Il grido dell’indigena brasiliana Txai Suruí, figlia di uno dei leader più
rispettati del suo paese, Almir Suruí, è risuonato proprio in apertura della
Cop 26: «Mio padre mi ha insegnato che dobbiamo ascoltare le stelle, la luna,
gli animali, gli alberi. Oggi, il clima sta cambiando, gli animali stanno
scomparendo, i fiumi muoiono, le nostre piante non fioriscono più come prima.
La Terra ci sta dicendo che non abbiamo più tempo».
Ma è già troppo tardi per cambiare strada? Lo abbiamo chiesto a Leonardo
Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione, quella dei
poveri e del «grande povero» che è il nostro pianeta devastato e ferito, il cui
duplice – e congiunto – grido ha occupato il centro della sua intera
riflessione.
Tra i firmatari dell’accordo sulla deforestazione raggiunto alla Cop 26 c’è
anche Bolsonaro. Il trionfo dell’ipocrisia?
Nulla di minimamente credibile può venire dal governo Bolsonaro: con lui la
menzogna è diventata politica di stato. Solo su un punto ha detto la verità:
«Il mio governo è venuto per distruggere tutto e per ricominciare da capo».
Peccato che questo reinizio sia nel segno dell’oscurantismo e del negazionismo
scientifico, che si tratti di Covid o di Amazzonia. La sua opzione economica va
in direzione esattamente opposta a quella per la preservazione ecologica:
Bolsonaro ha favorito l’estrazione di legname, l’attività mineraria all’interno
delle aree indigene, la distruzione della foresta per far spazio alla
monocoltura della soia e all’allevamento. Solo da gennaio a settembre,
l’Amazzonia ha perso 8.939 km² di foresta, il 39% in più rispetto allo stesso
periodo del 2020 e l’indice peggiore degli ultimi 10 anni. La sua adesione al
piano di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030 è pura retorica.
In realtà, non ci sono dubbi sul fatto che proseguirà sulla strada della
deforestazione continuando a mentire al Brasile e al mondo.
L’Amazzonia potrà sopravvivere ad altri 10 anni di deforestazione?
Il grande specialista dell’Amazzonia Antônio Nobre afferma che, al ritmo
attuale di distruzione, e con un tasso di deforestazione già vicino al 20%, in
10 anni si potrebbe raggiungere il punto di non ritorno, con l’avvio di un
processo di trasformazione della foresta in una savana appena interrotta da
alcuni boschi. La foresta è lussureggiante ma con un suolo povero di humus: non
è il suolo che nutre gli alberi, ma il contrario. Il suolo è soltanto il
supporto fisico di un complicata trama di radici. Le piante si intrecciano
mediante le radici e si sostengono mutuamente alla base, costituendo un immenso
bilanciamento equilibrato e ritmato. Tutta la foresta si muove e danza. Per
questo motivo, quando una pianta viene abbattuta, ne trascina molte altre con
sé.
Siamo ancora in tempo per intervenire?
I leader mondiali hanno accuratamente evitato di toccare quello che è il
vero problema: il capitalismo. Se non cambiamo il modello di produzione e di
consumo, non fermeremo mai il riscaldamento globale, arrivando al 2030 con un
aumento della temperatura oltre il grado e mezzo. Le conseguenze sono note:
molte specie non riusciranno ad adattarsi e si estingueranno, si registreranno
grandi catastrofi ambientali e milioni di rifugiati climatici, in fuga da terre
non più coltivabili, oltrepasseranno i confini degli stati, per disperazione,
scatenando conflitti politici. E con il riscaldamento verranno anche altri
virus più pericolosi, con la possibile scomparsa di milioni di esseri umani.
Già ora i climatologi affermano che non c’è più tempo. Con l’anidride carbonica
che si è già accumulata nell’atmosfera, e che vi resterà per 100-120 anni, più
il metano che è 80 volte più nocivo della CO2, gli eventi estremi saranno
inevitabili. E la scienza e la tecnologia potranno attenuare gli effetti
catastrofici, ma non evitarli.
Ha sempre affermato che senza un vero cambiamento nella nostra relazione
con la natura non avremo scampo. L’umanità è pronta per questo passo?
Il sistema capitalista non offre le condizioni per operare mutamenti
strutturali, cioè per sviluppare un altro paradigma di produzione più
amichevole nei confronti della natura e in grado di superare la disuguaglianza
sociale. La sua logica interna è sempre quella di garantire in primo luogo il
profitto, sacrificando la natura e le vite umane. Da questo sistema non
possiamo aspettarci nulla. Sono le esperienze dal basso a offrire speranze di
alternativa: dal buen vivir dei popoli indigeni all’ecosocialismo di base fino
al bioregionalismo, il quale si propone di soddisfare le necessità materiali
rispettando le possibilità e i limiti di ogni ecosistema locale, creando al
tempo stesso le condizioni per la realizzazione dei beni spirituali, come il
senso di giustizia, la solidarietà, la compassione, l’amore e la cura per tutto
ciò che vive.
Fonte: il manifesto
Niente da aggiungere...
RispondiEliminapurtroppo l'ottimismo è fuori luogo :(
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