di pochi anni, le piattaforme mediatiche
hanno fatto propria l’espressione e la responsabilità individuale è diventata
un tormentone. Nel frattempo, le aziende di combustibili fossili e la macchina
negazionista hanno continuato ad evadere la responsabilità e a mantenere il
loro business as usual. Il problema, infatti, è che non sono solo
le aziende fossili a utilizzare questa strategia. La narrazione è stata
interiorizzata a tal punto da non metterla più in discussione: viene reiterata
e alimentata anche da piattaforme mediatiche e comunicatori “in buona fede”,
che non agiscono necessariamente per interessi politici o economici.
Questo ha un
risultato su tutti: confondere ancora di più il pubblico e radicare la
narrazione all’interno di un bacino di possibili soluzioni possibili per
attenuare la crisi climatica. Di questa dimensione fanno parte, per esempio,
alcuni annunci pubblicitari o articoli di giornale che reindirizzano il lettore
o consumatore verso comportamenti e azioni individuali per “salvare il
pianeta”. Le azioni individuali sono necessarie e fondamentali, ma da sole non
possono risolvere il problema delle emissioni e dell’aumento della temperatura.
Greenwashing
Il greenwashing è
strettamente legato al concetto di impronta di carbonio individuale. Infatti, è
la pratica fuorviante di promuovere un prodotto o un servizio come verde allo
scopo di distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità nelle emissioni
di gas serra o nell'inquinamento. È problematica perché può far sembrare
un’azienda impegnata, più di quanto non lo sia realmente, nella protezione
ambientale. La parola greenwashing è il risultato della
combinazione di due parole: green, verde, e whitewashing,
la pratica di nascondere fatti spiacevoli. L’espressione rappresenta la
tendenza di molte aziende di pubblicizzarsi con presunti atteggiamenti
ecosostenibili al fine di ingannare il consumatore e mantenere un profitto.
L’uomo che
inventò il greenwashing si chiama Bruce Harrison e la società
da lui fondata nel 1973, la E Bruce Harrison Company, guidò la prima lotta
contro l’attivismo ambientale per conto dell’industria chimica. Alla fine degli
anni Settanta, Harrison si rese conto che attaccare gli ambientalisti aveva
troppi svantaggi, e cambiò strategia. Insegnò ai suoi clienti l’arte del
“mimetismo aziendale”, strategia che i gruppi ambientalisti hanno poi
etichettato come greenwashing. La campagna di influenza sociale
messa in moto da Harrison funzionò così bene che il greenwashing oggi
è centrale per la comunicazione di molte aziende, incluse quelle italiane.
Nel 2020,
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sanzionato l’ENI per 5 milioni di euro
per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli. Nella campagna
promozionale di ENI diesel+ venivano usate le espressioni come “green diesel”,
“componente green” e “componente rinnovabile” e venivano fatti altri annunci di
tutela dell’ambiente, come “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai
anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”. Secondo l’Antitrust
«il prodotto è un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente
inquinante e non può essere considerato green».
Generalmente,
il greenwashing è utilizzato dal settore fossile per ingannare
il pubblico e nascondere le proprie responsabilità, ma quest’industria non è
stata la prima a mettere in campo la strategia e non è l’unica. Il fossile ha
seguito il manuale dell’industria del tabacco per mascherare i propri sforzi
negazionisti e molte aziende oggi, tra cui anche alcune alimentari, cosmetiche
e di moda, utilizzano pubblicità e promozioni per deviare l'attenzione dai loro
modelli di business dannosi, ingannare il pubblico e, nei casi più estremi come
il lobbying fossile, convincere i politici a promuovere false soluzioni.
Si discute molto,
ad esempio, di tecnologie come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la
cattura diretta del carbonio. Pur essendo ancora oggetto di discussioni, si prevede che potranno
contribuire alla riduzione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera,
soprattutto in certi settori e quando saranno dispiegate su larga scala.
Tuttavia, c’è chi le presenta come soluzioni quasi salvifiche. Il rischio è che
queste tecnologie possano essere sfruttate, dalle stesse compagnie del settore
petrolifero (che stanno investendo nella loro realizzazione), come una scusa
per ritardare l’abbandono dei combustibili fossili, continuare a produrre
emissioni e darsi nel frattempo un’immagine green e
sostenibile.
Pur essendo
una vecchia strategia, il greenwashing fa parte del nuovo
negazionismo climatico perché, per le aziende, è semplice metterlo in campo
online o sui social media e permette loro di continuare ad ingannare il
pubblico e evadere la propria responsabilità. Secondo un nuovo studio 25.147 annunci di sole 25
organizzazioni del settore del petrolio e del gas sulle piattaforme
statunitensi di Facebook nel 2020 sono stati visualizzati oltre 431 milioni di
volte. Complessivamente, questi annunci sono costati alle aziende 9.597.376
dollari.
Secondo lo
studio, gli annunci promuovevano sia la “compatibilità” dell’industria con il
clima ed evidenziavano gli investimenti nelle energie rinnovabili e la
promozione del gas fossile come verde. In particolare, molti di questi annunci
contenevano contenuti fuorvianti o presentavano informazioni che non sono
allineata con la scienza del clima secondo i rapporti dell’IPCC e della
International Energy Agency (IEA) sul raggiungimento dello zero netto entro il
2050. Questa strategia indica chiaramente che l’industria utilizza il greenwashing sui
social media per influenzare il pubblico e si allinea con lo schema iniziale:
le aziende distribuiscono gli annunci in base a eventi e momenti politici
chiave come, per esempio, l’annuncio del piano climatico da parte di Biden per
2000 miliardi di dollari.
Un’altra analisi ha rivelato che due terzi dei
post sui social network pubblicati dalla fine del 2019 da sei delle più grandi
aziende europee di combustibili fossili presentano un’immagine “verde” anche se
l’attività delle aziende resta, per la maggior parte, radicata nei fossili.
L’analisi prende in esame 3.034 annunci pubblicati su Twitter, Facebook,
Instagram e Youtube da parte di sei aziende fossili: il colosso olandese Royal
Dutch Shell, la francese Total Energies, l’italiana Eni, la svedese Preem, la
spagnola Repsol e la finlandese Fortum. In media, secondo l’analisi, il 63 per
cento degli annunci pubblicitari analizzati rientra nella definizione di greenwashing.
"Il gas
naturale è un carburante ponte"
In molti
discorsi sulla transizione energetica il gas naturale recita il ruolo di
combustibile fossile “pulito”. «Il futuro sarà pulito e a tutto gas», afferma
il titolo di un post sul sito dell’ENI.
Il metano, che è il principale componente del gas naturale, produce in effetti
circa il 50% in meno di CO2 rispetto al carbone, quando viene
usato come combustibile, e rimane in atmosfera per molto meno tempo (poco più
di una decina d'anni). La sostituzione del carbone con il gas naturale
contribuisce perciò alla riduzione delle emissioni.
L’uso del
metano comporta però almeno due problemi. Questo gas ha un potenziale di
riscaldamento globale 28 volte più grande della
CO2 in un intervallo di tempo di 100 anni e di 84 volte in 20
anni. Questo significa che il metano è un gas serra molto potente soprattutto a
breve termine, una volta che finisce nell’atmosfera. Il secondo problema è
rappresentato dalle perdite di gas che si verificano lungo la filiera di
estrazione, stoccaggio, trasporto e utilizzo, che sono peraltro spesso
sottostimate.
Proprio
perché il metano è un potente gas serra e rimane nell’atmosfera per un breve
periodo, la riduzione delle sue emissioni è considerata un’azione critica, da
realizzare immediatamente nei prossimi anni, per contenere l’aumento della
temperatura globale entro 1.5°. Secondo il Global Methane Assessment, «la concentrazione atmosferica di
metano sta aumentando più velocemente che in qualsiasi altro momento dagli anni
'80». L’aumento è dovuto alle emissioni rilasciate dal settore dei combustibili
fossili, ma anche da quello agricolo agricolo-zootecnico e dai rifiuti (le due
altre sorgenti di metano originato da attività umane).
Gli autori
di uno studio pubblicato su Nature hanno
calcolato che per avere una probabilità del 50% di non superare 1,5° di aumento
della temperatura bisogna evitare di estrarre, da oggi al 2050, circa il 60%
delle riserve di petrolio e gas naturale (58 e 59% rispettivamente) e l'89% di
quelle di carbone. Se la maggior parte delle riserve di gas dovranno rimanere
nel sottosuolo, ciò comporta che anche la sua domanda dovrà presto ridursi.
Secondo il World Energy Outlook 2021, pubblicato dalla IEA, in uno scenario compatibile
con le emissioni nette zero al 2050, la domanda nelle economie avanzate
dovrebbe subire una contrazione già dopo il 2025, mentre dovrebbe aumentare nei
paesi emergenti dove il gas può sostituire il carbone. Negli anni ‘30 l'uso del
gas per la produzione di energia elettrica dovrebbe diminuire dell’80% a
livello globale.
Il gas
naturale è un’alternativa migliore del carbone ma, come le altre fonti fossili,
non può essere considerato una soluzione per la transizione energetica.
"Prima agisci tu, poi
io"
Un altro argomento
ampiamente diffuso sostiene che altri stati producono più emissioni di gas
serra e quindi hanno maggiore responsabilità nell’azione per il clima. Chi
sostiene queste argomentazioni spesso decontestualizza statistiche o dati per
“paragonarsi” ad altri che emettono di più. È una strategia del partito
Repubblicano negli Stati Uniti, per esempio, che spesso evidenzia quanto la
Cina inquini di più o non stia agendo come dovrebbe.
Come
sostiene lo studio “Discourses of climate delay”,
un problema di fondo in questa narrazione è la dinamica del “free rider”: a
meno che tutti gli individui, le industrie o i paesi si impegnano a ridurre le
emissioni, alcuni beneficeranno delle azioni di altri. In sostanza, altri
trarranno beneficio da coloro che guidano la mitigazione del cambiamento
climatico. Secondo il professore di Studi ambientali della New York University
Dale Jamieson, questa dinamica di atteggiamento del “prima tu, poi io” è molto
comune, soprattutto tra Stati. E viene utilizzata come strategia per
procrastinare e ritardare l’azione il più possibile: nessuno vuole agire se non
lo fanno tutti.
Riferimenti
alla sfera religiosa o all’estremismo
Questa
tattica negazionista ha a che fare con il linguaggio. I riferimenti alla sfera
pseudoreligiosa, infatti, vengono utilizzati in Italia per influenzare il
pubblico sulla crisi climatica al fine di relegare le posizioni in supporto
della scienza del clima ad un estremo dello spettro, e per sminuire il consenso
mondiale sulla scienza del clima. Nelle ultime settimane, e con il clima al
centro dello scenario mediatico e politico in occasione della Cop26, questa
strategia è tornata prevalente su alcune piattaforme mediatiche. In un
recente articolo su Il Foglio l’ecologia
diventa «religione per sostituire il cristianesimo concettuale» per cui «si
baciano alberi e si adorano balene». Anche espressioni come “fanatismo
ambientale” o termini come “integralista” o “fondamentalista”, carichi oggi di
una connotazione negativa nella percezione sociale, sono associati a parole
come “ecologia” nel tentativo di dare l’impressione che si parli di qualcuno
dalla posizione estrema e che quindi perde di credibilità nel contesto di una
tematica di portata pubblica. Vengono utilizzati su Il Foglio epiteti
come “profeti del klima” e “le teorie” sul cambiamento climatico
diventano “dogmi” su cui “non è ammesso il dissenso”. L’attivismo climatico dei
giovani diventa, poi, la “crociata dei bambini di Greta”.
Associare il
cambiamento climatico alla religione, inoltre, rafforza il messaggio che sia
una questione di fede e che non abbia a che fare con una realtà fattuale e
fisica. In altre parole, neutralizza il consenso della scienza del clima. In un
altro recente articolo gli ambientalisti sono
“dogmatici” e, per questo, occorre combattere anche contro chi «ha trasformato
in un culto la difesa dell’ambiente». Utilizzare termini come “dogma” e “culto”
è una scelta che sfrutta la forte connotazione delle parole per far passare il
messaggio che chi lotta per il clima è irragionevole, sganciato dalla realtà e
incapace di vedere le cose lucidamente. Questo capovolgimento ha l’obiettivo di
allontanare il più possibile il clima dalla dimensione fisica e scientifica e
di confinare il tema ad una questione di bigotteria e puritanesimo.
In molti
casi, il riferimento è diretto e si parla di “religione del riscaldamento
globale”. L’Istituto Bruno Leoni, per esempio, riporta sul suo sito
un commento, del 2007, intitolato “Il riscaldamento globale è la religione dei
nostri tempi” dove nell’occhiello si legge che «la scienza del clima non è
ancora in grado di spiegare compiutamente il fenomeno del riscaldamento globale
e ogni allarmismo riflette non certezze scientifiche ma un’agenda politica o
ideologica». L’Istituto Bruno Leoni è membro della Cooler Heads Coalition il cui
sito è pagato e gestito dal Competitive Enterprise Institute (CEI), un think
tank dal ruolo chiave nel ritiro degli USA dall’Accordo di Parigi. Altri membri
della Cooler Heads Coalition includono il Marshall Institute, il Heartland
Institute e il canadese Fraser Institute, tutti think tank centrali per il loro
ruolo nella rete negazionista.
Disfattismo e narrazione
apocalittica
Il
disfattismo è considerato tra i discorsi di procrastinazione nell’azione per il
clima poiché è controproducente e dà al pubblico la falsa percezione che “non
c’è più nulla da fare” o “il mondo sta finendo”. Le dichiarazioni politiche
possono rientrare tra questo genere di discorsi se sollevano il dubbio che la
mitigazione non sia possibile, indicando sfide politiche, sociali o
tecnologiche apparentemente insormontabili. Il disfattismo sostiene inoltre che
qualsiasi azione che intraprendiamo non basterà e che, comunque, è troppo
tardi.
Dichiarazioni
di questo genere evocano paura e possono portare a uno stato paralizzante di rassegnazione,
e come sostiene il climatologo Michael E.
Mann, «individui che altrimenti sarebbero in prima linea, persone che si
preoccupano profondamente del problema vengono convinte del fatto che è troppo
tardi e si disimpegnano e questa è una grande vittoria per i negazionisti».
Come molti altri discorsi di procrastinazione, questa strategia non favorisce
l’azione per il clima e l’impegno a sviluppare soluzioni efficaci.
Il
disfattismo non è da confondere con il catastrofismo o l'allarmismo di cui
parlano i negazionisti. Infatti, sfruttando la connotazione negativa del
termine “catastrofista” o “allarmista”, i negazionisti del cambiamento
climatico screditano un legittimo avvertimento scientifico, e associandosi,
invece, al termine “realista”, ribadiscono un elemento fondante del negazionismo
climatico. Per esempio, l’Heartland Institute, un'organizazzione
particolarmente attiva, indice ancora un congresso annuale dove sostiene che la
crisi climatica non è davvero una crisi e dove il “realismo climatico” si
contrappone al “socialismo climatico” degli “allarmisti”. Questi, secondo
l'Heartland Institute, presenterebbero «una raffica quotidiana di informazioni
false, fuorvianti e unilaterali, progettate per convincere la gente che una
crisi climatica è alle porte». Questo tipo di comunicazione, infatti, fa leva
sul ribaltamento della realtà e sulla creazione di una realtà alternativa: i
fatti vengono rimossi e resi irrilevanti a favore di tesi cospirazioniste che
spesso accusano gli scienziati del clima, gli ambientalisti o le piattaforme
d’informazione di mentire e ingannare il pubblico.
In questo
senso è importante fare una distinzione poiché la contrapposizione
"realista vs. allarmista" è una strategia comunicativa intenzionale
mossa da interessi economici, politici e ideologici, mentre il disfattismo può
essere intenzionale ma, nella maggior parte dei casi, è una reazione emotiva
che, seppur non particolarmente costruttiva, non è necessariamente in malafede.
Creare confusione
Come
mostrato in precedenza, l’Italia è uno dei pochi paesi dove alcune piattaforme
mediatiche anche mainstream continuano a dare spazio a posizioni negazioniste
sul clima, come se il dibattito scientifico sull’esistenza del cambiamento
climatico o sulla responsabilità antropica nella crisi climatica fosse ancora in
corso. Sappiamo che non lo è, infatti dare la parvenza che il cambiamento
climatico sia solo “una teoria”, “un’opinione” e non una realtà
scientificamente fondata è una delle prime strategie della macchina
negazioniste e risale a decenni fa. Oggi viene reiterata dai negazionisti o da
chi si impegna per confondere le acque e seminare dubbio sulla scienza del
clima, allo scopo di evitare un’azione politica sul tema. All’interno di questa
categoria ci sono anche argomentazioni come “il clima è sempre cambiato
naturalmente” oppure “l’aumento della temperatura è colpa del sole” o ancora
“fa freddo, quindi il cambiamento climatico non esiste”. I gruppi coinvolti nel
negazionismo del clima hanno fatto molta attenzione a portare avanti dei
messaggi che contenessero poche cose vere e tante falsità, quel che basta a far
sembrare che il tutto, nel complesso, sia “abbastanza ragionevole”.
Oreskes la
definisce la “strategia della confusione”. Uno dei motivi per cui finora è
stato così facile seminare dubbi sul cambiamento climatico è che quando
l’obiettivo è la confusione, i messaggi ambigui e contraddittori sono una
strategia molto efficace. Per i negazionisti l’ambiguità è una scappatoia
facile e mira quasi sempre a produrre l’equivoco. Spesso, per esempio, negli argomenti
dei negazionisti, soprattutto in lingua inglese, vengono utilizzate parole che
hanno un doppio significato per guidare il pubblico verso una conclusione
fuorviante. Molti dei contenuti che vengono ora diffusi, infatti, non sono
falsi, ma fuorvianti. Invece di dati inventati e storie false, i negazionisti
rielaborano contenuti genuini. Il risultato è quello che viene chiamato “caos
intenzionale”. I negazionisti hanno una lunga storia di confusione intenzionale
per ritardare l’azione sul clima. Meno il pubblico comprende la scienza del
clima, meno probabilità ha di sostenere politiche climatiche a livello
politico.
Per
alimentare questa confusione non è più necessario negare la crisi climatica. È
sufficiente enfatizzare alcuni aspetti della questione, ignorando il
resto del quadro. C’è chi, ad esempio, mette in contrapposizione l’adattamento
e la mitigazione (cioè il taglio delle emissioni climalteranti), suggerendo che
il primo sia un’alternativa più realistica della seconda. «Il climate change
non ha bisogno di panico ma di adattamento», recita il titolo di un intervento
su Il Foglio. Descrivere l’adattamento come una
sorta di alternativa all’obiettivo di emissioni zero è strumentale e scorretto.
I due obiettivi vanno di pari passo e la prima necessaria, urgente, azione è
fermare le emissioni di gas serra. Inoltre, adattarsi a 1.5°, 2° o 3° non è
affatto la stessa cosa. Sono argomenti strumentali, che possono veicolare idee
sbagliate e pericolose.
Uno degli
aspetti più insidiosi delle nuove strategie negazioniste è che spesso non
appaiono come distinte e nettamente separate tra loro, quindi è più complesso
riconoscerle. Anzi, per la maggior parte, le tattiche e strategie di
disinformazione sul clima si sovrappongono tra loro, intrecciandosi. In alcuni
casi, come menzionato in precedenza, sono riproposizioni di vecchie strategie
riadattate e plasmate per continuare ad essere efficaci in contesti
sociopolitici diversi. Qualunque forma o nome prenda, il negazionismo climatico
ha un obiettivo principale: ritardare e ostacolare il più possibile le
politiche climatiche.
Nella realtà
alternativa proposta dai negazionisti i fatti non contano e, anche se
fondamentali, non bastano più. Un fenomeno scientifico come il cambiamento
climatico diventa un tema di propaganda politica, una questione ideologica, una
dimensione incerta e ambigua, dove fatti e scienza non solo sono messi in
discussione ma resi dubitabili. Per questo, oltre a conoscere i fatti è
cruciale imparare a riconoscere quali sono le loro tattiche.
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