Quando nel paradiso in terra chiamato Bielorussia, nelle mani di Lukašenko, nel 2020 è stata chiusa l’Ong per la difesa dei diritti umani Viasna centinaia fra i manifestanti che protestavano sono stati arrestati.
In quel paese, Bielorussia, viene praticata la tortura (leggi qui)
Qui si possono leggere le vibranti proteste della Delegazione parlamentare italiana presso l'Assemblea del Consiglio d'Europa (tutti i partiti italiani ne fanno parte), e si può leggere anche delle sanzioni europee contro quel paese.
Quando nel paradiso in terra (nella terra dell’apartheid) chiamato Israele, nelle mani dei sionisti, nel 2021 sono state chiuse sei Ong palestinesi (non una, come in Bielorussia, ma sei), accusate di essere organizzazioni terroristiche.
In quel paese, Israele, viene praticata la tortura (leggi qui)
Le vibranti proteste e le sanzioni europee non sono pervenute.
(Francesco Masala)
Gli esperti
delle Nazioni Unite condannano la designazione da parte di Israele dei
difensori dei diritti umani palestinesi come organizzazioni terroristiche
Gli esperti
delle Nazioni Unite in materia di diritti umani hanno condannato oggi in modo
deciso e inequivocabile la decisione del ministro della Difesa israeliano Benny
Gantz di definire organizzazioni terroristiche sei associazioni palestinesi per
i diritti umani e a favore della società civile.
“Questa
definizione è un attacco frontale al movimento per i diritti umani palestinese
e ai diritti umani ovunque”, hanno affermato gli esperti. “Mettere a tacere le
loro voci non è ciò che farebbe una democrazia rispettosa di diritti umani e
norme umanitarie universalmente accettate. Chiediamo alla comunità
internazionale di sostenere i difensori”.
Gli esperti
hanno affermato che le leggi antiterrorismo sono progettate per uno scopo
specifico e ristretto e non devono essere utilizzate per minare
ingiustificatamente le libertà civili o per limitare il lavoro legittimo delle
organizzazioni per i diritti umani. Essi hanno aggiunto che il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Assemblea Generale e il Consiglio per i
Diritti Umani sono stati tutti chiari sulla necessità di applicare misure
antiterrorismo in modo coerente con il diritto internazionale e di non violare
gli obblighi internazionali degli Stati.
“Tale uso
improprio delle misure antiterrorismo da parte del governo israeliano mette in
pericolo la sicurezza di tutti”, hanno dichiarato gli esperti. “Le libertà di
associazione e di espressione devono essere pienamente rispettate al fine di
consentire alla società civile di svolgere il proprio indispensabile lavoro e
non possono essere compromesse dall’abuso manifestamente eclatante della
legislazione antiterrorismo e sulla sicurezza”.
Le sei
organizzazioni palestinesi sono Addameer, Al-Haq, Defense for Children
International – Palestine [Difesa internazionale dei bambini – Palestina,
ndtr.], Union of Agricultural Work Committees [Unione dei comitati del lavoro
agricolo, ndtr.], Bisan Center for Research and Development [Centro Bisan per
la ricerca e lo sviluppo, ndtr.] e Union of Palestine Women Committees [Unione
dei comitati delle donne palestinesi, ndtr.]. All’interno delle comunità con
cui lavorano ci sono donne e ragazze palestinesi, bambini, famiglie di
contadini, prigionieri e attivisti della società civile, ognuno dei quali
esposto ad una crescita del grado di discriminazione e persino di violenza.
“Queste
organizzazioni parlano il linguaggio dei diritti umani universali”, hanno
affermato gli esperti. “Affrontano il loro lavoro basandosi sui diritti,
inclusa un’analisi di genere, per documentare violazioni dei diritti umani di
ogni tipo in Palestina, comprese quelle connesse alle imprese”.
Questa
definizione vieterebbe di fatto a questi difensori dei diritti umani di
svolgere il loro lavoro e consentirebbe ai militari israeliani di arrestare il
loro personale, chiudere i loro uffici, confiscare i loro beni e proibire le
loro attività e l’impegno a favore dei diritti umani. Gli esperti sottolineano
la loro preoccupazione che almeno per una di queste organizzazioni questa
decisione possa essere stata presa come una forma di rappresaglia nei confronti
della cooperazione con gli organismi delle Nazioni Unite.
“Negli
ultimi anni l’esercito israeliano ha spesso preso di mira i difensori dei
diritti umani, mentre intensificava il suo intervento di occupazione, proseguiva
la sua sfida al diritto internazionale e aggravava il suo primato di violazioni
dei diritti umani”, hanno affermato gli esperti. “Mentre le organizzazioni
internazionali e israeliane per i diritti umani hanno dovuto affrontare pesanti
critiche, restrizioni legislative e persino espulsioni, i difensori dei diritti
umani palestinesi hanno dovuto sempre subire le costrizioni più severe”.
Gli esperti
sui diritti umani hanno invitato la comunità internazionale a far uso della sua
gamma completa di strumenti politici e diplomatici per chiedere a Israele di
rivedere e revocare questa decisione. “Queste organizzazioni della società
civile sono i canarini nella miniera di carbone dei diritti umani, che ci
mettono in guardia sui modelli di violazioni, ricordando alla comunità
internazionale i suoi obblighi di garantire l’attribuzione di responsabilità e
fornendo voce a coloro che non ne hanno”, hanno affermato gli esperti.
Michael
Lynk, Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori
palestinesi occupati dal 1967; Mary Lawlor, Relatrice Speciale sulla situazione
dei difensori dei diritti umani; Sig.ra Fionnuala Ní Aoláin, Relatrice Speciale
sulla promozione e la protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo;
Irene Khan, Relatrice Speciale per la promozione e la tutela del diritto alla
libertà di opinione e di espressione; Melissa Upreti (presidente), Dorothy
Estrada Tanck (vicepresidente), Elizabeth Broderick, Ivana Radačić e Meskerem
Geset Techane, gruppo di lavoro sulla discriminazione contro le donne e le
ragazze; Reem Alsalem, Relatrice Speciale sulla violenza contro le donne, le
sue cause e conseguenze; Clément N. Voule Relatore Speciale dell’ONU sul
diritto di riunione e associazione pacifica; Surya Deva (presidente), Elżbieta
Karska (vicepresidente), Githu Muigai, Dante Pesce e Anita Ramasastry del
gruppo di lavoro su imprese e diritti umani: Siobhán Mullally, Relatrice
Speciale sulla tratta di persone, in particolare donne e bambini;
I Relatori
Speciali fanno parte delle cosiddette Procedure Speciali del Consiglio dei
Diritti Umani. Procedure speciali, il più importante organismo di esperti
indipendenti all’interno dell’istituzione sui diritti umani delle Nazioni
Unite, è la denominazione generica dei sistemi indipendenti di indagine e
monitoraggio conoscitivi del Consiglio che affrontano situazioni specifiche di
un Paese o questioni tematiche in tutte le parti del mondo. Gli esperti delle
Procedure Speciali lavorano su base volontaria; non sono dipendenti delle
Nazioni Unite e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Sono
indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e prestano servizio a titolo
individuale.
(traduzione
dall’inglese di Aldo Lotta)
Ci prendono
di mira per una ragione: siamo riusciti a cambiare il paradigma - Yuval Abraham
Dopo essere
state messe all’improvviso fuorilegge in quanto “organizzazioni terroristiche”,
le associazioni palestinesi per i diritti umani parlano a +972 del perché le
accuse israeliane non solo sono infondate, ma rappresentano un atto di
persecuzione politica.
La scorsa
settimana, quando il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha firmato un
ordine esecutivo che dichiara “organizzazioni terroristiche” sei associazioni
palestinesi per i diritti umani, il governo non si è nemmeno preoccupato di
fingere che si trattasse di un procedimento corretto. Con un rapido colpo di
penna le ong – Al-Haq, Addameer, Bisan Center, Defense for Children
International-Palestine, the Union for Agricultural Work Committees e the Union
of Palestinian Women’s Committees – sono state istantaneamente messe fuori
legge senza neppure un processo né la possibilità di rispondere alle accuse
contro di loro.
Eppure la
grande maggioranza dei mezzi di informazione israeliani, invece di mettere in
discussione la dubbia natura di questa iniziativa, ha semplicemente copiato la
dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa sull’argomento, che accusa
le sei organizzazioni di essere legate al Fronte Popolare per la Liberazione
della Palestina (FPLP), un partito e un movimento laico e marxista-leninista
definito un gruppo terroristico da Israele.
Il governo
sostiene che le ong hanno riciclato fondi destinati a interventi umanitari e li
hanno trasferiti invece a scopi militari, accusando inoltre i funzionari delle
organizzazioni di essere, o essere stati, dell’ FPLP. Per anni anche
associazioni israeliane di destra, nel tentativo di troncare i finanziamenti
dall’estero, hanno cercato di mettere in rapporto queste organizzazioni con il
FPLP.
La decisione
del ministero della Difesa è basata su informazioni raccolte dallo Shin Bet
[servizio di intelligence interna, ndtr.], che non le ha rese pubbliche. Ma,
secondo fonti a conoscenza del caso giudiziario, le prove del servizio segreto
sarebbero basate sulla testimonianza di un unico impiegato licenziato per
corruzione da una delle associazioni.
Tuttavia esistono
parecchie prove che contraddicono la versione dello Shin Bet. Negli ultimi 5
anni, su pressione del governo israeliano e di ong filo-israeliane, vari
governi europei e fondazioni private che finanziano la società civile
palestinese hanno condotto approfonditi controlli su ognuna delle sei
organizzazioni. Nessuno ha trovato prove di uso scorretto dei fondi.
Oltretutto
le stesse organizzazioni prese di mira descrivono un quadro totalmente diverso
dalle accuse sollevate dallo Shin Bet, con molte prove a loro sostengo.
Ho parlato
con presidenti o importanti membri di cinque ong, tutti noti attivisti,
avvocati e intellettuali che criticano duramente sia il regime israeliano che
l’Autorità Nazionale Palestinese (l’ Union of Palestinian Women’s Committees [Unione
dei Comitati delle Donne Palestinesi] ha rifiutato di parlare con Local Call,
il sito in ebraico di +972, in cui è stato originariamente pubblicato questo
articolo). Rigettando totalmente le accuse israeliane, essi descrivono questi
ultimi attacchi come parte della pluriennale persecuzione politica della
società civile palestinese da parte di Israele per zittire il loro lavoro…
(traduzione
dall’inglese di Amedeo Rossi)
In Israele,
la destra agisce e la sinistra fa solo parole - Gideon Levy
La
frustrazione e la rabbia della vera sinistra in Israele stanno crescendo. Due
scrittori hanno espresso la loro indignazione su Haaretz: “Non hai solo ucciso.
Hai ucciso ed ereditato. Qualcuno ha qualche dubbio che il sionismo religioso
abbia ereditato il paese? Oggi, ovunque guardi, vedi il sionismo religioso.
Sono dappertutto. Con lo zucchetto, senza lo zucchetto, a destra, a sinistra,
nel governo e nell’opposizione, in tutta la struttura di comando dell’esercito,
nella polizia, nella Procura di Stato, nei media. Oggi tutti parlano la lingua
del sionismo religioso”, ha
scritto Carolina Landsmann, ogni parola scolpita col sangue della sua
anima.
Tre giorni
dopo, l’ex presidente di Meretz Zehava
Galon ha scritto, con una rabbia ancora più feroce: “Ascolta, animale
razzista, omofobo, xenofobo, misogino, che stai cercando di trascinarci in un
regime simil-talebano: non abbiamo paura di te … E ora vattene, prima che ti
trattiamo come trattavamo i fascisti di un tempo”, alludendo a quella che, a
parer suo, sarebbe stata la risposta corretta del centrosinistra e della
sinistra alla destra.
La sinistra
sionista bigotta non ama questa rabbia. Rimbomba nelle loro orecchie e
preferiscono la quiete educata. Ma ci sono così tanti motivi di arrabbiarsi...
La
dichiarazione che le organizzazioni per i diritti umani sono
organizzazioni terroristiche, la decisione di costruire migliaia
di unità abitative per i coloni e il voto
vergognoso alla Knesset sulla commemorazione del massacro di Kafr
Qasem: queste sono le ultime tre gocce che avrebbero dovuto far traboccare il
vaso della rabbia –che in realtà avrebbe dovuto traboccare da un pezzo.
Perciò è
impossibile non entrare in empatia con la rabbia di Landsmann e Galon. Ma è
proprio questa rabbia che mette in luce la debolezza della sinistra: son sempre
soltanto parole.
La destra
agisce e la sinistra grida. La destra si
insedia, fa
sommosse, brucia, uccide, mutila e si
impadronisce della terra, e la sinistra tace,
o documenta e condanna.
Il governo prende misure alla Erdogan contro le organizzazioni per i diritti
umani, la sinistra sionista al governo è complice del crimine e la vera
sinistra si arrabbia…
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPace Palestina
LA LOGICA
POST-11 SETTEMBRE ALL’OPERA NELL’ATTACCO ISRAELIANO ALLA SOCIETÀ CIVILE
PALESTINESE - Anwar Mhajne
La messa al
bando da parte di Israele di sei ONG palestinesi fa parte di una tendenza
post-11 settembre di governi che sfruttano le leggi antiterrorismo per
annullare il lavoro sui diritti umani.
Alla fine
della scorsa settimana, il ministero della Difesa israeliano ha designato sei
organizzazioni palestinesi per i diritti umani, tutte con sede in Cisgiordania,
come gruppi terroristici. Le organizzazioni – Al-Haq , Addameer , Bisan Center , Defense For Children
International-Palestine , Union of Agricultural
Work Committees e Union of
Palestine Women’s Committees – sono coinvolte in una serie di
attività, tra cui la difesa legale, la documentazione delle violazioni dei
diritti dei bambini e il sostegno e la difesa dei palestinesi incarcerati da
Israele.
La
dichiarazione rappresenta una sfida per il lavoro di queste organizzazioni e
favorisce l’estrema punizione legale, finanziaria e violenta. Ad esempio,
fornire supporto finanziario a qualsiasi organizzazione nell’elenco, anche
facendo volontariato, potrebbe ora essere considerato un’attività criminale . Ciò dissuaderà i
donatori locali e internazionali, tra cui molti paesi
europei , dal fornire finanziamenti alle organizzazioni, paralizzando
di fatto il loro lavoro. Inoltre, in nome dell’antiterrorismo, gli
individui coinvolti in queste organizzazioni potrebbero essere molestati,
minacciati, attaccati, arrestati e perseguiti.
Israele ha
interesse a caratterizzare queste organizzazioni come una minaccia alla
sicurezza perché documentano ed espongono le quotidiane violazioni dei diritti
umani da parte di Israele contro i palestinesi. I loro rapporti sono
serviti come prova
chiave per coloro che hanno intentato azioni penali nei tribunali
internazionali contro eminenti figure israeliane per sospetti abusi del diritto
internazionale.
Nel 2001 ,
ad esempio, i sopravvissuti al massacro di Sabra e Shatila del 1982 – in cui le
milizie falangiste a Beirut uccisero centinaia di profughi palestinesi con la
complicità dell’esercito israeliano – hanno intentato una causa in
Belgio ai sensi della legge sulla “giurisdizione universale” dello stato,
chiedendo che l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, che era ministro
della difesa all’epoca del massacro, sia incriminato per il suo ruolo nello
spargimento di sangue.
Mentre
la pressione politica
ha costretto il parlamento belga a modificare la legge nell’aprile 2003 e
ad abrogarla del tutto nell’agosto (portando la sua corte suprema ad abbandonare il caso
contro Sharon), i rapporti hanno
suggerito che dal momento in cui è stato depositato il reclamo, molteplici
azioni legali contro funzionari israeliani sono stati presentati in numerosi
paesi. Anche se nessuna di queste cause ha portato a una condanna, il
governo israeliano è stato sempre più innervosito da questa tendenza, spingendo
i funzionari governativi e altri attori di destra a tentare di minare le
organizzazioni palestinesi per i diritti umani che lavorano per documentare e
comunicare le violazioni dei diritti umani israeliane…
La messa al
bando delle ONG palestinesi è una macchia su Israele - Haaretz
La dichiarazione del governo che definisce le organizzazioni della società civile in Cisgiordania come organizzazioni terroristiche è una follia distruttiva ed è una macchia su tutti i partiti della coalizione e sullo stato stesso. La messa al bando dei gruppi per i diritti umani e la persecuzione degli attivisti umanitari sono caratteristiche tipiche dei regimi militari, in cui la democrazia nel suo senso più profondo è lettera morta.
L’ordine
firmato dal ministro
della Difesa Benny Gantz designa come organizzazioni terroristiche sei
ONG la cui attività può essere riassunta come segue.
Addameer offre assistenza legale ai
prigionieri, raccoglie dati sulle incarcerazioni, comprese le cosiddette
detenzioni amministrative (senza processo) e agisce per porre fine alla
tortura.
Al-Haq documenta le violazioni dei
diritti umani palestinesi nei territori occupati.
La sezione
palestinese di Defense for Children
International monitora l’uccisione di bambini e il benessere dei
bambini imprigionati in Israele.
L’Unione dei Comitati del
Lavoro Agricolo aiuta gli agricoltori palestinesi, principalmente nell’area
C della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è sotto il pieno
controllo israeliano.
Sono inclusi
nella dichiarazione del governo anche l’Unione
dei Comitati delle Donne Palestinesi e il Centro Bisan per la ricerca e lo
sviluppo.
L’intenzione
è chiara: Israele combatterà queste organizzazioni come combatte il terrorismo.
D’ora in
poi, non c’è più distinzione tra coloro che conducono una lotta violenta contro
lo stato e feriscono civili innocenti, da un lato, e dall’altro, avvocati di
organizzazioni per i diritti umani che offrono assistenza legale a prigionieri
o attivisti di sinistra in organizzazioni che si oppongono alla tortura,
proteggono donne e bambini e i loro diritti o documentano la violazione dei
diritti umani nei territori. Ora, chiunque sia affiliato a queste ultime
organizzazioni è assimilato a un terrorista.
C’è una
netta differenza tra definire la lotta nonviolenta contro l’occupazione come
“terrore diplomatico” e designare i gruppi per i diritti umani come
organizzazioni terroristiche. Il significato letterale ora è chiaro: ogni
resistenza all’occupazione è terrore. Israele sta minando la distinzione tra lotta
legittima e illegittima.
Questo è un
vantaggio per le organizzazioni terroristiche e per l’uso della violenza. Se
tutte le forme di resistenza costituiscono terrore, come si può resistere
all’occupazione senza essere terroristi? Non è chiaro cosa stesse pensando
Gantz quando ha firmato l’ordine.
Lui, come il
ministro dell’Interno Ayelet
Shaked, sta forse flirtando con un immaginario elettorato di destra,
sognando il giorno in cui sarà incoronato a guidare la destra dopo Benjamin
Netanyahu? È un tentativo di controbilanciare il suo incontro con il presidente
palestinese Mahmoud Abbas, che ha gettato su di lui una macchia di sinistra?
In ogni
caso, è indice di una confusione totale, che posiziona il cosiddetto
‘cambiamento di governo’ nell’estrema destra e trasforma in una farsa la
partecipazione ad esso di partiti di sinistra e di centro.
Se questo è
il cambiamento che il governo sta conducendo e questi sono i suoi colori
politici, non è chiaro come lo si possa ancora difendere solo per il timore che
l’alternativa siano nuove elezioni. Si può solo sperare che, in assenza di
resistenze interne, sia il duro rimprovero degli Stati Uniti e la loro
richiesta di chiarimenti a porre fine a questa mossa vergognosa…
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
C’è anche
l’Italia ai war games “Blue Flag 2021” in Israele - Antonio Mazzeo
La più
grande e più avanzata esercitazione aerea mai effettuata in Israele. È la definizione utilizzata dal
Ministero della difesa israeliano per presentare Blue Flag 2021,
i war games e le simulazioni di attacchi aerei e missilistici che hanno preso
il via domenica 17 ottobre dalla base aerea di Ovda (nei pressi della città
meridionale di Eilat), e che si concluderanno giorno 28.
“Lo scopo di
questa esercitazione è il rafforzamento strategico, l’apprendimento e il
miglioramento della coordinazione internazionale nell’uso dei velivoli di quarta
e quinta generazione (i cacciabombardieri Eurofighter, Rafale, Mirage 2000 e
F-35 Lightning II di Lockheed Martin, nda) in un ambiente operativo
stimolante, con particolare enfasi al potenziamento strutturale delle capacità
operative delle forze aeree partecipanti”, riporta la nota delle autorità
israeliane. “Blue Flag 2021 darà l’opportunità di condurre voli
tattici congiunti contro una serie di minacce, utilizzando le tecnologie più
avanzate. Nel corso delle operazioni, le forze partecipanti si eserciteranno
nei combattimenti aria-aria e aria-terra, nel contrasto ai missili terra-aria
(SAM) e in differenti scenari operativi in territorio nemico”. Previsti infine
pericolose evoluzioni aeree e voli in formazione a pochi metri dal suolo delle
grandi città di Tel Aviv e Gerusalemme.
Ai giochi di
guerra partecipano oltre agli assetti aerei di Israele, quelli di Stati Uniti,
Germania, Francia, Regno Unito, Grecia, India e dell’immancabile Italia, cioè i
maggiori partner in campo militare-industriale e strategico di Tel Aviv. Per i cacciabombardieri della
Royal Air Force si tratta della prima presenza nelle basi aeree israeliane
dalla fine del mandato britannico in Palestina nel 1948. Battesimo di fuoco nel
deserto del Negev pure per i caccia “Mirage” dell’aeronautica indiana e per i
“Rafale” delle forze armate francesi…
La raccolta
delle olive in Palestina, una tradizione minacciata dai coloni israeliani -
Michele Giorgio
Le olive e
l’olio d’oliva (e i derivati come il sapone) restano un capitolo centrale per
la vita di migliaia di famiglie nel nord e nord-ovest della Cisgiordania.
Più di 10 milioni di ulivi su circa 86mila ettari, rappresentano il 47% della
superficie totale coltivata. Tra 80mila e 100mila famiglie fondano il loro
reddito su questo settore che genera tra 160 e 200 milioni di dollari nelle
annate buone.
Negli ultimi due anni altre migliaia di lavoratrici e lavoratori si sono
aggiunti alla raccolta delle olive. Circa il 30% dei palestinesi ha perso il
lavoro o lo ha visto diventare sempre più precario a causa delle restrizioni
imposte dalla lotta al Covid.
Dossier: La
controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA e la repressione della
solidarietà ai palestinesi - A cura di BDS Italia e Rete Romana
di Solidarietà con il Popolo Palestinese
Combattere
l’antisemitismo
Difendere la libertà di espressione
Perché la
definizione IHRA dell’antisemitismo non è lo strumento adatto per nessuno dei
due obiettivi
Con il
sostegno di:
Assopace
Palestina, Centro Frantz Fanon, Centro Studi Sereno Regis, Istituto di Ricerca
per la Pace-Corpi Civili di Pace, Pax Christi Italia, Un ponte per, Volere la
Luna, Roberto Beneduce, Maurizio Bergamaschi, Francesca Biancani, Ilaria
Camplone, Luciana Castellina, Cristina Chiavari, Domenico Gallo, Gustavo Gozzi,
Riccardo Leoncini, Sandro Mezzadra, Moni Ovadia, Nadia Pagani, Vera Pegna,
Livio Pepino, Rosita Di Peri, Nicola Perugini, Daniela Pioppi, Paola Rivetti,
Angelo Stefanini, Simona Taliani, Guido Veronese
- Dal 2016 una discutibile
“definizione provvisoria” dell’antisemitismo, precedentemente elaborata e
poi rigettata da un’agenzia dell’Unione europea, viene
impiegata per mettere a tacere, se non criminalizzare, i sostenitori dei
diritti dei palestinesi e per proteggere l’impunità dello Stato di
Israele.
- La definizione promossa
dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA)mina la libertà
accademica e la libertà di espressione, sancite dall’Articolo 11 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dall’Art. 21 della
nostra Costituzione.
- La definizione IHRA è stata
utilizzata nel tentativo di far cancellare un evento all’Università di
Oxford con il celebre regista Ken Loach; nel tentativo di far
togliere il patrocinio di un municipio di Romaal festival
sulla cultura palestinese; in diverse cause contro alcune università
statunitensi; per negare spazi a ONG; per chiudere
il conto bancario di un gruppo ebraico; e nel tentativo
di cancellare corsi universitari.
- Sono numerose le critichedella definizione IHRA da parte
di autorevoli studiosi, inclusi dell’Olocausto, giuristi,
organizzazioni per i diritti civili, associazioni e personaggi ebraici
e israeliani, sindacati, 276 personalità italiane,
il Consiglio accademico dell’University College di Londra, e i
Consigli editoriali del New York Times, del Los
Angeles Times e del Washington Post, tra gli altri.
- Nonostante ciò, a seguito
di forti pressioni da parte del governo israelianoe dei suoi
sostenitori, anche se in molti Paesi non è stata formalmente adottata dal
governo, la definizione è stata comunque accolta da agenzie e istituzioni
dello Stato, oltre che da consigli comunali, università, mezzi
d’informazione, partiti politici e organizzazioni umanitarie. Il
governo italiano l’ha adottata parzialmente nel gennaio 2020.
- Il principale bersaglio della
definizione IHRA è il movimento nonviolento a guida palestinese per
il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS)nei
confronti dell’apartheid israeliana. La Corte Europea dei Diritti
Umani (CEDU) ha stabilito che il boicottaggio è una forma
protetta di protesta.
- Chiediamo, quindi, alle
istituzioni, ai partiti politici, agli enti locali, alle università, alle
ONG di:
- Respingere le pressioniper l’adozione della
definizione IHRA, che non è lo strumento adatto per combattere
l’antisemitismo e mette a grave rischio il diritto alla libertà di
espressione;
- Revocarla, qualora la definizione IHRA
sia già stata adottata;
- Accogliere e promuovere
i cinque
principistabiliti da 15 organizzazioni ebraiche per
combattere l’antisemitismo, tra cui non isolare l’ antisemitismo da altre
forme di oppressione e contrastare le ideologie politiche che fomentano
razzismo, odio, e paura;
- Assicurare il rispetto e la
tutela, tra gli altri, dei diritti per la libertà di espressione,
di associazione e di riunione, affermando anche il diritto di
promuovere e partecipare ad attività BDS;
- Garantire e tutelare il diritto
di contribuire al raggiungimento dei diritti umani del popolo palestineseattraverso
la pacifica promozione del BDS.
-
Ammanettato
e bendato, un veterano del maggior reparto speciale israeliano ora si batte
contro l’occupazione - Judy Maltz
Un’immagine
di Avner Wishnitzer è diventata virale il mese scorso quando lo storico, un
veterano della più prestigiosa unità di combattimento israeliana, è stato
malmenato e detenuto dall’esercito mentre cercava di fornire acqua agli
abitanti dei villaggi palestinesi
La foto mostra un uomo barbuto, bendato, con le mani legate davanti a sé. Un soldato israeliano è di guardia al suo fianco.
Senza
conoscere i fatti che riguardano quell’immagine, la maggior parte degli
israeliani penserebbe automaticamente che l’uomo sia un
palestinese. Dopotutto, quando i palestinesi sono
detenuti dalle truppe israeliane in Cisgiordania,
vengono regolarmente bendati.
Tuttavia,
non è così, e questo potrebbe spiegare perché questa particolare foto è
diventata virale sui social media israeliani.
L’uomo
bendato era un ebreo israeliano. Non un qualsiasi ebreo israeliano, ma un
veterano di Sayeret Matkal, l’unità di commando più d’élite delle
forze di difesa israeliane, acclamato in tutto il mondo per le sue audaci
operazioni di salvataggio degli ostaggi.
Avner
Wishnitzer, si potrebbe dire, è in buona compagnia: anche l’attuale primo
ministro israeliano, Naftali
Bennett, e due ex premier, Benjamin
Netanyahu ed Ehud
Barak, hanno prestato servizio in questa unità.
Ma
Wishnitzer, 45 anni, non era in servizio militare quando è stato arrestato
nelle colline di South Hebron quasi un mese fa. L’ex kibbutznik, che ora
insegna storia del Medio Oriente e dell’Africa all’Università di Tel Aviv, era
lì con un gruppo di attivisti anti-occupazione che avevano pianificato di
consegnare un serbatoio d’acqua a una comunità palestinese non collegata alla
rete idrica. La maggior parte degli attivisti apparteneva a Combatants for
Peace, un’organizzazione no-profit israelo-palestinese che si batte per la fine
dell’occupazione.
Ciò che
distingue questa particolare organizzazione è il fatto che è stata fondata da
individui che avevano visto la situazione da entrambi i lati del
conflitto. Wishnitzer, che è nato e cresciuto nel kibbutz Kvutzat Shiller
nel centro di Israele e attualmente risiede con la sua famiglia a Gerusalemme,
è stato uno dei membri fondatori.
Come
racconta, un gruppo di circa 50 attivisti era partito venerdì 17 settembre per
consegnare un serbatoio contenente quattro metri cubi d’acqua a una comunità
palestinese isolata vicino all’avamposto non autorizzato di Avigayil.
“Fa parte
della nostra campagna in corso per aiutare le comunità palestinesi sotto il
controllo israeliano ad avere accesso all’acqua, specialmente nelle colline a
sud di Hebron e nella Valle del Giordano, che sono le aree più aride della
Cisgiordania”, spiega Wishnitzer.
Egli osserva
che mentre l’esercito israeliano ha negato ai palestinesi l’accesso all’acqua
per il fatto che avevano fatto costruzioni illegali nell’area, lo stesso
ragionamento non viene applicato ai coloni dell’avamposto illegale, che godono
di acqua corrente illimitata.
Mentre lui e
i suoi compagni attivisti stavano procedendo lungo la strada, ricorda, i
soldati israeliani che pattugliavano l’area gli avevano ordinato di
fermarsi. “Non ci hanno spiegato perché non potevamo andare avanti”, dice
Wishnitzer. “Abbiamo detto loro che eravamo venuti per portare l’acqua
alle persone che non hanno acqua, e che intendevamo continuare”.
In risposta,
i soldati hanno cominciato a spingere gli attivisti e hanno lanciato
lacrimogeni e granate stordenti contro di loro. Le riprese video dello
scontro mostrano il comandante sul posto che getta a terra uno degli attivisti
anziani e, in stile George Floyd, gli mette un ginocchio sul collo.
Wishnitzer
non ha assistito a questo, però, perché faceva parte di un piccolo gruppo
immediatamente arrestato. “Hanno preso me e un altro ragazzo e, per qualche
motivo, ci hanno bendato gli occhi”, dice. “Chiaramente, la loro
intenzione era quella di umiliarci”.
L’altro uomo
bendato, dice, era un ex ufficiale di 60 anni della Brigata Paracadutisti che
aveva prestato servizio nella prima guerra israeliana in Libano.
“Quando ho
detto loro che non c’era motivo di trattenerci, che tutto ciò che volevamo fare
era portare dell’acqua a queste persone, sono stato chiamato un pezzo di m….”,
dice. I due ex combattenti bendati sono stati costretti a salire su un
veicolo militare e trattenuti per nove ore, parte delle quali nella vicina
stazione di polizia di Kiryat Arba. Non è mai stato detto loro perché
erano stati detenuti…
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
Quello che
avrei detto alla Knesset sulla violenza dei coloni, se me lo avessero permesso
- Ali Awad
Sono stato
l’unico palestinese invitato a parlare della violenza dei coloni israeliani in
una commissione della Knesset. Ma i membri di destra del parlamento hanno
sabotato la conversazione.
Martedì
avrei dovuto parlare con i membri della Knesset del diffuso fenomeno della
violenza dei coloni. Un gruppo di organizzazioni israeliane contro
l’occupazione – i nostri partner nella lotta per ottenere i nostri diritti e
difendere la nostra dignità sulla nostra stessa terra – mi ha invitato a
parlare alla Commissione per gli Affari Esteri e la Difesa.
Ma non l’ho
potuto fare. I politici israeliani hanno intenzionalmente mandato all’aria
la sessione da un momento all’altro, perché possono farlo. Queste forze di
destra vogliono nascondere e distorcere una verità che è stata da tempo
chiarita: la violenza dei coloni è violenza di stato.
Il
parlamentare di estrema destra Itamar Ben Gvir ha definito terrorista il
parlamentare palestinese Osama Saadi (Joint List) che fa parte della
Commissione; non ha subito conseguenze per i suoi commenti. Poco dopo
invece, il parlamentare Ofer Cassif (di Hadash) è stato espulso per aver
chiamato gli autori di un pogrom avvenuto
alla fine di settembre “coloni-terroristi”.
Quando il
trambusto si è placato, non c’era più tempo per me –l’unico palestinese
invitato a fare osservazioni sulla realtà vissuta nei territori occupati– per
parlare.
Se i
politici avessero deciso di ascoltare, invece di fare interruzioni in malafede
da entrambe le parti, ecco cosa avevo programmato di dire:
Cari membri
della Knesset,
Mi chiamo
Ali Awad. Sono nato e cresciuto nel villaggio di Tuba nelle colline a sud
di Hebron, situato in quella che il vostro governo ha dichiarato Zona
di tiro 918. Ho vissuto sotto la minaccia della violenza dei coloni da
quando sono nato nel 1998. Da bambino, questa minaccia è sempre esistita nella
mia mente insieme a quella dell’aggressione dei soldati – e nei due decenni della
mia vita sotto occupazione ho visto che in realtà le due cose si sovrappongono
completamente.
L’esercito e
i coloni lavorano in tandem per rubare le nostre risorse e sopprimere la nostra
libertà. I soldati prendono la nostra terra con il pretesto della sicurezza,
solo per poi darla ai coloni per stabilire avamposti agricoli. Questo non
avviene a caso. L’espansione e la violenza dei coloni avvengono sotto la
protezione dell’esercito e con il supporto delle leggi. Sia dichiarando
una zona di fuoco, sia attraverso l’uso di leggi ottomane obsolete, il
governo agisce per prendere il controllo di enormi porzioni di territorio che
vengono poi
dichiarate terra di stato e rese più disponibili all’acquisizione da
parte dei coloni. In ogni fase di questo processo c’è piena cooperazione
tra i coloni e l’esercito…
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
La posizione
pro-palestinese alla fine diventerà la norma al Congresso USA - Ramzy Baroud
C’è stato un
inequivocabile cambiamento nella politica degli Stati Uniti riguardo alla
Palestina e ad Israele, un cambiamento dovuto al modo in cui molti americani,
specialmente i giovani, vedono la lotta palestinese e l’occupazione
israeliana. Anche se questo cambiamento deve ancora tradursi in una
diminuzione tangibile della roccaforte di Israele sul Congresso degli Stati
Uniti, promette di avere importanti sviluppi nei prossimi anni.
I recenti
eventi alla Camera dei Rappresentanti dimostrano chiaramente questa realtà
senza precedenti. Il 21 settembre, i legislatori democratici hanno
respinto con successo un caveat [avvertimento] che proponeva
di dare a Israele 1 miliardo di dollari in finanziamenti militari come parte di
un disegno di legge di spesa più ampio, dopo le obiezioni di diversi membri
progressisti del Congresso. Il denaro era specificamente destinato a finanziare
l’acquisto di nuove batterie e intercettori per il sistema di difesa
missilistico israeliano Iron Dome.
Due giorni
dopo, il finanziamento dell’Iron Dome è stato reintrodotto e, questa volta, è
passato con successo e in modo schiacciante per 420 voti contro nove,
nonostante le appassionate richieste del rappresentante palestinese-americano
Rashida Tlaib. In questo voto, solo otto democratici si sono opposti al
provvedimento. Il nono voto contrario è stato espresso da un membro del
Partito Repubblicano, il rappresentante Thomas Massie del Kentucky. La
rappresentante democratica Alexandria Ocasio-Cortez, sebbene fosse una delle
voci che avevano bloccato la misura di finanziamento iniziale, ha cambiato il
suo voto su “presente” –in pratica un’astensione– creando confusione e rabbia
tra i suoi sostenitori.
Per quanto
riguarda Massie, la sua sfida all’opinione dominante tra i repubblicani gli è
valsa il titolo di “Antisemita della Settimana” dalla ben nota organizzazione
filo-israeliana Stop Antisemitism.
Nonostante
l’esito della controversia, il semplice fatto che un simile episodio si sia
verificato al Congresso è stato un evento storico che richiede molta
riflessione. Significa che parlare contro l’occupazione israeliana della
Palestina non è più un tabù tra i politici statunitensi eletti.
Una volta,
parlare contro Israele al Congresso generava una reazione massiccia e ben
organizzata da parte della lobby pro-israeliana, in particolare l’American
Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che in passato ha posto fine alla
carriera di vari esponenti politici, anche veterani. Una combinazione di
tattiche diffamatorie dei media, sostegno dei rivali elettorali nonché aperte
minacce, segnava spesso il destino dei pochi membri dissenzienti del Congresso.
Mentre l’AIPAC
e le sue organizzazioni sorelle continuano a utilizzare le stesse tattiche di
un tempo, la strategia complessiva non è efficace come una volta
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
Io finanzio
gruppi terroristici - Amira Hass
Annuncio e
confesso qui che io finanzio il terrorismo. Parte del denaro delle tasse che
pago al governo israeliano viene trasferito alle sue attività terroristiche e a
quelle dei suoi rappresentanti, i coloni, contro il popolo palestinese.
Se per
“terrorismo” si intende imporre terrore e paura, allora cos’altro fanno i
comandanti dell’esercito e del servizio di sicurezza dello Shin Bet quando
inviano soldati col volto coperto a fare irruzione nelle case dei palestinesi,
notte dopo notte? Accompagnati dai loro cani e con i fucili puntati, i soldati
svegliano le famiglie dal sonno, rovesciano il contenuto degli armadi,
confiscano beni e picchiano gli adulti davanti ai bambini.
Cosa fanno
gli ispettori dell’Amministrazione Civile quando si aggirano tra comunità di
pastori, e controllano se magari è stata aggiunta una tenda o uno scivolo per
bambini da demolire? Cosa fanno le telecamere di sorveglianza installate ad
ogni posto
di blocco all’uscita da una città palestinese, se non intimidire e
disciplinare?
E la polizia
di frontiera maschile e femminile di Gerusalemme, che trattiene chiunque sembri
un arabo, e i soldati e i poliziotti che danno un calcio qui, uno schiaffo là,
a chiunque osi litigare con loro, o raccogliere
olive… qual è il loro compito se non quello di incutere paura?
E le bande
di coloni mascherati, a petto nudo, frange sacre, armi “non letali” e da
fuoco –come chiameremo le loro orge di attacchi a persone e alberi se non
terrore? Una frazione delle tasse che pago certamente li raggiunge: forse
finisce per andare ai consigli di insediamento che includono i delinquenti,
forse ai loro funzionari e ai funzionari del ministero della Difesa che insieme
hanno progettato e realizzato il modello di successo degli avamposti di
pastori.
In tutta la
Cisgiordania gli avamposti operano secondo lo stesso schema: una famiglia di
coloni veterani si impadronisce di un appezzamento di terra palestinese, riceve
un gregge di pecore o capre e bovini, e poi, usando fucili, pietre, cani,
giovani pastori e droni, minaccia i palestinesi e impedisce alle loro mandrie
di raggiungere i loro pascoli.
Il concetto
di “terrore” ha da tempo superato i limiti della semplice intimidazione e
include anche atti di distruzione e uccisione. Le mie tasse, e quelle di tutti
i cittadini e residenti israeliani, li finanziano.
Parte delle
mie tasse è andata al bombardamento di strutture residenziali e all’uccisione
dei loro abitanti palestinesi, compresi bambini e donne. Le mie tasse
finanziano i proiettili che uccidono e feriscono i manifestanti nel villaggio
di Beita in Cisgiordania e a Gaza. Le nostre tasse sovvenzionano gli
insediamenti e coprono il costo della demolizione delle case palestinesi da
parte dell’Amministrazione Civile e del Comune di Gerusalemme. Sotto le mentite
spoglie di un paese rispettoso della legge e grazie al nostro finanziamento,
Israele ha perpetrato tutti questi atti di terrore e molti altri. Giorno dopo
giorno. Ora dopo ora…
Traduzione di
Donato Cioli – AssoPacePalestina
In
Palestina, il “terrore” dell’uguaglianza - Luigi Daniele
Nel silenzio
assordante delle agenzie di stampa e della politica italiana (mentre in tutto
il mondo si susseguono notizie, comunicati e
dure prese di posizione di parlamentari), il
Ministero della Difesa israeliano guidato da Benjamin Gantz si è
spinto laddove neanche i governi Netanyahu avevano osato: sei
organizzazioni della società civile palestinese, tra cui ONG di prestigio
mondiale e punto di riferimento internazionale per la tutela dei diritti umani
nel territorio occupato dello Stato di Palestina, sono state dichiarate
“organizzazioni terroristiche”.
Il cuore dell’accusa:
queste organizzazioni, nella loro interezza, sarebbero “rami”
sotto copertura del partito del Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina. Le prove: riservate.
Dunque la
più antica organizzazione palestinese per i diritti umani, Al Haq, assieme ad Addameer, Prisoners Support and Human Rights
Association e Defense
For Children International, nonché il Bisan
Centre for Research and Development, l’Unione
dei Comitati per il Lavoro Agricolo e l’Unione
dei Comitati delle Donne Palestinesi, sono ora equiparate a
tutti gli effetti, per l’ordinamento giuridico di Israele, allo status
riservato ai gruppi armati.
L’accusa è
di tale gravità da instillare dubbi in chi non avesse familiarità col dibattito
giuridico-internazionalistico sull’occupazione israeliana, o con nomi e
attività delle organizzazioni stesse. Per identificare la natura del
lavoro che esse svolgono, chi legge può consultarne i siti, riscontrando la
vasta mole di ben documentati report e circostanziate denunce a proposito
di: minori
e bambini detenuti dalla giustizia militare israeliana, rappresentanza
legale dei detenuti
amministrativi e politici dinanzi
alle corti militari, violazione sistematica delle garanzie del giusto
processo, arresti
arbitrari, torture
fisiche e psicologiche inflitte ai cittadini e minori palestinesi,
o abusi
armati dei coloni, solo per citare alcuni temi.
Proprio in
virtù del proprio lavoro, le organizzazioni colpite hanno
immediatamente reagito affermando che
la designazione di organizzazioni terroristiche rappresenta l’ultimo atto di
una escalation di attacchi diffusi e sistematici ai difensori
palestinesi dei diritti fondamentali, mirata a delegittimare, opprimere,
silenziare e privare di risorse economiche le rispettive attività.
Il Direttore
di Al Haq, Shawan Jabarin (destinatario di premi
internazionali in diversi Paesi europei, tra cui Danimarca e Olanda),
ha affermato che il
provvedimento del Governo israeliano ben rappresenta l’impossibilità di
contestare la legittimità e trasparenza del lavoro delle ONG palestinesi sulla
base del diritto e delle prove, rifuggendo dunque ogni accertamento
giurisdizionale e possibilità di convalida delle accuse parte di una corte.
Proprio in
virtù di questo aspetto, l’ondata internazionale di allarme e
indignazione è in questi giorni cresciuta. Nel momento in cui si scrive,
ben 22 organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno sottoscritto un
durissimo manifesto contro
il provvedimento in cui parlano di “atto di codardia caratteristico di un
governo autoritario repressivo”. La lista di comunicati di solidarietà, a
cominciare da quello congiunto di Amnesty
International e Human Rights Watch, si allunga di ora in ora.
L’inaccettabilità del provvedimento, inoltre, è stata prontamente argomentata,
insistendo sulla mancanza di qualsiasi prova, dai docenti israeliani Lieblich
e Shinar.
A ben
vedere, chiunque si sia occupato da qualsiasi parte del mondo di diritto
internazionale e conflitto mediorientale, ne ha incrociato, discusso e citato
gli autorevoli report, senza considerare tutti coloro che vi abbiano
collaborato direttamente (ad oggi soggetti, a rigore delle norme, a numerosi
anni di reclusione in caso di transito in Israele)…
Ricerca
scientifica, istruzione superiore e diritto internazionale: la situazione nella
Palestina occupata da Israele - David Kattenburg, Imad Barghouthi
Una
popolazione istruita e una capacità di ricerca scientifica avanzata sono
fattori chiave per lo sviluppo nazionale di uno stato sovrano. Nessuno lo
sa meglio di “Start-Up Israel”. Secondo una stima recente, Israele ha la
terza popolazione più istruita al mondo (dopo Canada e Giappone). Per
quanto riguarda i cinque milioni di palestinesi che vivono sotto un governo
militare permanente, Israele onora questa verità violandola sistematicamente,
impedendo cioè il loro accesso all’istruzione e la possibilità per gli
scienziati palestinesi di condurre ricerche.
Questa
politica ha radici profonde. In un recente articolo di Ha’aretz, Adam Raz,
dell’Akevot Institute for Israel-Palestinian Conflict Research, cita un paio di
documenti recentemente declassificati. “Il settore arabo deve essere tenuto al
più basso livello possibile, in modo che non accada nulla”, disse il
commissario di polizia Yosef Nachmias, in una riunione del febbraio 1960 dei
capi della sicurezza israeliana. “Finché sono istruiti a metà, sto tranquillo”,
disse il capo dello Shin Bet Amos Manor. Bisogna quindi sostenere solo
strutture sociali tradizionali “arabe”, aggiunse, al fine di “[rallentare] il
ritmo del progresso e dello sviluppo”. Infatti, sottolineava Manor, “Le
rivoluzioni non sono fomentate dal proletariato, ma da un’intellighenzia
ingrassata”. Con questo in mente, Manor consigliava che “tutte le leggi devono
essere applicate, anche se non sono piacevoli” e che “i mezzi illegali
dovrebbero essere considerati [dalle autorità] solo quando non c’è scelta, e
anche allora – solo a una condizione: che ci siano buoni risultati”.
Probabilmente Manor si riferiva alle leggi interne israeliane che potrebbero
essere usate per opprimere gli intellettuali palestinesi. Potrebbe anche aver
avuto in mente il diritto internazionale, che dovrebbe essere ignorato. In
quanto Stato membro delle Nazioni Unite, Israele è obbligato a rispettare le
disposizioni della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 che
garantisce il diritto all’istruzione 1. “Tutti hanno diritto
all’istruzione”, afferma l’articolo 26 della Dichiarazione Universale.
“L’istruzione tecnica e professionale deve essere resa accessibile a tutti e
l’istruzione superiore deve essere ugualmente accessibile a tutti sulla base
del merito”.
Sei anni
dopo i commenti di Manor, Israele è stato tra i primi a siglare il Patto
Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali 2,
aderendo formalmente al Patto nel 1991. Tuttavia, dopo la conquista nel 1967
della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e di Gaza , Israele ha preso la
posizione che il Patto non si applica in questi territori. Si trovano al
di fuori del territorio sovrano israeliano, sosteneva Israele, estendendo nel
contempo i diritti del Patto ai coloni ebrei in Cisgiordania. Quali sono
questi diritti del Patto? L’articolo 13, paragrafo 1, recita: “Gli Stati
parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo
all’istruzione”. L’articolo 13 (2) (c) afferma: “L’istruzione superiore
deve essere resa egualmente accessibile a tutti, sulla base delle capacità, con
ogni mezzo appropriato…” E l’articolo 15 (3) afferma: “Gli Stati parti del
presente Patto si impegnano a rispettare la libertà indispensabile alla ricerca
scientifica e all’attività creativa”.
Il comitato
delle Nazioni Unite responsabile dell’amministrazione del Patto ha accusato
Israele per il suo rifiuto di estendere i diritti del Patto ai
palestinesi. Nelle sue “Osservazioni Conclusive” del novembre 2019 sul 4°
Rapporto Periodico di Israele 3, il Comitato ha espresso
preoccupazione per “l’accesso limitato degli studenti [palestinesi]
all’istruzione”, la “frequente demolizione di edifici scolastici e la confisca
dei locali scolastici”, “perquisizioni armate o non armate di scuole
palestinesi e la “frequente incidenza di molestie o minacce contro studenti e
insegnanti da parte delle forze di sicurezza o dei coloni israeliani ai posti
di blocco o lungo le strade, che ostacolano particolarmente le
studentesse”. Il comitato delle Nazioni Unite ha anche espresso preoccupazione
per “il divieto generale di istruzione in Cisgiordania imposto dal 2014 agli
studenti della Striscia di Gaza” e “il grave impatto della lista [israeliana]
dei dispositivi a duplice uso sulla capacità degli studenti nella Striscia di
Gaza di godere del proprio diritto all’istruzione, in particolare nei campi
della scienza e dell’ingegneria.”
A questi
commenti fanno eco gli scienziati palestinesi. Un caso recente e
drammatico è quello del professor Imad Barghouthi, astrofisico dell’Università
Al-Quds, nel quartiere di Abu Dis a Gerusalemme Est. Il dottor Barghouthi
è stato arrestato tre volte dalla polizia di sicurezza
israeliana. Nell’occasione più recente, il 16 luglio 2020, le autorità
israeliane hanno accusato Barghouthi di “incitamento” per i suoi post su
Facebook. Dopo 52 giorni di reclusione, un giudice israeliano ha stabilito
che i post sui social media di Barghouthi non costituivano incitamento. Allora
la polizia israeliana ha optato per la “detenzione amministrativa”, una pratica
di routine per incarcerare i palestinesi a tempo indeterminato, senza
accuse. Barghouthi ha trascorso dieci mesi e mezzo in carcere, all’interno
di Israele, in violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra…
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
Perché
Israele chiama “terrorismo” i diritti umani - Raja Shehadeh
Con una
mossa ampiamente condannata, il governo israeliano ha bandito il gruppo che ho
fondato. Così si assicura l’impunità per le sue politiche illegali di
occupazione.
Nota
dell’editore della New York Review
Il 16
ottobre abbiamo
parlato con Raja Shehadeh del suo lavoro come scrittore, come
avvocato e fondatore, nel 1979, di Al-Haq, che presto è diventato il principale
gruppo di monitoraggio dei diritti umani in Palestina.
“Il mio
mondo di Ramallah, con la sua vicinanza alle colline, si stava trasformando
inesorabilmente in un modo che mi sconcertava e mi spaventava”, ci ha detto. “I
cambiamenti avvenuti tramite l’acquisizione di terre da parte dell’esercito israeliano,
utilizzando vari stratagemmi legali spuri e sostituendo i nomi del territorio,
delle città e dei villaggi con nomi ebraici, nonché i cambiamenti nella
narrativa che hanno accompagnato il processo, sono stati tutti preceduti da
modifiche avvenute nelle leggi locali.”
“Il mio
progetto era di fare la cronaca di questi cambiamenti dal punto divista legale
e mettere in guardia contro le loro conseguenze. Mi sono dedicato a questo
progetto con la speranza di sensibilizzare le persone ed esercitare pressioni
per fermare la colonizzazione israeliana della nostra terra”.
Quel
progetto quarantennale di mettere in luce le responsabilità legali è stato
interdetto la scorsa settimana quando, il 22 ottobre, il governo israeliano ha
dichiarato Al-Haq e altre cinque ONG “organizzazioni terroristiche”, mettendole
effettivamente al bando. Shehadeh ha scritto per noi la seguente risposta a
quella dichiarazione.
Nel 1978
sono tornato a Ramallah dai miei studi legali a Londra, pieno di idee
sull’importanza dello stato di diritto e sulle possibilità di resistere
all’occupazione israeliana utilizzando il diritto internazionale. L’anno
successivo, io e due colleghi, un laureato a Yale di nome Charles Shammas e
l’avvocato americano Jonathan Kuttab, abbiamo fondato un’organizzazione che
abbiamo chiamato Al-Haq (arabo per La Destra) affiliata alla Commissione
Internazionale dei Giuristi (ICJ) di Ginevra. È stato uno dei primi gruppi per
i diritti umani nel mondo arabo e il primo e unico del suo genere nei territori
occupati da Israele.
La prima
attività importante di Al-Haq è stata quella di documentare i vasti cambiamenti
nelle leggi locali della Cisgiordania occupata, imposti dagli ordini militari
israeliani. Questi cambiamenti, in violazione del diritto internazionale, sono
stati progettati per consentire a Israele di compiere acquisizioni illegali di
terreni per la costruzione di insediamenti israeliani illegali. In uno studio che io e Jonathan
abbiamo scritto, intitolato The West Bank and the Rule of Law,
pubblicato congiuntamente nel 1980 da Al-Haq e dall’ICJ, abbiamo sottolineato
che quegli ordini militari erano stati nascosti alla vista del pubblico. Che
Israele stesse quindi usando una legislazione segreta per violare il diritto
internazionale era motivo di imbarazzo nazionale, sebbene fosse negato dal
governo e inizialmente contestato da un certo numero di giornalisti israeliani.
Dopo aver studiato la questione, questi giornalisti si sono resi conto che non avevamo
esagerato e che quegli ordini, in effetti, non erano stati pubblicati.
Durante i
più di quarant’anni dalla sua fondazione, Al-Haq ha continuato a servire gli
obiettivi per cui era stata istituita: documentare e resistere attraverso la
legge alle violazioni israeliane dei diritti umani, compreso il maltrattamento
dei prigionieri, lo sfruttamento economico delle risorse naturali dei Territori
Occupati e la costruzione di insediamenti illegali. Dopo l’istituzione
dell’Autorità Palestinese in seguito agli Accordi di Oslo del 1993-1995, il
monitoraggio delle violazioni da parte di Al-Haq si è esteso a quelle commesse
dall’Autorità Palestinese, alla quale Israele aveva trasferito alcuni poteri
civili. Grazie a questo record di impegno imparziale nei confronti della legge,
Al-Haq è diventata una risorsa affidabile per numerose organizzazioni
internazionali per i diritti umani, nonché per le Nazioni Unite e i governi di
tutto il mondo.
Il governo
israeliano ha cercato con insistenza di screditare Al-Haq e il suo lavoro. Fin
dai nostri primi giorni, i suoi funzionari hanno tentato di diffamare Al-Haq
definendolo una copertura per l’allora illegale Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP); ora hanno etichettato Al-Haq
come un ramo di una delle fazioni più radicali dell’OLP, il Fronte Popolare per
la Liberazione della Palestina. Entrambe sono accuse assurde. Tuttavia, negli
anni dal 1979 al 1993, quando ho agito come co-direttore di Al-Haq, ho passato
molte notti insonni a preoccuparmi di quali potessero essere le rappresaglie
israeliane per i nostri rapporti espliciti e schiaccianti sull’occupazione.
Oltre a fare
del loro meglio per screditare i nostri rapporti sui diritti umani, le autorità
israeliane mi hanno spesso chiamato per interrogarmi sul mio coinvolgimento in
Al-Haq e hanno fatto pressioni su mio padre, anche lui avvocato, perché mi
convincesse a dimettermi dal mio incarico. Nel frattempo, i nostri operatori
sul campo sono stati molestati, membri del personale sono stati detenuti e ad
altri collaboratori è stato impedito di viaggiare. Eppure, durante la
re-invasione della Cisgiordania del 2002, quando l’esercito israeliano ha
distrutto numerosi uffici di ONG, oltre a quelli della stessa Autorità
Palestinese a Ramallah, Al-Haq è stato risparmiato. Il governo non si era mai
affidato al suo senso di totale impunità da designare Al-Haq come
“organizzazione terroristica” –fino ad ora.
Il 22
ottobre ero in vacanza a Edimburgo, in Scozia, quando ho sentito questa notizia
scioccante: che il ministro della Difesa israeliano e vice primo ministro,
Benny Gantz, aveva emesso un ordine in cui si dichiara che Al-Haq e altre
cinque ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche. Le implicazioni di
questo atto sono devastanti…
Raja
Shehadeh è
uno dei fondatori del gruppo per i diritti umani Al-Haq, affiliato alla
Commissione Internazionale dei Giuristi. Il suo ultimo libro, Going
Home: A Walk Through Fifty Years of Occupation, è stato pubblicato nel 2019;
il suo prossimo, We Could Have been Friends, My Father and I, è
previsto per il 2022.
Why
Israel Calls Human Rights ‘Terrorism’
Traduzione
di Donato Cioli – AssoPacePalestina
UNA GIURISTA
INTERNAZIONALE, FRANCESCA ALBANESE PARLA DELLA MESSA AL BANDO DELLE 6 ONG
PALESTINESI
… Per
comprendere meglio le ragioni alla base della decisione di Israele, nonché
l’impatto che potrebbe avere sul lavoro delle ONG palestinesi, ho parlato con
Francesca Albanese, avvocato e ricercatrice internazionale, e autrice di
numerose pubblicazioni sulla questione dei rifugiati palestinesi, incluso
” Rifugiati
palestinesi nel diritto internazionale “, scritto insieme a Lex
Takkenberg.
Potrebbe
spiegarci come questa mossa costituisca uno “sfrontato attacco ai diritti
umani”? È una decisione legittima ai sensi del diritto internazionale?
Negli ultimi
30-40 anni, le organizzazioni prese di mira hanno lavorato per sostenere e
proteggere i palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Vale la pena
ricordare che questa è la più lunga occupazione militare dei tempi moderni,
che, secondo l’autorevole analisi del professor Micheal Lynk, Relatore Speciale
delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati (oPt), ha da tempo
varcato la soglia della legalità.
Infatti,
secondo il diritto internazionale, l’occupazione è giustificata solo per scopi
strettamente militari, e dovrebbe essere temporanea, condotta in buona fede e
nel migliore interesse della popolazione occupata, e non trasformarsi mai in
un’acquisizione di controllo o sovranità sulla terra occupata. o sulle
persone. Inoltre, la potenza occupante non ha il diritto di insediare la
sua popolazione civile in territorio occupato, o di annetterne una parte, e il
territorio che Israele ha occupato nel 1967 deve essere restituito nella sua
interezza al sovrano – il popolo sotto occupazione – appena
possibile. Questo non è chiaramente il caso dei Territori Palestinesi
Occupati, dove Israele per 54 anni ha sospeso l’ordine civile nel perseguimento
di stabilire il dominio ebraico sui palestinesi, e dove Israele non ha
chiaramente intenzione di rinunciare al suo controllo suIl
60% dei terreni della Cisgiordania che
di fatto controlla e per molti aspetti considerati (sebbene illegittimamente)
‘annessi’.
In questo
contesto, le suddette organizzazioni sono l’ultimo baluardo di protezione delle
persone sotto occupazione, data la spregevole inerzia della comunità
internazionale che resta responsabile di incoraggiare Israele e quindi di far
andare avanti la situazione in Palestina.
Questa non è
la prima volta che gruppi per i diritti umani palestinesi e israeliani vengono
attaccati dal governo israeliano. Mentre le restrizioni alle ONG
israeliane, in particolare quelle che combattono contro l’occupazione israeliana
della Palestina, sono abbastanza recenti, nel corso degli anni, i gruppi per i
diritti dei palestinesi sono stati sottoposti a pressioni, violenze,
restrizioni di movimento, raid negli uffici e arresti. Perché Israele è
così spaventato dai gruppi per i diritti umani, al punto che intende metterli a
tacere del tutto?
Perché
espongono la brutalità dell’occupazione, la precarietà delle condizioni di vita
e il godimento dei diritti fondamentali sotto l’occupazione, a causa delle
pratiche israeliane ma anche della condotta dell’Autorità
palestinese. Israele li teme perché sono ciò che ha permesso al mondo di
sapere (anche se la conoscenza non si è ancora tradotta in azioni di principio)
ciò che Israele sta facendo, con il pretesto di “mantenere la sicurezza”.
In effetti,
sono pienamente d’accordo sul fatto che il terrorismo sia in corso negli oPt,
come ha denunciato Amira Hass nel suo ultimo pezzo :
dove civili indifesi sono esposti alla paura e alla brutalità dei soldati
israeliani mascherati che fanno irruzione nelle case e nei villaggi
palestinesi, spesso nel cuore della notte; dove c’è una totale mancanza di
responsabilità per la frequente perdita di vite civili, demolizioni
ingiustificate di case palestinesi; confisca di strutture civili e mezzi
di sussistenza, anche a pastori e contadini; l’incendio di frutteti e
ulivi secolari; le innumerevoli umiliazioni quotidiane a cui sono esposti
i palestinesi sotto il giogo dell’occupazione. A questo proposito,
concordo sul fatto che le pratiche assimilabili al terrorismo nei territori
occupati debbano essere indagate e i responsabili perseguiti…
Il tentativo
di criminalizzare la società civile palestinese - Yara Hawari
Il 22
ottobre, il Ministero della Difesa israeliano ha emanato un’ordinanza militare
con la quale sei ONG palestinesi vengono definite “organizzazioni
terroristiche”. Le sei organizzazioni colpite sono: Addameer Prisoner Support
and Human Rights Association, Al-Haq, Bisan Center for Research and
Development, Defense for Children Internationa-Palestine (DCI-P), Union of
Agricultural Work Committees (UAWC) e Union of Palestinian Women’s Committees
(UPWC).
Il
ministero, appellandosi alla legge anti-terrorismo, accusa queste
organizzazioni di essere affiliate del Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina (PFLP), partito politico marxista-leninista.
Più nello specifico, l’accusa è di costituire una “rete di organizzazioni
operanti sotto copertura sul fronte internazionale” per conto del PFLP. Il
regime israeliano non ha ancora fornito alcuna prova a sostegno delle accuse,
ma per i palestinesi è chiaro che si tratta del più recente tentativo di
criminalizzare la società civile palestinese.
Queste
specifiche organizzazioni sono conosciute a livello internazionale per la loro
indispensabile attività in campo sociale e dei diritti umani. Addameer,
per esempio, fornisce un’importantissima assistenza sociale e legale ai
prigionieri politici palestinesi ed alle loro famiglie. Al-Haq,
altra organizzazione, da decenni si dedica a documentare le violazioni dei
diritti umani da parte del regime israeliano, raccogliendo dati preziosi e
vincendo numerosi premi internazionali. La Union of Agricultural Work
Committees sostiene gli agricoltori palestinesi di fronte
all’incessante occupazione ed alla sottrazione delle terre da parte del regime
israeliano.
Questo
attacco contro le organizzazioni palestinesi non arriva di punto in bianco. È
l’escalation più recente della campagna sistematica di Israele, che dura da
anni, per soffocare la società civile palestinese.
Dopo la
creazione dell’Autorità Palestinese con gli Accordi di Oslo negli anni ‘90, la
società civile palestinese ha assunto il ruolo principale nel denunciare e
contestare i crimini del regime israeliano. Così, le organizzazioni civili sono
emerse in prima linea nella lotta palestinese, il che le pone nel mirino di
Israele.
Ultimamente,
nell’ultimo decennio, ci sono state azioni congiunte, messe in atto da diversi
gruppi non governativi che lavorano insieme al Ministero israeliano per gli
affari strategici, volte a colpire e diffamare le ONG palestinesi attive nel
campo dei diritti umani.
La
definizione “terrorista” criminalizza effettivamente il lavoro delle sei ONG e
permette al regime israeliano di chiudere uffici, sequestrare beni, arrestare
membri dello staff ed addirittura di vietare le raccolte fondi o le
manifestazioni pubbliche a sostegno di queste attività. Potrebbe anche indurre,
nei soggetti esterni e nei partners stranieri, una certa preoccupazione per il
coinvolgimento con tali organizzazioni e le loro attività…
Traduzione
dall’inglese: Elena Bellini
La finanza
coloniale - Eliana Riva
UniCredit, ING, Santander, Deutsche Bank, Allianz, BNP Paribas sono solo alcune delle 672 istituzioni finanziarie che hanno rapporti economici con 50 aziende attivamente coinvolte nelle attività delle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.
Le colonie
costruite da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, lo sviluppo
ininterrotto degli insediamenti e gli incentivi politici ed economici previsti
per facilitare lo spostamento della popolazione israeliana nei
Territori Palestinesi Occupati, rappresentano una violazione
della Convenzione di Ginevra. Molte risoluzioni e pareri rilasciati
dalla Corte Internazionale di giustizia hanno affermato e
riaffermato, in
tempi più recenti, l’illegalità degli insediamenti Israeliani nei
territori occupati nel 1967. Alla potenza occupante è proibito dalla legge
internazionale spostare la popolazione da e verso i territori
che occupa, confiscare terra, costruire, deportare e impedire
la circolazione. Tutte attività, queste, che Israele esercita regolarmente
e quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme est. E nonostante ciò, sono
molte le aziende, specie quelle europee, che hanno regolari rapporti
commerciali con le colonie illegali. I nomi di alcune di queste a febbraio
dello scorso anno sono state inserite nella lista
“nera” dell’ONU: i loro rapporti finanziari con gli insediamenti
illegali riguardano, includono e facilitano le violazioni dei diritti
umani. Tra le altre, Airbnb, TripAdvisor, Cisco System, Expedia Group,
Motorola Solutions, Siemens, Volvo Group.
Si parla
di fornitura di materiale di costruzione per l’espansione
delle colonie, di attrezzature utilizzate per la demolizione delle
abitazioni palestinesi, di partecipazione alle pratiche di
restrizione della libera circolazione e di interventi che non
permettono le attività economiche dei palestinesi nei Territori Occupati. Ma
anche di vendita di sistemi di sicurezza e di controllo utilizzati per
impedirgli gli spostamenti…
Nelle due
settimane di ottobre, i coloni israeliani hanno distrutto 1600 ulivi in
Cisgiordania
Articolo
originariamente pubblicato da Wafa e tradotto in
italiano da Bocche Scucite
Secondo
l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari
(OCHA) nei Territori Palestinesi Occupati, in due settimane i coloni israeliani
hanno distrutto o rubato il raccolto da oltre 1.600 alberi, soprattutto di
ulivo.
Nel suo
rapporto bisettimanale sulla protezione dei civili che copre il periodo tra il
5 e il 18 ottobre, OCHA ha riportato che dall’inizio della raccolta annuale
delle olive, il 12 ottobre, più di 1.400 alberi, soprattutto ulivi, sono stati
vandalizzati o il loro raccolto è stato rubato nei villaggi intorno a Nablus,
Hebron, Salfit e Ramallah, come indicato da agricoltori palestinesi, testimoni
oculari e proprietari di terreni, in alcuni casi supportati da rapporti del
ministero dell’Agricoltura. Molti di questi alberi sono stati piantati su
terreni di proprietà palestinese vicino agli insediamenti. I restanti 200
alberi danneggiati sono stati segnalati dai loro proprietari, poco prima
dell’inizio della stagione.
Quattro
palestinesi sono stati anche feriti quando sono stati presi a sassate dai
coloni israeliani che hanno fatto irruzione nel villaggio di Burin, vicino a
Nablus, e hanno causato danni a case e alberi. Una donna è stata attaccata con
lo spray al peperoncino da alcuni coloni, i quali hanno anche preso a sassate
altri palestinesi che raccoglievano olive nel villaggio di Yasuf, sempre vicino
a Nablus.
I coloni
hanno anche distrutto diverse auto a Marda, nel distretto di Salfit, e a Beit
Iksa e nel quartiere di Silwan, entrambi nella zona di Gerusalemme.
Durante lo
stesso periodo di riferimento, OCHA ha riportato che le forze di occupazione
israeliane hanno ucciso un ragazzo palestinese di 14 anni e ne hanno ferito e
arrestato un altro. L’incidente è avvenuto il 14 ottobre, vicino al checkpoint
Tunnels, che controlla l’accesso dalla Cisgiordania meridionale alla zona di
Gerusalemme.
Complessivamente,
durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno ferito 159
palestinesi in tutta la Cisgiordania. La maggior parte, 115, sono stati feriti
durante le regolari proteste contro le attività di insediamento vicino a Beita
(90) e Beit Dajan (25) nell’area di Nablus…
Ai
palestinesi viene impedito anche di raccogliere le loro olive - Amira Hass
Mohammed al
Khatib, del villaggio palestinese di Bilin, sfrutta ogni occasione utile per
parlare ai soldati, in ebraico. Anche dopo che lo hanno picchiato, fatto
stendere a terra e arrestato, anche dopo che uno dei soldati gli ha piantato
imperiosamente un piede nella schiena, com’è successo l’11 ottobre vicino alla
cittadina di Salfit, in Cisgiordania.
“Mi piace
parlare ai soldati giovani, spiegargli l’occupazione”, dice Khatib. “‘Cosa
intendi per occupazione?’, mi chiedono. ‘Voi palestinesi potete fare tutto
quello che volete’. E io gli spiego: ‘E se vi dicessi che un palestinese non
può costruire sulla sua terra? Cercate su internet. Non ascoltate solo i vostri
superiori’”. Khatib ha parlato con Haaretz due giorni dopo essere stato
detenuto per un periodo molto più breve del solito nelle circostanze che sto
per raccontarvi.
Rivivere la
tradizione
Khatib ha dimenticato quante volte è stato arrestato perché partecipa ai
comitati popolari che si battono contro la barriera di separazione. La ragione
dell’arresto questa volta è stata la raccolta delle olive. In questi giorni
gruppi di volontari vanno in giro per la Cisgiordania a dare una mano,
soprattutto nelle aree più soggette alle violenze
degli israeliani che vivono nei vicini insediamenti illegali.
Dal 3
ottobre, primo giorno della raccolta, fino al 16 ottobre i cittadini israeliani
in Cisgiordania hanno compiuto diciotto azioni di sabotaggio, aggredendo
fisicamente gli agricoltori, tagliando e spezzando gli ulivi, o rubando il
raccolto.
Tra i gruppi
di volontari ce n’è uno, Faza – di cui Khatib è stato uno dei fondatori –
intenzionato a far rivivere la tradizione di volontariato e di mutuo aiuto che
caratterizzava la società palestinese negli anni settanta e ottanta.
Se non sono
i coloni a ostacolare
la raccolta, ci pensano i soldati. È successo l’11 ottobre in un oliveto di
Al Ras, vicino a Salfit, a nord dell’insediamento di Ariel. Appena un anno fa
in quell’area è sorto l’avamposto
illegale di Nof Avi. Da allora i proprietari palestinesi dell’oliveto
possono guardare il loro appezzamento solo da lontano. Ora che le olive sono
mature, gli agricoltori hanno invitato i volontari a unirsi a loro, nella
convinzione che un maggior numero di persone possa scoraggiare le violenze
israeliane e permettere di terminare più rapidamente il raccolto, prima che le
olive vengano rubate.
Quando i
volontari sono arrivati intorno alle 8.30 del mattino si sono stupiti di
trovare “un numero incredibile di soldati”, ha raccontato ad Haaretz
l’attivista israeliano Gil Hammerschlag. I soldati avevano teso un nastro tra
alcuni pali piantati nel terreno e avevano appeso degli avvisi, in inglese e in
arabo, con cui si dichiarava l’area “zona militare chiusa”. Secondo gli
attivisti presenti sul posto, i soldati non hanno mostrato alcun ordine firmato
(come hanno fatto il giorno dopo in tribunale). A ogni modo gli attivisti hanno
avuto premura di restare al di fuori dell’area segnata, decidendo di raggiungere
a piedi l’oliveto da un’altra strada, anche questa sbarrata dai soldati.
Khatib
spiega che non si aspettava che l’area sarebbe stata chiusa. “È vero che sulla
cima della collina c’è un colono che ne ha preso possesso. Ma noi stavamo
andando a proteggere qualcosa di legale, come la raccolta delle olive, da
qualcosa di illegale, come la violenza dei coloni. Se l’esercito era davvero
preoccupato della sicurezza del colono, perché non ha messo dei soldati intorno
alle costruzioni illegali dell’insediamento? Perché impedire la raccolta delle
olive? Tutto dipende da cosa aveva deciso il comandante”.
“Il giorno
prima”, continua Khatib, “avevamo raccolto le olive a Beita. Per farlo siamo
passati dall’insediamento di Evyatar. L’esercito non ci ha dato noie e non ci
sono stati problemi. In altre parole, a decidere come andranno le cose è il
comandante militare. Noi andiamo a raccogliere le olive: non ci interessa
creare tensioni. Non vogliamo provocare nessuno, ma ci rifiutiamo di avvisare
l’esercito se vogliamo entrare in un oliveto privato solo perché un colono ha
preso possesso di un terreno di proprietà palestinese. A causa di
quell’avamposto la terra di quell’oliveto non è stata arata per un anno intero.
È piena di rovi”…
(Traduzione
di Francesco De Lellis)
Questo
articolo è stato pubblicato da Haaretz.
L'acqua come
arma di guerra: gli attivisti affermano che Israele sta prosciugando la
Cisgiordania per cacciare i palestinesi - Jessica Buxbaum
Masafer
Yatta, Cisgiordania occupata - Lo scorso fine settimana, circa 600
attivisti israeliani, palestinesi e internazionali hanno marciato attraverso
Masafer Yatta nella Cisgiordania occupata per consegnare una cisterna d'acqua
agli abitanti dei villaggi palestinesi. Il loro messaggio era chiaro: l'acqua è
un diritto umano e Israele sta privando la Palestina di questa necessità
fondamentale.
In mezzo a
un mare di bandiere palestinesi al vento, i manifestanti hanno camminato
accanto a un trattore che trasportava la cisterna dell'acqua dal villaggio di
At-Tuwani. I manifestanti non hanno raggiunto la destinazione prevista, sono
invece tornati al villaggio di Mfakara per evitare uno scontro con l'esercito
israeliano che li aspettava in cima a una collina vicina.
“L'acqua è
un diritto di tutti. Non importa se sei nero o bianco o ebreo o arabo", ha
detto a MintPress News Adam Rabee, un attivista di Combatants for Peace (CFP),
uno degli organizzatori della marcia.
Lunedì, la
CFP, insieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, ha presentato un
appello urgente agli organismi internazionali, chiedendo loro di "fare
pressione su Israele per consentire l'accesso all'acqua ai palestinesi che
vivono nell'Area C", l'area occupata della Cisgiordania che include Masafer
Yatta.
La CFP ha
avviato la campagna per l'accessibilità all'acqua per la Palestina ad agosto. A
settembre ha guidato una visita sul campo a Masafer Yatta per 20 diplomatici
dell'Unione europea, del Regno Unito, del Canada, del Brasile, del Messico e della
Svizzera. Durante il giro, la CFP ha sensibilizzato sulla crisi idrica della
Palestina e ha esortato i rappresentanti a impegnarsi in un dialogo con Israele
per fornire ai palestinesi pieno accesso all'acqua.
"[I
diplomatici] hanno visto famiglie e bambini senza acqua", ha detto Rabee
riguardo alla visita. "La mia sensazione è che vogliano aiutare e noi
abbiamo supporto".
Soldati che
aiutano i coloni durante gli attacchi per l’acqua
La protesta
di sabato è stata calma e senza scontri, ma l'evento è stato segnato da
precedenti violenze.
Martedì di
quella settimana, almeno 60 coloni israeliani mascherati hanno fatto irruzione
a Mfakara, lanciando pietre, ribaltando automobili, tagliando tubi dell'acqua e
sgozzando pecore. Cinque bambini sono rimasti feriti durante l'attacco, tra cui
un bambino di quattro anni che è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato
colpito alla testa con pietre. I soldati israeliani hanno osservato da bordo
campo – durante quello che gli attivisti stanno descrivendo come un “pogrom” –
e sono intervenuti solo per sparare gas lacrimogeni, granate stordenti e
proiettili d'acciaio rivestiti di gomma contro i palestinesi.
All'inizio
di settembre, una protesta della CFP per fornire acqua alle comunità
palestinesi è stata respinta con violenza da parte dei soldati israeliani. Sei
israeliani e due palestinesi sono rimasti feriti, incluso Rabee, che è stato
colpito allo stomaco con una bomboletta di gas lacrimogeno.
I
manifestanti hanno mostrato immagini ingrandite delle recenti violenze durante
la marcia dello scorso fine settimana. A Mfakara il terreno era cosparso di
schegge di vetro. Molte delle auto degli abitanti del villaggio sono state
ammaccate e i parabrezza sono andati in frantumi.
Noma
Hamamdah, un pastore palestinese che vive a Mfakara, ha raccolto un lacrimogeno
da terra fuori dalla sua casa. Ha detto che questo era uno dei 20 lanciati
martedì dall'esercito contro la comunità. Ha sollevato la gamba dei pantaloni
per rivelare dove è stato colpito da un proiettile di gomma. Sua nuora, Sabreen
Hamamdah, ha detto che l'esercito ha sparato gas lacrimogeni nelle loro case e
che i coloni hanno tagliato le gomme della loro cisterna d'acqua durante il
raid.
“Da martedì
scorso non abbiamo ricevuto acqua fino ad oggi”, ha detto Noma, riferendosi
alla consegna della nuova cisterna da parte degli attivisti. "L'esercito
aiuta i coloni ed è grazie all'esercito che i coloni hanno la capacità di
attaccarci e distruggere i nostri serbatoi d'acqua". Otto finestre nella
casa della famiglia sono state rotte, ha detto Noma. Ha indicato un foro di
proiettile nel muro della sua casa dove i soldati israeliani hanno sparato nel
tentativo di disperdere i coloni. "Ci è stato detto che [il presidente
Joe] Biden è un uomo di pace e ama la pace, ma non gli abbiamo mai sentito
menzionare i palestinesi nemmeno una volta", ha continuato Noma. "E
se l'insediamento illegale di Havat Maon ci lascia in pace, allora ci sarà la
pace in quest'area".
Havat Maon è
un avamposto di insediamento illegale, notoriamente violento, adiacente ai
villaggi palestinesi di Masafer Yatta. Tutti gli insediamenti israeliani sono
illegali secondo il diritto internazionale ma legali secondo il diritto
israeliano. Gli avamposti, costruiti senza l'autorità israeliana, sono definiti
illegali sia dal diritto internazionale che da quello israeliano…
Jessica
Buxbaum è una giornalista con sede a Gerusalemme per MintPress News che copre
Palestina, Israele e Siria. Il suo lavoro è apparso su Middle East Eye,
The New Arab e Gulf News.
Traduzione a
cura di Associazione di Amicizia Italo-Palestinese
Soldati
israeliani picchiano e arrestano un attivista palestinese durante la raccolta
delle olive - Oren Ziv
Mohammed
Khatib è stato brutalmente arrestato assieme a due israeliani di sinistra
mentre cercava di proteggere i contadini palestinesi dalla violenza dei coloni
e dell’esercito.
Soldati
israeliani hanno arrestato brutalmente un importante attivista palestinese e
due israeliani di sinistra durante l’annuale raccolta delle olive nella
Cisgiordania occupata. L’arresto è avvenuto nella regione di Salfit, vicino
all’avamposto illegale di Havat Nof Avi, eretto dai coloni lo scorso anno su un
terreno appartenente ai palestinesi abitanti nell’area.
Un soldato è
stato fotografato mentre prendeva a pugni e poi calpestava, dopo il suo
arresto, Mohammed Khatib, attivista del Comitato di coordinamento della lotta
popolare che aiuta a organizzare la resistenza non violenta all’occupazione e
all’insediamento di Israele.
“Siamo arrivati
intorno alle 10 e abbiamo trovato molti soldati nella zona”, ha detto Abdullah
Abu Rahmeh, un altro importante attivista palestinese del Comitato. “Hanno
transennato l’area e l’hanno dichiarata zona militare chiusa”.
Diversi
agricoltori palestinesi hanno cercato di ragionare con gli ufficiali e i
rappresentanti dell’amministrazione civile – il ramo dell’esercito israeliano
che governa la vita quotidiana di milioni di palestinesi sotto occupazione –
per cercare di accedere alla loro terra, ha detto Abu Rahmeh. Mezz’ora dopo,
quando né gli agenti né l’Amministrazione Civile si sono spostati, i contadini
si sono incamminati lungo il tratto transennato per cercare di raggiungere i
loro ulivi mediante un altro percorso.
“I soldati
ci hanno seguito e ci hanno attaccato con i loro fucili”, ha ricordato Abu
Rahmeh. “Portavamo gli attrezzi per il raccolto. Non stavamo protestando, ma ci
offrivamo volontari per aiutare i contadini. Tuttavia, i soldati non ci hanno
permesso di raccogliere”.
I volontari
sono arrivati nel quadro dell’iniziativa Faz3a, che significa “sostegno” in
arabo. Tale progetto è stato varato l’anno scorso. L’organizzazione assiste gli
agricoltori palestinesi durante la raccolta delle olive per difenderli dalla
violenza dei coloni e dei militari. “È una campagna annuale”, ha detto Abu
Rahmeh. “In questa zona i contadini non hanno abbastanza tempo per completare
il raccolto, quindi portiamo delle persone per aiutare. Cerchiamo di sostenerli
e proteggerli dagli attacchi dei coloni”…
(traduzione
dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)
Intervista
di Shany Littman ad Avi Mograbi
Il più
recente documentario del noto regista israeliano Avi Mograbi si basa sulle
denunce dei soldati per smascherare l’occupazione israeliana. Non aspettatevi
di vederlo alla tv israeliana o a qualche festival cinematografico locale
Il nuovo
film di Avi Mograbi: “The First 54 Years – An Abbreviated Manual for
Military Occupation,” [I primi 54 anni – un breve manuale per
un’occupazione militare] non è stato fra le proposte di nessun festival
cinematografico in Israele di quest’anno e, fino ad ora, neanche un canale televisivo
israeliano si è offerto di trasmetterlo. Questa volta neppure le fondazioni
senza fini di lucro che di solito sostengono i documentari vogliono essere
coinvolte, anche se Mograbi è un regista da tempo molto apprezzato e i cui film
precedenti hanno avuto un gran successo e sono stati presentati a decine di
festival in tutto il mondo.
Il suo film
ha comunque cominciato a fare il giro dei festival cinematografici
internazionali e si è guadagnato una menzione d’onore al festival di Berlino.
Ma il regista non è stato per niente sorpreso dalla sfilza di rifiuti ricevuti
in Israele.
“O è un
brutto film o tratta di qualcosa con cui la gente non vuole fare i conti.
Eppure all’estero è un enorme successo,” commenta.
Le sono
state date delle spiegazioni per i rifiuti in Israele?
“No. Ma non
sono neanche uno di quelli che vanno a indagare. Sapevo che questo film avrebbe
creato dei problemi.”
Un motivo,
ipotizza, è che è basato sulle testimonianze dei soldati raccolte da Breaking
the Silence, l’organizzazione israeliana contro l’occupazione
fondata da veterani dell’esercito. Il gruppo raccoglie testimonianze di
presunti abusi da parte dell’esercito nei territori occupati e su situazioni
problematiche in cui i soldati si sono trovati durante il loro servizio
militare.
“Breaking
the Silence non è, per usare un eufemismo, fra le organizzazioni più
popolari in Israele,” aggiunge Mograbi. “Ho anche la sensazione che il personaggio
che io interpreto nel film faccia arrabbiare persino quelli di sinistra, per il
cinismo [del personaggio], a causa del fatto che alla sua radice c’è il male.
Perché persino quando facciamo delle cose orribili, non vogliamo pensare che
agiamo mossi dal male. Ma a questo personaggio tutto ciò non importa. Gli
importa solo raggiungere gli scopi che si è prefissato.”
Mograbi
interpreta un esperto o un oratore che spiega come attuare un’occupazione
militare nel modo più efficiente. L’esperto organizza il film
intorno allo sviluppo cronologico dell’occupazione nei territori, sostenendola
con parecchi importanti criteri. Intrecciate con le testimonianze degli ex
soldati, le spiegazioni machiavelliche dell’esperto rivelano come il processo
sia metodico e agghiacciante. Il risultato è un film deliberatamente
pedagogico, praticamente didattico. “Se vuoi la tua occupazione, ti aiuterò a
evitare alcune delle parti più seccanti,” scherza Mograbi.
Praticamente
sorvoli sulle cose poco chiare e presenti l’occupazione quasi come una formula
matematica, rivelando che non c’è niente di casuale.
“Quando
guardi al risultato, capisci che non poteva semplicemente essere capitato così
per caso. Qualcuno da qualche parte deve essersi seduto a tavolino e averlo
studiato. Non sto dicendo che questo manuale esista in una cassaforte alla
sezione operativa del Ministero della Difesa, ma esiste nelle menti di
parecchie persone che l’hanno creata,” afferma.
“A noi piace
dare la colpa ai coloni, ma nella valle del Giordano hanno cominciato a
costruire una fila di colonie subito dopo la guerra dei Sei Giorni. Quella
linea secondo i leader ha delimitato il confine. E per tutti questi anni ci
hanno venduto la storia che gli insediamenti civili lungo il Giordano stavano
là come difesa. Ma per difendersi lungo il canale di Suez hanno costruito la
linea Bar-Lev,” dice, facendo riferimento alle fortificazioni militari, “non si
sono affidati a un manipolo di civili con trattori. E, come dice l’oratore nel
film, la presenza dei civili trasmette un messaggio in termini di proprietà
della terra.”
Il regista
afferma che l’occupazione deve essere vista come parte di una sequenza di
eventi che comporta la confisca della proprietà della terra e che risale alla
guerra di Indipendenza israeliana del 1948.
“Il lavoro
non era stato completato nel ’48 perché la terra non fu sgombrata dagli arabi.
Nella guerra del 1967, furono 250.000 le persone che fuggirono e a cui fu
impedito di ritornare. Le azioni si sono sempre concluse sottraendo le terre e
rendendo la vita difficile a quelli che vi erano rimasti in modo tale da
incoraggiarli ad andarsene. Quando arriva qualcuno dall’estero a trovarmi lo
porto ad Abu Dis che una volta era il cuore di un quartiere animato e che ora è
attraversato dalle barriere di sicurezza,” dice, riferendosi alla cittadina
della Cisgiordania alla periferia di Gerusalemme.
“Per
percorrere la stessa strada da un lato all’altro [della barriera] ci vogliono
40 minuti in auto, senza contare le attese ai checkpoint. Immagina se per
venire a casa mia nel centro di Tel Aviv dovessi fare una deviazione passando
da Holon quando casa tua dista appena un chilometro da qui. Se cerchi di
immaginare di dover vivere così non è difficile vedervi il male.”
Quindi chi
sono i cattivi? Chi è responsabile? Di chi è la colpa?
“Non si
tratta di una persona. Tutti i governi israeliani ne sono responsabili.
Affinché Israele sia uno Stato ebraico, deve avere una maggioranza ebraica. E
questa maggioranza non deve essere data per scontata. Quindi tale maggioranza
deve essere rilevante e considerevole. Perché non si dà la cittadinanza agli
abitanti dei territori? Perché non è dato loro un documento di identità
israeliano e la possibilità di partecipare alla vita politica come cittadini a
tutti gli effetti? Perché poi ci sarebbe il problema che non saremmo più la
maggioranza e questo Paese smetterebbe di esistere come Stato ebraico.”
Quindi,
secondo lei, quale sarebbe la soluzione?
“Io non
penso che i palestinesi mi stiano minacciando. Non è possibile che non si
riesca a vivere insieme. Credo che la natura umana sia intrinsecamente buona,
non intrinsecamente malvagia. L’idea che per vivere vicino ad altri si debba
sottometterli al tuo potere secondo me non ha senso. E sono convinto che
proprio com’è possibile avere eccellenti relazioni con i palestinesi a livello
individuale, senza arrivare a picchiarsi, è anche possibile farlo a livello
nazionale. Ma devi volerlo veramente, soprattutto quando ti trovi nel tipo di
pasticcio in cui siamo. Io non vedo un briciolo di speranza che un giorno
Israele non voglia più essere una potenza occupante e voglia concedere la
cittadinanza a tutti i palestinesi dei territori occupati. Quindi potrebbe
essere che questo finirà semplicemente in un folle bagno di sangue. Il futuro
non sembra essere promettente.”
Sinistrismo
come ribellione giovanile
Mograbi, 65
anni, è nato a Tel Aviv. Suo padre, Gabi, che veniva da una famiglia facoltosa
arrivata dalla Siria, costruì il famoso Cinema Tel Aviv all’angolo di
Ben-Yehuda e Allenby, più per un acuto senso degli affari che per un
particolare amore per i film.
“Negli anni
‘20 la famiglia stava costruendo un edificio al numero 72 di Herzl Street e mio
zio Ya’akov, che stava supervisionando il progetto, un giorno notò che i
muratori non pranzavano. Chiese il perché e gli dissero che stavano
risparmiando per andare al cinema. Se gli operai saltavano i pasti per andare
al cinema, doveva essere un buon affare, si disse. Così comprò il terreno e
costruì il cinema.”
Mograbi dice
che suo padre non era un cinefilo, ma che, senza volerlo, ha dato al figlio una
cultura cinematografica molto ampia.
“Aveva una
qualità molto importante per un proprietario di cinema. Sentiva quali film
sarebbero andati bene e quali non avrebbero avuto successo. Avevamo una
relazione interessante. Lui guardava film in formato 35 mm in una piccola sala
da proiezioni in Ahad Ha’am Street, prima che le copie venissero sottoposte
alla censura e io mi sedevo a guardarle con lui. Ho visto cose che non avrei
dovuto vedere, dato che ero un bambino,” ricorda Mograbi. “Ho lavorato nel
cinema fin da ragazzo. Ma fra di noi c’era anche una grande tensione.”
Dice che suo
padre si è sempre opposto ai suoi progetti di studiare cinematografia. “Quando
avevo 18 anni stavo al botteghino quando proiettavamo Big Eyes di
Uri Zohar, che era seduto dietro di me e poteva contare sulle dita di una mano
i biglietti che avevo venduto. Mio padre entrò nel botteghino e mi disse,
proprio davanti a lui: ‘È questo quello che vuoi diventare?’”
Invece di
fare la scuola di cinema, Mograbi ha studiato filosofia all’università di Tel
Aviv e arte presso la scuola d’arte di Hamidrasha che allora era a Ramat
Hasharon. Ha cominciato a girare solo dopo la morte del padre, quando aveva 33
anni.
Fino ad ora
tutti i suoi film sono stati imperniati su temi politici, a iniziare dal suo
primo corto, “Deportation,” includendo il suo primo e ben noto film, “How I
Learned to Overcome My Fear and Love Arik Sharon.” [Come ho fatto a superare le
mie paure e amare Arik Sharon]. Sono stati seguiti da “Happy Birthday, Mr.
Mograbi”, “Avenge But One of My Two Eyes” [Per uno solo dei miei due occhi],
“August: A Moment Before the Eruption, [Agosto: un momento prima
dell’eruzione]” “Z32” e il suo ultimo, “The First 54 Years” [I primi 54 anni].
Mograbi dice che pensava che i film potessero cambiare la realtà. Adesso non ci
crede più, ma continua a farli su situazioni che sembrano cause perse, come
l’occupazione.
“Ho sempre
pensato che se solo la gente avesse saputo quello che stava succedendo non
avrebbe continuato a farlo e la realtà sarebbe cambiata. Ogni volta ero deluso
che i miei film non riuscissero a fare il salto dalle pagine culturali al
dibattito politico e sociale. All’estero, nel resto del mondo, avevo una
fantastica carriera ed ero ammirato come regista e là, qualche volta, i miei
film riuscivano persino a uscire dagli inserti culturali. Ma non qui,” osserva.
“Nessuno dei
miei film ci è riuscito, neppure ‘Per uno solo dei miei due occhi’ che pensavo
avrebbe suscitato rabbia nei miei confronti perché alla fine del film urlo
contro i soldati e non mi rivolgo a loro in modo gentile. Dopo quel film ho
veramente provato un momento di disperazione, in cui mi sono chiesto se
continuare a fare film.”
Il suo
penultimo, “Between Fences” [Fra le recinzioni], che ha girato con il regista
teatrale Chen Alon e che nessuna rete televisiva israeliana ha voluto
trasmettere, è un documentario su un laboratorio teatrale per richiedenti asilo
eritrei e sudanesi del centro di detenzione di Holot, basato sul metodo del
“Teatro dell’oppresso” sviluppato dall’artista brasiliano Augusto Boal negli
anni ’60 durante la dittatura militare in Brasile.
“Il metodo
stabilisce che si tratti di una produzione teatrale da parte di appartenenti a
un gruppo emarginato che scrive una pièce basata sulla propria esperienza e la
rappresenta davanti a un pubblico che assiste a una performance composta da due
parti. La prima è l’opera teatrale in sé e nella seconda parte si scelgono
volontari fra il pubblico che entrano nei panni del personaggio che sta
soffrendo, recitano in una delle scene e suggeriscono una soluzione alternativa
al dilemma che è stato presentato,” spiega Mograbi.
“Boal diceva
che questo tipo di teatro è essenzialmente una preparazione per una
rivoluzione, non nel senso di imparare a fare bombe molotov e sparare, ma come
tentativo di coinvolgere il pubblico, incitarlo all’azione, all’attivismo. Con
il cinema non è possibile farlo, ma io vedo i miei film come un innesco, un
tipo di sostegno o di servizio al cliente per quella brava gente di sinistra
che non è contenta della realtà in cui sta vivendo.”
Mograbi è
ben consapevole che questi film non convinceranno quelli che in partenza non lo
sono già.
“Le persone che
vengono a vederli non appartengono mai all’opposizione. Quelli di destra non
vanno a vedere i film di sinistra, non ne hanno bisogno per litigare con quelli
di sinistra. Sostanzialmente il pubblico che viene a vedere il film è il coro,
sono quelli che sono già stati convertiti. Ciononostante penso ancora che i
film abbiano un ruolo da giocare nel rafforzare e offrire del materiale ai
convertiti,” sottolinea. “La sinistra è in calo in tutto il mondo. Non è
qualcosa che succede solo in Israele. Quindi io non ho più idee ingenue su come
cambiare la realtà,” dice, prima di aggiungere velocemente: “Per la verità le
ho ancora, ma solo nei miei sogni. A ogni film comincio pensando che questa
volta lo spettatore morirà dalla voglia di agire, che non c’è altra soluzione e
che è impossibile che non faranno niente dopo quello che hanno visto.”
Quindi ogni
volta ti sottometti a un processo in cui menti a te stesso.
“Non so
farne a meno. La realtà che vedo mi addolora e mi sconvolge. Io non posso
rimanere in silenzio e non esprimermi. Non penso che nessuno a cui importi
veramente possa farlo. Ma sì, ogni volta che comincio a girare provo la stessa
cosa: questa volta ci riuscirò. Questa volta succederà. Solo per scoprire ogni
volta che la sua portata è molto più ridotta.”
“Capisco che
le mie possibilità di avere un impatto fuori dalla mia comunità siano minime.
D’altro canto non penso che 10 anni prima della fine dell’apartheid ci fossero
persone che dicevano: fra 10 anni non esisterà più. Così guardo alla realtà e
cerco quel barlume di speranza che fra 10 anni l’occupazione non esisterà più.
Non puoi chiamarmi un ottimista, ma uno deve avere il tipo di energia che hanno
gli ottimisti che non riescono a rinunciare o a smettere di desiderare e
sperare che le cose cambino,” dice Mograbi.
Perché pensa
che i suoi film trovino un’accoglienza migliore all’estero?
“Altrove è
più facile perché non li riguarda direttamente. Sono appena stato in Francia
per delle proiezioni del film [The First 54 Years], e c’era della brava
gente di sinistra seduta in sala e hanno chiesto: ‘Come possono gli ebrei fare
cose simili dopo tutto quello che hanno passato?’ che è una domanda logica.
Come quando la gente chiede come sia possibile che i genitori abusati da piccoli
possano a loro volta trasformarsi in genitori che fanno altrettanto. Ed io
rispondo: ‘Come avete fatto, dopo l’occupazione tedesca in Francia, ad andare
in Indocina e in Algeria e fare quello che avete fatto?’ Guardarsi dentro è
molto più difficile che guardare fuori.”
Il pubblico
migliore è in Francia, dice. “Quando c’è stata la prima di ‘How I Learned to
Overcome My Fear and Love Arik Sharon’ al festival del documentario a Lussas
nel 1997, per tre giorni dopo la proiezione ogni volta che camminavo lungo
l’unica strada del paese tutti mi sorridevano. Avevano riso come matti
guardando il film. L’hanno adorato. Una delle cose incredibili del festival è
quanti giovani siano venuti anche se è un paesino in mezzo al nulla. Il
pubblico è sempre più giovane,” nota.
“La Francia
è veramente l’ultima superpotenza cinematografica. Alle persone si insegna ad
amare i film fin da piccoli e inoltre il governo sostiene i cinema che
proiettano pellicole sperimentali e documentari, che altrimenti non potrebbero
sopravvivere.”
Forse anche
per noi è più facile guardare film che criticano altri posti.
“Io ho un
problema con i film che parlano delle sofferenze degli altri, film su persone
che muoiono di fame nel terzo mondo. Questo voyeurismo necrofilo è molto
inquietante. Spero di non cadere in tale necrofilia.”
Nonostante
il caldo abbraccio che riceve all’estero, Mograbi non ha mai pensato di vivere
altrove se non in Israele.
“Nella mia
situazione e con la mia posizione nel mondo potrei trasferirmi ovunque io
voglia,” dice. “Ma non ho piani o desideri simili. Sono affezionato a questa
città. Sono cresciuto a Tel Aviv e la conosco a menadito. Sottoterra all’angolo
di Allenby e Ben-Yehuda sono sepolti tutti i miei sogni. Dove potrei andare?
Anche ogni altro Paese a cui potrei pensare ha un suo passato sordido. Francia,
Olanda, Belgio, America. E che tipo di film potrei fare fuori da Israele? Qui
conosco le cose belle e quelle brutte. Vivo totalmente immerso nella storia e
nella politica e cultura di questo posto e lo amo.”
Ma non ci
sono momenti in cui si sente minacciato o emarginato?
“No. Non ho
mai ricevuto attacchi personali. Ho sofferto per qualcosa di persino peggiore:
essere ignorato. Sono riconosciuto nella comunità cinematografica e in quella
minuscola e sempre più piccola della sinistra, ma quando si fa un film che
passa in televisione ci si aspetta una reazione da un po’ più di quelle
centinaia o migliaia di persone che conosci già per nome. Essere ignorato può
essere una cosa molto deprimente quando il tuo campo è quello dei mass media.”…
(traduzione
dall’inglese di Mirella Alessio)
Non c’è
destra o sinistra in Israele, solo sionismo e non sionismo - Gideon Levy
La scorsa
settimana Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la
solidità della nuova coalizione israeliana. L’editorialista di Haaretz
Carolina Landsmann si chiede su questo sito se abbiamo a che fare con un governo ambiguo oppure
con uno che ha messo allo scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il
giornalista Ron Cahlili afferma che la destra ideologica e la sinistra sionista
sono la stessa cosa. Tutti e due evocano una vecchia storia, quella del gatto
che esce dal sacco: in Israele non c’è né sinistra né destra.
L’unica divisione ideologica è tra sionisti, vale a dire quasi tutti, e non
sionisti, molto meno numerosi.
La
cancelliera può quindi tranquillizzarsi. Quando è stato formato l’attuale governo
non è avvenuto nessun miracolo e la Germania non ha nulla da imparare da esso.
Non c’è stata nessuna “contingenza politica”, per usare la frase
coniata dal primo ministro. L’attuale coalizione si mantiene facilmente poiché
è una coalizione basata sul consenso, senza grandi divari tra i suoi
componenti. Il Likud [il principale partito israeliano di centro destra, ndtr.]
(meno Netanyahu) e gli ultra-ortodossi potrebbero formare un’estesa coalizione
trasversale, che rappresenti una società ampiamente trasversale.
Questo
governo sarà ricordato come quello che, pur non volendolo, ha smascherato
il grande inganno. È sorto sulle onde dell’odio provato nei confronti di
Netanyahu, e vive (e continuerà a vivere) sulla base dell’unità di
fondo dei suoi componenti. Se domani mattina Merav Michaeli [leader del Partito
Laburista Israeliano e Ministra dei Trasporti nel Governo Bennett, ndtr.]
sostituisse Naftali Bennett [leader del partito Nuova Destra e attuale primo
ministro israeliano ndtr.], non si verificherebbe alcun terremoto. A parte
qualche cambio di stile, Israele resterebbe uguale a quello di prima…
(traduzione
dall’inglese di Aldo Lotta)
Dopo Corbyn,
la lobby israeliana prende di mira il mondo accademico britannico - Jonathan
Cook
Sembra che
la lobby israeliana si stia preparando a una campagna per sradicare gli
accademici di sinistra che nel Regno Unito sono critici verso la continua
oppressione israeliana del popolo palestinese, impegnandosi in sforzi simili a
quelli messi in atto contro l’ex leader laburista Jeremy Corbyn.
Come per gli
attacchi contro Corbyn, quello contro gli accademici è guidato dal Jewish
Chronicle, settimanale inglese che si rivolge ai più ardenti sostenitori di
Israele fra la comunità ebraica britannica.
La mossa
segue il successo che la lobby ha ottenuto questo mese con le sue pressioni
sull’università di Bristol affinché licenziasse uno dei suoi docenti, David
Miller, anche dopo le indagini dalla stessa università, condotte da un
giurista, che avevano concluso che le accuse di antisemitismo contro Miller
erano infondate.
Miller è
stato formalmente licenziato con la generica motivazione secondo cui egli “non
risponde ai criteri di comportamento che ci si aspetta dai nostri dipendenti e
dall’Università”.
La lobby ha
mascherato a stento la propria soddisfazione dopo che, apparentemente per paura
di pubblicità negativa, l’università di Bristol ha capitolato davanti a una
campagna di affermazioni infondate in base alle quali Miller “ha vessato” gli
studenti ebrei.
Miller,
sociologo, è all’avanguardia per le sue ricerche sulle fonti dell’islamofobia
nel Regno Unito. Il suo lavoro presenta un esame dettagliato del ruolo della
lobby israeliana nel fomentare il razzismo contro musulmani, arabi e
palestinesi.
Israele ha promosso
da tempo l’idea di essere un baluardo contro la presunta barbarie islamica e il
terrorismo, in quello che lo Stato e i suoi sostenitori presentano come uno
“scontro di civiltà”.
Più di un
secolo fa, Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, sosteneva nel
linguaggio colonialista dell’epoca che uno Stato ebraico in Medio Oriente
sarebbe servito come “un muro di difesa per l’Europa in Asia, un avamposto di
civiltà contro la barbarie”.
Questo è il
concetto chiave a cui il movimento sionista fece ricorso per far pressione
sulle principali potenze del tempo, principalmente l’Inghilterra, perché
contribuisse a cacciare il popolo palestinese autoctono dalla maggior parte
della sua patria in modo che potesse invece insediarsi l’auto-dichiarato Stato
ebraico di Israele.
A tutt’oggi
Israele incoraggia sia l’idea di essere vittima di una minaccia esistenziale
permanente da parte di un odio apparentemente irrazionale e dal fanatismo dei
musulmani, sia di giocare un ruolo cruciale di prima linea nella difesa dei
valori occidentali. Di conseguenza i palestinesi si sono trovati isolatati a
livello diplomatico.
‘Punta
dell’iceberg’
A indicare
la direzione che probabilmente la lobby intende seguire d’ora in poi, questo
mese il Jewish Chronicle ha pubblicato un editoriale
intitolato “Il licenziamento di Miller dovrebbe essere l’inizio, non la fine”.
In esso si conclude: “Miller non è una voce isolata, ma è rappresentativo di
una scuola di pensiero radicata quasi ovunque nel mondo accademico.”
Allo stesso
tempo, sotto il titolo “Miller se ne è andato, ma lui è solo la punta
dell’iceberg”, si riporta che, all’inizio dell’anno, studiosi in “74
diverse istituzioni britanniche di istruzione superiore” hanno firmato una
lettera di sostegno a Miller rivelando “la vastità della rete che lo sostiene
nelle università in tutto il Regno Unito”.
Si fa notare
che fra i firmatari è incluso “un numero significativo di rappresentanti
dell’establishment del Russell Group, costituito da 24 delle più prestigiose
università britanniche”.
Il Chronicle sottolinea
il fatto che 13 dei firmatari appartenevano all’università di Bristol e faceva
il nome di parecchi docenti.
L’insinuazione
appena velata è che ci sia un problema di antisemitismo nelle università
britanniche e che sia tollerata dai piani alti.
La lobby ha
usato la stessa tesi con Corbyn, sostenendo, nonostante la scarsità delle
prove, che lui e la sua cerchia più ristretta fossero indulgenti verso una
ipotetica esplosione di antisemitismo all’interno del partito, insinuando in
modo pesante che la stessero incoraggiando.
Le
affermazioni della lobby sono state entusiasticamente amplificate dai media in
mano ai miliardari e dalla burocrazia di destra del
partito laburista, profondamente ostili al socialismo di Corbyn…
(traduzione
dall’inglese di Mirella Alessio)
LA
DICHIARAZIONE BALFOUR E EDIMBURGO: È ORA CHE L’UNIVERSITÀ FACCIA AMMENDA? - Nicola Perugini
L’8 luglio
1903, presso l’Hotel Cecil sull’argine del Tamigi a Londra, ebbe luogo la prima
Conferenza dell’Università Coloniale Alleata. Lo sviluppo della produzione di
conoscenza e delle reti universitarie aveva lo scopo di favorire il dominio
imperiale britannico.
Uno dei
principali artefici di questa svolta imperiale all’accademia fu Arthur James
Balfour, all’epoca primo ministro del Regno Unito e anche rettore
dell’Università di Edimburgo. Balfour era stato nominato alla carica di
Edimburgo nel 1891 e alla fine mantenne la carica fino al 1930, il più lungo
cancellierato nella storia dell’università.
All’Hotel
Cecil, Balfour presiedette la cena congressuale a cui parteciparono delegati di
università, direttori di college e “uomini di spicco nel lavoro educativo e
scientifico”.
Dopo i
consueti brindisi, Balfour pronunciò un discorso in cui celebrava la fondazione
della nuova alleanza accademica britannico-coloniale e spiegava perché questo
fosse stato un notevole risultato politico: “Non è solo, o semplicemente, o
principalmente che ci sono qui in questa sala rappresentanti dell’erudizione,
della scienza, di tutte le grandi sfere di attività in cui si dispiega il
pensiero moderno. È che qui rappresentiamo quella che si rivelerà, credo, una
grande alleanza dei più grandi strumenti educativi dell’Impero, un’alleanza di
tutte le università che, in misura crescente, sentono le proprie
responsabilità, non solo per la formazione della gioventù destinata a portare
avanti le tradizioni dell’Impero Britannico, ma anche per favorire quei grandi
interessi di conoscenza, ricerca scientifica e cultura senza i quali nessun
Impero, per quanto materialmente magnifico, può davvero dire di condividere nel
progresso del mondo”.
Nella mente
di Balfour, la nuova alleanza accademica era uno strumento cruciale per
cementare il dominio globale della Gran Bretagna. Ma era anche uno strumento
chiave per affermare il senso di un’unità anglosassone razzializzata: “Noi
vantiamo una comunità di sangue, di lingua, di leggi, di letteratura”,
esclamava l’estatico Cancelliere-Primo Ministro alla cena della conferenza.
Dopo aver
terminato il suo incarico di primo ministro nel 1905, Balfour si ritirò per
quasi un decennio dalla scena centrale della politica estera imperiale, prima
di tornare nel 1916 come ministro degli esteri. Ma in quei 10 anni, il rettore
dell’Università di Edimburgo continuò a costruire lo spazio accademico
britannico come un progetto imperiale.
Nel 1912,
forse anche a causa del suo crescente interesse per “l’Oriente”, a Balfour fu
chiesto di presiedere una sessione del Secondo Congresso delle Università
dell’Impero sul Problema delle Università in Oriente riguardo alla loro
Influenza sul Carattere e sugli Ideali Morali…
Traduzione
di Angelo Stefanini
Barghouti:
l’Autorità Palestinese non ha autorità
Ieri
l’agenzia di stampa Sama [agenzia di notizie siriana, ndtr.]
ha riferito che Marwan Barghouti, membro del Comitato Centrale di
Fatah, ha detto dal carcere: “ L’Autorità Palestinese (ANP)
non ha autorità” e ha aggiunto che la battaglia per Gerusalemme “ha rivelato
l’inettitudine e la fragilità” del sistema politico palestinese.
Barghouti ha
anche detto che l’ANP “ha permesso all’occupazione israeliana di non spendere
nulla,” facendo notare che l’occupazione “pratica la pulizia etnica ed è
responsabile di molti atti di aggressione contro i palestinesi.”
Ha spiegato
che la frazione principale dell’Olp ” ha accettato condizioni inferiori al
minimo” necessario per raggiungere la pace con l’occupazione israeliana.
Immigrazione,
colonie, rafforzamento dell’esercito e potenti alleanze internazionali “sono il
pilastro dell’occupazione israeliana,” ha spiegato Barghouti, osservando che
gli ebrei immigrati in Israele sono 32.000 all’anno e che il numero dei coloni
ebrei israeliani nella Cisgiordania occupata è salito negli ultimi dieci anni a
200.000.
Nel
frattempo Israele ha accresciuto la sua potenza militare e sta stringendo
alleanze con Russia, Cina e India, oltre agli USA. Questo Stato occupante sta
cercando al contempo di diventare una nazione centrale nella regione con cui i
Paesi vicini stanno cercando di stringere alleanze, ha spiegato.
La recente
battaglia per Gerusalemme avvenuta a maggio nei territori occupati e in
Israele, “è la prova che, nonostante sofferenze e dolori, i palestinesi non
smetteranno di combattere per i propri diritti,” ha concluso Barghouti.
Ciò ha anche
“evidenziato l’inettitudine e la fragilità del sistema politico palestinese e
dimostrato che dobbiamo produrre una nuova leadership alternativa tramite
elezioni generali.”
(traduzione
dall’inglese di Mirella Alessio)
Un'immagine,
2 milioni di persone private della loro dignità. Gaza - Gideon Levy
Una massa di persone si accalca davanti
alla camera di commercio del campo profughi di Jabalya, nel disperato tentativo
di ottenere un permesso per lavorare in Israele È necessario guardare
le espressioni, gli occhi tetri, la barba, la supplica, la disperazione che si
manifesta sul volto di ogni persona in fila, che lotta per la propria
sopravvivenza. Agitano i moduli, come se li aiutassero a realizzare il loro
sogno. Le mani tese, come se allungando il braccio qualcuno potesse raggiungere
il suo sogno, ma è il lungo braccio di Israele, che dispensa a queste persone
tutto questo male.
Per decenni
Israele ha abusato di loro, dei loro genitori e dei loro figli. Non c'è
posto come Gaza per raccontare questa storia del male, dall'espulsione e fuga nel 1948,
alle azioni idi rappresaglia e alle conquiste, a questo assedio di 15
anni. Questo è il vero braccio lungo di Israele, che ne modella il
profilo morale.
Ogni uomo
sta guardando in una direzione diversa, sinistra, destra o verso il cielo, da
dove potrebbe venire un aiuto, forse. La ressa è tremenda . La vista ricorda le
spedizioni di bestiame vivo in Israele. La tristezza negli occhi di queste
persone indifese e lo shock che suscitano sono così simili, vitelli e persone. Qui
sono persone senza dignità. Israele li ha spogliati delle ultime vestigia della
loro dignità.
Khoury ha
riferito che alcuni sono disposti
a lavorare su turni di costruzione di 12 ore per 20 shekel
[6,20 dollari], e per questo privilegio si affollano strettamente come bestie. La
guerra è per oltre 3.000 permessi che Israele ha così gentilmente
offerto. Almeno 300.000 disoccupati in competizione per 3.000
permessi.
Uno su cento
potrebbe vincere. In un
territorio dove la disoccupazione ha raggiunto complessivamente il 48 per cento
e il 66 per cento tra i giovani adulti, il rispetto di sé è andato
perso. Come sarebbe facile restituire a questi miserabili uomini la loro
dignità e il loro sostentamento. Apri la Striscia di Gaza, ricollegala
alla Cisgiordania e consenti a queste persone di lavorare in Israele, che
importa lavoratori dalla Cina…
Ritorno al
sito di un pogrom , israeliano - Ilana Hammerman
Al-Tawani :
manifestazioni di ebrei e arabi
Sull'autobus
ci hanno detto che l'esercito poteva fermarci lungo la strada e non saremmo
stati in grado di continuare e forse ci avrebbero detto di scendere. Se ciò
accade, dicevano, obbediamo: non resistiamo, non usiamo la forza, non
malediciamo nemmeno. Questa è una protesta non violenta. Non violenta ! Ma
non ci hanno fermato lungo la strada. Sabato lo spazioso bus con aria
condizionata ci ha portato sani e salvi, in meno di un'ora, all'ingresso di
Al-Tawani, che purtroppo si trova tra due covi di teppisti dai bei nomi: Havat
Maon e Avigayl.
Quando siamo
arrivati al villaggio regnava già un allegro caos: decine di macchine erano
parcheggiate ai bordi della stradina e continuavano ad arrivare. E arrivavano
autobus e minibus più spaziosi e climatizzati, da Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa,
Beer Sheva. Centinaia
di persone , giovani e meno giovani, sono uscite dai veicoli salutandosi
calorosamente, con abbracci e pacche sulle spalle. Si sono mescolati con la
gente del posto di Al-Tawani e della zona circostante – alcuni di loro sono
vecchi amici. Perché qui lo slogan “ebrei e arabi rifiutano
di essere nemici” non sono solo parole, è la verità assoluta – una
verità che ha resistito a parecchie prove difficili.
Al-Mufqara
con cartelli e bandiere palestinesi
E' trascorsa
così un'ora piacevole, e poi, dopo aver ascoltato brevi spiegazioni in ebraico
e in arabo, che ribadivano la natura non violenta della protesta chiamata :
Marcia dell'Acqua
- ci siamo avviati verso la comunità di Al-Mufqara.
La strada
asfaltata di Al-Tawani si trasforma in un terreno pietroso e pieno di buche,
che scende e sale tra le colline aride e desolate. Il sole mattutino
leggermente caldo diventava leggermente più caldo, poi ancora più caldo, fino a
diventare insopportabile per le persone anziane tra noi.
Tuttavia, il
morale era alto. Come
vincitori, portando una serie di cartelli di protesta sotto le bandiere
palestinesi , abbiamo accompagnato il modesto e simbolico serbatoio dell'acqua
trainato da un trattore blu alla piccola comunità, una delle tante che
Israele ha condannato ad avvizzire per la sete
per la pulizia etnica di queste vaste distese.
Siamo
passati davanti alla fattoria degli autori del pogrom, circondata da alberi
verdi e ben irrigati. Nessuno ci ha fermato. Non è stata lanciata una pietra e nessun ufficiale è
venuto a dirci che si trattava di una "zona militare chiusa". Una
valle poco profonda ci separava da loro. Una settimana
fa i rivoltosi avevano attraversato questa valle, spinti in una frenesia di
dominio, odio e gelosia , per vandalizzare le proprietà dei pastori e ferito
loro e le loro famiglie. Nessuno li fermò allora.
Ora non li
vedevamo né li sentivamo. Solo pochi soldati camminavano avanti e indietro
lungo i bordi della valle. Era chiaro: questa volta l'esercito era deciso, ed
era ovviamente d'accordo con i teppisti, che le scene spiacevoli delle ultime
settimane non si sarebbero ripetute.
La marcia sarebbe passata, sarebbe arrivata dove stava andando e sarebbe
tornata indietro.
I marciatori
sarebbero tornati alle loro case tranquilli. I signori della terra ebraica dei pogrom
avrebbero poi completare l'opera insieme all'esercito con i suoi
bulldozer e altre rovinose attrezzature pesanti.
Quel sabato
hanno rispettato lo Shabbat e noi, stanchi ma soddisfatti, abbiamo raggiunto le
colline di Al-Mufqara con le nostre bandiere, i nostri manifesti e le nostre
grida ritmiche, accompagnati dai tamburi.
Ma poi mi
sono resa conto che la marcia non era arrivata a destinazione…
Appello
italiano "In difesa e in solidarietà con le Ong palestinesi dichiarate 'terroriste'
""
All’attenzione
del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, del Ministro degli Esteri, Luigi Di
Maio e della Vice Ministra Esteri, Marina Sereni
Ai sensi della legge nazionale antiterrorismo israeliana del 2016, il ministro
della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato «organizzazioni
terroristiche» sei associazioni della società civile palestinese: Al-Haq,
Addameer, Defense for Children-International, Union of Palestinian Women’s
Committees, the Bisan Research and Advocacy Center e Union Of Agricultural Work
Committees.Si tratta di un fatto gravissimo.
Lo stesso
Gantz, ex-capo di stato maggiore, durante una recente campagna elettorale si è
vantato di aver fatto tornare alcuni quartieri di Gaza “all’età della pietra”,
per aver guidato la sanguinosa operazione militare “Margine Protettivo”. In
effetti il bilancio dell’attacco è stato di oltre 2.000 vittime, in maggioranza
civili, migliaia di feriti e la distruzione di moltissimi edifici civili.
Le Ong in
questione si occupano della difesa dei diritti umani dei minorenni, delle donne
e di altre categorie vittime delle politiche israeliane di occupazione e di
pulizia etnica strisciante. Non a caso hanno ricevuto la solidarietà di
importanti ONG internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International e
di oltre venti organizzazioni israeliane, tra cui la più nota a livello
internazionale è B’Tselem.
I
sottoscritti esprimono stupore e dissenso per la decisione del ministero della
Difesa israeliano e si riconoscono in quanto scrivono le Ong israeliane: «La
documentazione, la difesa e l’assistenza legale sono attività fondamentali per
la protezione dei diritti umani in tutto il mondo. Criminalizzare tale lavoro è
un atto di codardia, caratteristico dei regimi autoritari repressivi. La società
civile e i difensori dei diritti umani devono essere protetti». Questa ennesima
iniziativa rischia di rappresentare un precedente e potrebbe far presagire
ulteriori interventi repressivi nei confronti dei difensori del diritto
internazionale e dei diritti umani.
Ci
rivolgiamo al Governo italiano e al nostro Ministro degli Esteri perché
intervengano nei confronti del Governo israeliano e lo inducano a revocare una
decisione che tanta sorpresa e indignazione ha suscitato.
I PRIMI
FIRMATARI…
Perché i
soldati aiutano i coloni ad abusare degli arabi? - Yossi Klein
Ideologia
della società dei coloni
I fatti sono
noti: è una società chiusa, conservatrice, religiosa. Il suo approccio alle istituzioni
governative è ostile e diffidente. Ai suoi margini ci sono bande di giovani,
esasperati dalla disoccupazione e dalla noia. Queste bande non attaccano la
loro stessa comunità, solo i loro vicini. Distruggono, sradicano, bruciano e
picchiano. La loro comunità è impotente, questa violenza ne rovina l'immagine.
I suoi leader non sanno cosa fare. Questo comportamento da delinquenti può
soddisfare alcuni desideri nascosti che nutrono, ma vorrebbero comunque
sembrare "normativi".
I capi di
questa comunità “condannano” debolmente questi delinquenti, esprimendo alcune
tiepide riserve. Cercano
di ridimensionare la gravità di questi crimini, descrivendo gli autori come
"erbacce selvatiche". Quando viene chiesto loro di rispondere
con più determinazione, alzano le spalle e dicono: Non siamo poliziotti?
.Lascia che la polizia entri nei nostri villaggi e risolva le cose.
La paura
della polizia
La polizia
non lo farà . Hanno paura di farlo. Ci sono molte pistole lì, un sacco di dita dal
grilletto facile. Questo settore non è grande, ma il suo potere è
intimidatorio. È ben collegato, rappresentato nella Knesset e nel
governo. La polizia non ha interesse a scontrarsi con esso. Non vogliono
essere coinvolti .. Finora, elementi criminali di questo settore hanno ucciso
bambini : rapendolo e uccidendone uno e bruciandone un altro. Hanno anche
altri metodi per gestire i loro vicini. Non ci sono dati precisi sui loro
crimini, dal momento che le vittime con chi possono lamentarsi? All'esercito
che aiuta i criminali? Ai media apatici, deboli e sottomessi?...
2300 rabbini
condannano la decisione di etichettare i gruppi palestinesi per i diritti umani
come terroristi.
T'ruah ,
un'organizzazione rabbinica diritti umani rappresenta oltre 2.300 rabbini e
cantori e le loro comunità nel Nord America, ha condannato la mossa di oggi dal
ministero della Difesa israeliano di dichiarare un certo numero di
organizzazioni palestinesi - tra cui alcune delle più importanti società civile
palestinese e organizzazioni per i diritti umani - come gruppi terroristici,
avvertendo che una ridotta trasparenza metterebbe in pericolo i diritti umani
sia degli israeliani che dei palestinesi.
Il rabbino
Jill Jacobs, CEO di T'ruah, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
"Questa
decisione è un allarmante tentativo da parte del governo israeliano di mettere
a tacere i difensori dei diritti umani palestinesi, compresi quelli che
denunciano violazioni dei diritti umani da parte del governo israeliano,
dell'Autorità palestinese e di Hamas e quelli che offrono supporto legale e
difendono i palestinesi soggetti ad abusi.
Un
forte settore dei diritti umani è un elemento essenziale per qualsiasi
democrazia. Etichettando falsamente le organizzazioni della società civile
palestinese come gruppi terroristici, il governo israeliano riduce la
trasparenza e viola i diritti fondamentali dei palestinesi in modi che possono
avere conseguenze potenzialmente letali. Una componente chiave di un futuro
stato palestinese è una società civile forte e i gruppi per i diritti umani
sono una parte essenziale della costruzione verso tale obiettivo…
Per 17 anni,
i coloni che lanciano pietre hanno terrorizzato i bambini palestinesi. Ero uno
di loro - Ali Awad
Il primo giorno
di scuola , nella Cisgiordania occupata, gli studenti che vivono a Tuba, un
villaggio palestinese nelle colline a sud di Hebron, aspettano che i soldati
israeliani li accompagnino a scuola.
Il loro
percorso li porta attraverso l'avamposto illegale israeliano di Havat Maon, costruito
su un terreno palestinese di proprietà privata tra Tuba e il vicino villaggio
di At-Tuwani . La scorta militare non solo è necessaria ma, ormai, routine.
Negli ultimi
17 anni, due settimane prima dell'inizio della scuola, gli studenti di Tuba
iniziano i loro preparativi con attivisti ed educatori – non per raccogliere
libri e iniziare a studiare, ma per ristabilire un contatto con l'esercito
israeliano per assicurarsi che possano arrivare a scuola in sicurezza .
La scuola più
vicina a Tuba è nel villaggio di At-Tuwani. Quando l'insediamento di Maon si è
espanso nei primi anni 2000 per collegarsi a un nuovo avamposto illegale, Havat
Maon, Tuba è stata tagliata fuori dalla strada che conduce ad At-Tuwani, che
prosegue fino alla città palestinese più vicina, Yatta.
La distanza
da Tuba a Yatta è di 3 chilometri (circa 20 minuti a piedi). Tuttavia, a causa dell'avamposto ,
i palestinesi devono percorrere Havat Maon, una deviazione che aumenta la
distanza a 20 chilometri. Anche la deviazione incide in modo significativo
sul diritto degli studenti di accedere alle strutture educative di At-Tuwani.
La violenza
dei coloni dell'avamposto illegale
Inizialmente,
quando fu costruito l'avamposto, gli studenti erano ancora determinati a
utilizzare il percorso diretto attraverso Havat Maon per andare a scuola a
piedi. Tuttavia, nel 2002, dopo aver subito attacchi quotidiani da parte dei
coloni, gli studenti sono stati costretti a smettere di usare la strada. Di
conseguenza, avrebbero dovuto camminare per 10 chilometri (nelle colline a sud
di Hebron, circa due ore) costeggiando l'avamposto per evitare la violenza dei
coloni. Gli studenti andavano a scuola a cavallo degli asini e talvolta i
genitori, che temevano per l'incolumità dei propri figli, li accompagnavano.
Nel 2004, un gruppo di volontari americani
del Christian Peacemaker Team, un gruppo basato sulla fede che sostiene la
nonviolenza , è arrivato nella regione. I volontari hanno visto la
sofferenza quotidiana degli scolari e hanno parlato con i loro genitori, da
quel momento, con il loro consenso, hanno accompagnato gli studenti
sattraverso l'avamposto illegale. I genitori erano ancora in apprensione,
così decisero di unirsi alla scorta, insieme ai volontari internazionali.
Tuttavia,
durante la prima settimana del semestre, i ragazzi e i volontari sono stati
brutalmente attaccati dai coloni: cinque uomini mascherati armati di catena e
mazza..
Invece di
rimuovere l'avamposto illegale (che viola anche la legge israeliana), si è
deciso di assegnare una pattuglia dell'esercito per accompagnare a piedi gli
studenti che vanno e vengono dalla scuola. Ironia della sorte, gli studenti sono diventati
dipendenti dall'IDF : non possono frequentare la scuola a meno che non si
presenti l' esercito . Nonostante la presenza dell'esercito, i coloni
illegali continuano a minacciare i bambini. Per 17 anni, questa strana e
moralmente carente disposizione è andata avanti.
Le
difficoltà
Ho iniziato
la prima elementare nel 2004, sotto scorta dell'esercito, e ho studiato così per
12 anni. Ricordo di non aver potuto frequentare la scuola, o di essere
arrivato tardi, perché io e i miei amici stavamo aspettando l'arrivo della
scorta militare. Ricordo di essere stato attaccato dai coloni anche con
l'IDF proprio lì. La frequenza delle lezioni dipendeva dall'umore dei soldati.
Se decidevano di presentarsi, allora si poteva andare a scuola. In caso
contrario, si aspettava il loro arrivo .
Quando
tornavamo a casa, il nostro pranzo ci stava aspettando, ma era quasi ora di
cena. All'alba e al tramonto camminavamo . Vivevo in uno stato permanente di
movimento e disorientamento: non riuscivo a calcolare l'ora della colazione e
l'ora della cena . La mia mente e il mio corpo erano consumati dal viaggio
quotidiano verso la scuola.
E non c'era
spazio nei nostri stomaci per molto cibo, perché erano troppo pieni di
tristezza. I nostri
corpi erano molto magri e deboli. Le nostre gambe erano doloranti a
causa della lunga camminata. Le nostre menti si sono allontanate dai
nostri studi. Per la maggior parte del tempo non siamo stati veramente
impegnati con la scuola a causa del nostro faticoso viaggio…
tratto da
questo sito
Vi racconto
la barbarie delle detenzioni amministrative e il coraggio di chi si oppone -
Amira Hass
(a cura di
Umberto De Giovannangeli)
Per Israele
sono terroristi quando si fanno strumento di morte. E sono sempre terroristi se
usano il loro corpo per manifestare la loro voglia di libertà.
La storia di
Kayed e Miqqad
A raccontarla
è la giornalista israeliana che meglio di chiunque altro reporter conosce la
realtà palestinese. Amira Hass, firma storica di Haaretz
“Il Comitato
Internazionale della Croce Rossa – scrive Hass - ha dichiarato questa settimana
di essere gravemente preoccupato per la salute di due detenuti amministrativi
palestinesi incarcerati da Israele, che stanno facendo uno sciopero della fame
da circa 80 giorni.
I due sono
Kayed Nammoura (Fasfous), un 32enne che da venerdì rifiuta il cibo da 87
giorni, per protestare contro la sua continua detenzione, e Miqdad Qawasmeh, 24
anni, che è in sciopero da 80 giorni. I due sono stati ricoverati al Kaplan
Medical Center di Rehovot. Il 29 settembre, in risposta a un appello presentato
dall'avvocato Jawad Boulos, la Corte suprema ha ordinato che la detenzione
amministrativa di Qawasmeh fosse "congelata" a causa del
deterioramento delle sue condizioni di salute. Non gli è permesso di lasciare
l'ospedale, anche se può avere visite e non è più incatenato al letto.
Anche altri
quattro detenuti amministrativi stanno protestando contro il fatto che Israele
li ha imprigionati per un periodo indefinito senza un'accusa, prove o
testimoni, negando loro il diritto alla difesa. I quattro, che sono rinchiusi
in una clinica della prigione di Ramle, sono Alla al-A'araj, in sciopero della
fame da 63 giorni, Hisham Abu Hawash (in sciopero da 54 giorni), Raik Bisharat
(49 giorni) e Shadi Abu Aker (46 giorni).
I sei
scioperanti della fame sono tra i circa 520 palestinesi detenuti in detenzione
amministrativa nelle prigioni israeliane per ordine del servizio di sicurezza
Shin Bet, lontano dagli occhi del pubblico israeliano.
Le famiglie
dei detenuti, alle quali sono state vietate le visite come parte della
punizione del servizio carcerario israeliano nei confronti degli scioperanti
della fame, sono state informate dagli avvocati che la salute dei loro figli
sta peggiorando. Ma le famiglie stanno criticando non solo Israele ma anche
l'Autorità Palestinese, che dicono non ha mostrato alcun serio interesse per la
sorte dei detenuti. Né l'AP ha cercato di far interessare l'opinione pubblica
israeliana o la comunità internazionale allo sciopero, o alla pratica illegale
di Israele di detenere i palestinesi senza processo, dicono le famiglie. Due
settimane fa, la madre di Fasfous, Fawzia Fasfous, ha cercato di superare
l'impotenza che le famiglie stanno provando viaggiando dalla sua casa di Dura,
nel sud della Cisgiordania, a Ramallah. Lì si è fermata in piazza Emile Habibi,
davanti all'ufficio del primo ministro palestinese, con una fotografia di suo
figlio. Uno dei suoi nipoti l'ha accompagnata. Una protesta presso un simbolo
dell'autogoverno palestinese è un evento raro. Una delle guardie di sicurezza
le ha offerto una sedia. Due poliziotti si sono aggirati imbarazzati e alla
fine hanno chiesto a Fawzia di entrare nel piccolo edificio delle guardie. Lei
ha rifiutato. Gli ufficiali hanno detto ad Haaretz che era
vietato fotografare la protesta, ma non hanno saputo spiegare perché. In ogni
caso, nessun giornalista palestinese stava coprendo la tranquilla dimostrazione
di una madre la cui vita del figlio è sempre più a rischio. ‘Siamo con voi - ci
identifichiamo con voi", ha detto uno degli ufficiali. Un funzionario
dell'ufficio del primo ministro alla fine ha convinto Fawzia a entrare
nell'edificio delle guardie, dove le ha detto con voce compassionevole: ‘Non
siamo noi l'indirizzo. Se, Dio non voglia, suo figlio fosse stato arrestato da
una delle agenzie di sicurezza palestinesi, potremmo intervenire. Ma è detenuto
dalle autorità di occupazione…
La carica
dei rabbini Usa contro i coloni di Eretz Israel - Umberto De Giovannangeli
La loro voce
è di quelle che contano. Negli Stati Uniti e non solo. Talmente forte, quella
voce, di arrivare fino a Tel Aviv e nei palazzi del potere israeliani. In
risposta all'assalto con lancio di pietre contro un villaggio palestinese nelle
colline di Hebron Sud all'inizio di questa settimana, che ha lasciato più di
una dozzina di palestinesi gravemente feriti, tra cui un bambino di tre anni,
T'ruah, un'organizzazione rabbinica per i diritti umani che rappresenta oltre
2.300 rabbini e cantori e le loro comunità in Nord America, ha espresso sdegno
e ha chiesto al governo israeliano di avviare immediatamente un'indagine
completa per rendere giustizia alle persone attaccate.
Rabbini
contro
Il rabbino
Jill Jacobs, Ceo di T'ruah, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
"Siamo
inorriditi da questo disgustoso attacco a Khirbet al-Mufkara da parte di coloni
estremisti, che hanno distrutto case e ferito più palestinesi, tra cui un
bambino che è stato ricoverato in ospedale con una ferita alla testa. Questo
incidente non è un attacco isolato. Dall'inizio dell'anno al 20 settembre, le
Nazioni Unite hanno documentato 333 attacchi di coloni contro palestinesi della
Cisgiordania, 93 dei quali hanno provocato feriti. Come abbiamo visto nei video
degli attacchi di questa settimana, l'esercito sta regolarmente a guardare e si
astiene dall'arrestare o fermare gli israeliani che compiono tali violenze,
mentre i palestinesi e i difensori dei diritti umani israeliani sono spesso
arrestati su ordine dei coloni.
"Ho
osservato personalmente i coloni di questi avamposti minacciare gli attivisti
israeliani per i diritti umani e i loro ospiti. Quando si tratta di
palestinesi, questi estremisti non esercitano alcun ritegno ma si sentono
autorizzati a compiere attacchi violenti contro adulti e bambini.
"È
particolarmente offensivo che questo attacco abbia avuto luogo durante Shemini
Atzeret/Simchat Torah (secondo il calendario delle festività israeliane), la
celebrazione annuale della Torah, che la nostra tradizione vede come una forza
che dà vita e un simbolo di amorevolezza, purezza e grazia. Nonostante le loro
affermazioni di essere spinti da impegni religiosi, questi coloni hanno
profanato uno dei giorni più sacri dell'anno ebraico per compiere violenze
contro i palestinesi. Gli aggressori che hanno compiuto un pogrom in questo
giorno hanno violato la Torah e portato vergogna a Israele e al popolo ebraico.
"Accogliamo
con favore quanto affermato dal ministro degli Esteri Yair Lapid che etichetta
questo incidente come un attacco terroristico. Ma Lapid deve anche agire, sia
contro questi autori che contro altri che compiono violenze quasi
quotidianamente contro i palestinesi e le loro proprietà. Israele deve lanciare
immediatamente un'indagine completa per identificare e arrestare tutte le
dozzine di colpevoli coinvolti e assicurarsi che siano assicurati alla
giustizia, cambiare la politica dell'esercito in modo che i soldati non stiano
più in disparte a guardare questi attacchi, e smantellare avamposti come Havat
Maon, dove vivono alcuni degli aggressori, e che sono illegali anche secondo la
legge israeliana. La continua mancanza di ripercussioni per gli estremisti
israeliani coinvolti in attacchi violenti, insieme al rifiuto di smantellare
gli avamposti illegali anche mentre si demoliscono regolarmente le case
palestinesi costruite senza permesso, testimonia la politica pro-insediamento e
anti-pace del governo israeliano, che premia la violenza, mentre viola anche i
diritti umani e minaccia la sicurezza dei palestinesi.
"I
rabbini e i cantori di T'ruah continueranno ad essere voci morali impegnate
nella difesa dei diritti umani sia per gli israeliani che per i palestinesi.
Continuiamo a stare dalla parte delle comunità palestinesi minacciate dalla
violenza dei coloni, dagli ordini di sfratto e dalle demolizioni delle case, e
stiamo anche dalla parte dei nostri partner israeliani - le organizzazioni dei
diritti umani e della società civile che lavorano per garantire i diritti umani
sia dei palestinesi che degli israeliani."
Così il rabbino
Jacobs.
Lo “Stato”
dei coloni
Settecentocinquantamila
abitanti. Centocinquanta insediamenti. Centodiciannove avamposti. Il 42 per
cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est
“colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante,
fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere
espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele.
Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono
già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”,
consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e
Samaria (i nomi biblici della West Bank).
A dar conto
della dimensione di questo “Stato” sono i dati di un recente rapporto di
B’tselem (l’ong pacifista israeliana che monitorizza la situazione nei
Territori). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte, ma che
scandiscono la quotidianità di oltre 750mila coloni.
Lo “Stato di
Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i
“terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con
l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi
sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata).
In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella
in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona
(Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio
di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati
con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte
agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i
cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico)
ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti
di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da
parte di quest’ultimi.
Citando
ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra
più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli
avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle
trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili
delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un
anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa
150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino
ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi
dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali
(complessivamente si superano i 750.000)…
L’unica
speranza per la lotta palestinese è liberarla dalla sua narrativa machista -
Rajaa Natura
Spetta alle
donne palestinesi combattere l’enfasi esagerata della loro società sui valori e
sui simboli dell’eroismo maschile, che stanno condannando la battaglia contro
l’occupazione israeliana a un tragico vicolo cieco.
La stampa
arabo-palestinese ha sfoderato ogni possibile superlativo per descrivere
Zubeidi: combattente per la libertà, drago di Palestina, pantera nera,
leggenda, eroe della Seconda Intifada. Zubeidi, in quanto uomo palestinese, ha
superato la prova nazionale a cui è stato sottoposto: l’eloquio dominante
palestinese ha lodato lui in particolare e la mascolinità palestinese in
generale come eroica.
Il problema
è che la sua mascolinità, come quella di molti uomini palestinesi, è
direttamente proporzionale alla violenza della mascolinità dell’occupante
israeliano. Le percosse, gli arresti, le torture e le incarcerazioni subite
sono riti di passaggio per l’eroica mascolinità nazionale palestinese. Questo è
ciò che la società palestinese si aspetta da un uomo che sta vivendo una
trasformazione da ragazzo normale a eroe. La mascolinità ordinaria e mortale
significa sconfitta, che è qualcosa che il centro interno palestinese rifiuta
di comprendere.
La richiesta
è di un contrappeso che sia “uguale” alla mascolinità israeliana occupante.
Ogni giorno, l’occupazione crea una forma di mascolinità palestinese simile a
un manifesto o a una sconfitta; restringe lo spazio in cui opera, canalizza e
detta le sue risposte sociali e politiche.
È
pretenzioso e fuorviante affermare che la mascolinità palestinese, che è
regolarmente alimentata e gonfiata dalla passionalità palestinese, è
equivalente in potenza fisica e simbolica alla mascolinità israeliana occupante
solo perché è in grado di reagire ad essa. Questa reattività in realtà non
altera effettivamente l’equilibrio del potere e quindi il suo rifugio finale è
la replica ripetitiva del modello eroico, nel tentativo di dare vita alla
narrativa palestinese che lentamente sbiadisce.
La fuga di
Zubeidi è una risposta combattiva tra una serie di possibili reazioni
all’oppressione politico-maschile israeliana. Non è l’ultima e unica risposta,
quindi non può essere descritta come una completa vittoria nazionale
palestinese sull’occupazione, come è stato il tema dominante nel dibattito
della comunità.
In generale,
la fuga di Zubeidi e l’eroismo maschile palestinese non dovrebbero diventare
l’unico significante di ciò che significa essere palestinesi, o della causa
palestinese. Non ha sconfitto l’occupazione né la sconfiggerà presto. La sua
fuga non ha “minato la sicurezza di Israele e degli israeliani”.
Questo è un
discorso vuoto, storicamente errato e distruttivo che lascia intendere in modo
nostalgico che solo l’eroismo maschile palestinese può trionfare. Di fatto,
nessun eroismo maschile palestinese ha posto fine all’occupazione, alterato il
dibattito politico sull’occupazione o offerto prove o strumenti alternativi
alle generazioni più giovani, a parte la glorificazione del sacrificio e del
martirio…
Traduzione:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
I
prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa israeliana continuano
lunghi ed estenuanti scioperi della fame - Jessica Buxbaum
“Non esiste
un sistema giudiziario per giudicarli in modo equo. Non c’è nessuno all’interno
del carcere che possa appoggiare le loro richieste. Quindi l’unico strumento
che i prigionieri palestinesi possono usare per protestare e combattere per i
loro diritti sono i loro corpi”. — La portavoce di Addameer Milena Ansari
Il
prigioniero palestinese Miqdad al-Qawasmeh è entrato nel suo 86° giorno di
sciopero della fame. È sopraffatto dalla debolezza e non può muoversi dal letto
d’ospedale, nemmeno per fare la doccia o usare il bagno. Soffre di dolori
articolari, renali, muscolari e addominali, alla testa, alle ossa. Ha
difficoltà a parlare e ha perso più di 34 chili. Nonostante la sua salute
deteriorata, al-Qawasmeh non vuole porre fine allo sciopero della fame, poiché
lui e altri sei prigionieri rifiutano il cibo per protestare contro la loro
detenzione amministrativa in corso.
Kayed
Fasfous è in sciopero della fame da 92 giorni; Alaa Al Araj ha trascorso 68
giorni senza cibo; Hisham Abu Hawash ha iniziato il suo sciopero della fame 61
giorni fa; Rayeq Bsharat non mangia da 56 giorni; Shadi Abu Akar è ora al suo
52° giorno senza cibo; e Hassan Shouka è in sciopero della fame da 27 giorni.
Inoltre, almeno 250 prigionieri associati all’organizzazione della Jihad
Islamica hanno iniziato uno sciopero della fame il 13 ottobre in segno di
protesta per il loro trasferimento in celle isolate.
La Corte
Suprema israeliana ha congelato le detenzioni sia di al-Qawasmeh che di Fasfous
a causa del peggioramento delle loro condizioni di salute. Al-Qawasmeh è stato
arrestato il 2 gennaio e Fasfous nel luglio 2020. Tuttavia, i parenti dei
prigionieri e le organizzazioni governative palestinesi affermano che la
decisione israeliana non deriva da un senso di moralità, ma piuttosto da
preoccupazioni di responsabilità. La Commissione per gli Affari dei Detenuti e
Degli Ex Detenuti ha dichiarato in una nota:
“La
decisione di congelare non significa annullare, ma in realtà, è la rinuncia
dell’Amministrazione delle Carceri di Occupazione e del servizio di sicurezza
Shin Bet alla responsabilità per il destino e la vita del prigioniero Fasfous,
trasformandolo in un “prigioniero” non ufficiale durante la sua permanenza in
ospedale. Rimane sotto la supervisione degli agenti della “sicurezza”
dell’ospedale invece che delle guardie della prigione. I familiari e i parenti
possono fargli visita come tutti i pazienti secondo le regole dell’ospedale, ma
non possono trasferirlo da nessuna parte”.
La
Commissione ha aggiunto che la salute di Fasfous peggiora ogni giorno. Il 32enne
soffre di vertigini persistenti, ha grave affaticamento e dolore al petto, e la
sua pressione sanguigna e i livelli di zucchero nel sangue sono bassi. Fasfous
si rifiuta anche di assumere integratori o di sottoporsi a esami medici,
affermando di non aver sofferto di problemi di salute o malattie prima del suo
arresto.
Fasfous e
al-Qawasmeh sono stati trasferiti dalle cliniche della prigione agli ospedali
israeliani. La madre di al-Qawasmeh, Umm Hazem, ha detto che la famiglia ha
ricevuto un permesso per entrare in Israele (Palestina occupata nel 1948). “Il
Servizio Carcerario Israeliano vuole sollevarsi da ogni responsabilità per la
sua vita nel caso succeda qualcosa”, ha detto Hazem. “Non è una questione di
diritti umani”.
Aumento
delle detenzioni amministrative
La politica
di detenzione amministrativa di Israele consente di imprigionare a tempo
indeterminato persone sulla base di informazioni segrete senza accusarli o
consentire loro di essere processati per un periodo di sei mesi, con
possibilità di rinnovo. Né il detenuto né il suo avvocato possono accedere alle
prove secretate. Anche se israeliani e stranieri possono essere soggetti a
detenzione amministrativa, la pratica è usata principalmente contro i
palestinesi.
A settembre,
l’organizzazione palestinese per i diritti dei prigionieri Addameer ha inviato
un appello urgente alle Nazioni Unite affinché intervenga e faccia pressione su
Israele per porre fine alla detenzione amministrativa. La lettera di Addameer
ha sottolineato il fatto che recentemente le detenzioni amministrative sono
aumentate. Milena Ansari, avvocato difensore internazionale di Adameer, ha
dichiarato:
“L’uso
della detenzione amministrativa da parte dell’occupazione israeliana è
drasticamente aumentato, specialmente quest’anno, dove la detenzione arbitraria
è stata una caratteristica chiave per mantenere il controllo sui palestinesi,
specialmente per quanto riguarda ciò che stava accadendo a Gerusalemme, allo
Sheikh Jarrah e in Cisgiordania, e soprattutto con la fuga dei sei
prigionieri dalla prigione di Gilboa.”
Nel 2020,
Israele ha emesso almeno 1.114 ordini di detenzione amministrativa contro
palestinesi, mentre da gennaio a giugno 2021 ne sono stati emessi non meno di
759. Attualmente, 520 palestinesi sono detenuti in detenzione amministrativa.
Ansari sospetta che il numero di fermi amministrativi subirà un ulteriore
aumento prima della fine dell’anno.
Ciò che è
diventato particolarmente preoccupante è il drammatico aumento dei bambini
palestinesi detenuti in detenzione amministrativa. In seguito ad un accesso
agli atti pubblici, l’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked ha
scoperto che tre minori sono stati detenuti in detenzione amministrativa nel
gennaio di quest’anno. A giugno, quel numero era salito a otto.
Amal
Nakhleh, 17 anni, è stato arrestato e posto in detenzione amministrativa il 21
gennaio 2020. Gli è stata diagnosticata la miastenia grave, una condizione
medica rara che richiede cure mediche e monitoraggio costanti. “Anche un minore
che soffre di problemi di salute è sottoposto a detenzione amministrativa”, ha
detto Ansari, aggiungendo che la sua detenzione è stata rinnovata tre volte.
“Quindi si può vedere l’uso arbitrario di questo contro i minori quando secondo
il diritto internazionale la detenzione dei minorenni dovrebbe essere l’ultima
risorsa e per il minor tempo possibile. Ma questo è in totale contrasto con
l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa”…
Traduzione:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Come Israele
usa il “pinkwashing” con il mese di sensibilizzazione sul cancro al seno per
nascondere la sua crudeltà - Mimi Kirk
Nessuna luce
rosa proiettata sul quartier generale dell’IDF a Tel Aviv per celebrare il mese
della sensibilizzazione sul cancro al seno, può oscurare la crudeltà di Israele
nei confronti delle donne palestinesi.
I
sostenitori dei diritti dei palestinesi, come il movimento per il Boicottaggio,
il Disinvestimento e le Sanzioni, hanno stigmatizzato la strategia del governo
israeliano del “pinkwashing”, una pratica propagandistica che mostra
solidarietà con i diritti LGBTQ+ mentre oscura l’occupazione israeliana,
l’apartheid e le politiche coloniali che opprimono i palestinesi.
Eppure c’è
un altro tipo di pinkwashing israeliano, ed è stato messo in mostra questo
mese, dedicato alla sensibilizzazione sul cancro al seno.
Il 1°
ottobre, l’account Twitter delle forze di difesa israeliane ha pubblicato una
foto della Torre Marganit, presso il quartier generale dell’IDF a Tel Aviv,
inondata di luce rosa. “Per coloro che stanno combattendo, per coloro che sono
morte e per coloro che sono sopravvissute, il quartier generale dell’IDF è
illuminato di rosa per questo #BreastCancerAwarenessMonth”, recitava il tweet.
“Il recente
gesto di solidarietà contro il cancro al seno dell’IDF è particolarmente
ipocrita, data la discrepanza nel trattamento del cancro al seno tra donne
palestinesi e israeliane”
Le attiviste
contro il cancro al seno negli Stati Uniti hanno criticato le società
statunitensi per sfoggiare cinicamente nastri rosa e proclamare il loro
sostegno alla consapevolezza e alla ricerca sul cancro al seno – in particolare
durante il mese di ottobre – solo per rafforzare le loro vendite o la loro
immagine, chiamando anch’esse tale pratica “pinkwashing”. Come ha osservato un
autore di Everyday Health, “Tutte le persone considerano questo
atteggiamento come un vantaggio dell’attuale clima politico, capitalizzare su
una causa, senza dover effettivamente impegnarsi.”.
Un post di
Slate del 2016 aveva rimproverato la Marina degli Stati Uniti e l’aeronautica
israeliana per aver dipinto i loro aerei da combattimento di rosa per il mese
della prevenzione del cancro al seno. Nel caso degli Stati Uniti, la vernice al
lattice rosa era stata apparentemente mescolata con detersivo per piatti per
facilitarne la facile rimozione una volta che il 1novembre fosse arrivato.
L’autrice Christina Cauterucci aveva ironicamente detto: “Come il cancro al
seno, i jet da combattimento uccidono le donne… [portano] morte rosa e
distruzione rosa e vittime civili rosa e crisi di rifugiati rosa e distruzione
rosa del patrimonio culturale ovunque conducano i loro nobili piloti
consapevoli del cancro”.
Allo stesso
modo, il recente gesto di solidarietà contro il cancro al seno dell’IDF sembra
particolarmente ipocrita, data la discrepanza nel trattamento del cancro al
seno tra donne palestinesi e israeliane, resa ancora più grave dalla pandemia
di Covid-19.
I tassi di
sopravvivenza a cinque anni per le donne con cancro al seno in Israele rispetto
a quelle con cancro al seno nei Territori palestinesi occupati (OPT) illustrano
questa discrepanza: in Israele, questa cifra è superiore all’88%, contro il 65%
nella Striscia di Gaza.
“Questo è in
parte il risultato delle restrizioni al movimento dei palestinesi e delle sfide
esistenti che devono affrontare nel sistema sanitario, che indeboliscono e
limitano lo screening del cancro al seno, le capacità diagnostiche e terapeutiche
nei TPO”, dice Fikr Shalltoot, Direttore per il Gaza organizzazione Medical Aid
for Palestines.
Shalltoot
sottolinea come il Ministero della Salute di Gaza ha solo una macchina per
mammografia dedicata allo screening del cancro al seno, ed è attualmente rotta.
Anche con una diagnosi, i malati di cancro hanno spesso bisogno di viaggiare da
Gaza alla Cisgiordania, a Gerusalemme Est e agli ospedali israeliani per
accedere a trattamenti di base come radiazioni, chemioterapia, scansioni PET e
chirurgia. Questi test e trattamenti non sono disponibili a Gaza in gran parte
a causa del blocco che Israele impone alla Striscia, che include restrizioni
all’importazione di articoli “a duplice uso”, o quelli che il governo
israeliano sostiene abbiano un uso sia civile che militare e sono quindi
proibito.
I malati di
cancro negli OPT devono richiedere i permessi di viaggio per le cure e le
autorità israeliane possono rifiutare o ritardare l’elaborazione dei permessi
per mesi. Nell’agosto 2021, il tasso di approvazione del permesso per i
pazienti di Gaza (cancro e non) era del 64%. Sebbene il tasso di approvazione
per le domande dalla Cisgiordania sia più elevato, l’autorizzazione non è
ancora garantita. Nello stesso mese, il tasso di approvazione per i pazienti
della Cisgiordania è stato dell’87%.
“Sono come
un uccello in gabbia”, ha detto ad Al Jazeera nel 2017 Hind Shaheen, una malata
di cancro al seno a cui era stata negata l’uscita da Gaza per le cure, dal suo
letto d’ospedale. “Fuori dalla mia gabbia vedo acqua e cibo, ma non riesco a
raggiungerlo.”…
Traduzione
di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”
-Invictapalestian.org
La Spada e
il Libro: Come il sionismo usa violenza alla tradizione ebraica - Miko Peled
Nel suo
ampio trattato sul tema del giudaismo contro il sionismo, il Rabbino Yaakov
Shapiro scrive: “Lo stile di vita ebraico è incompatibile con la Spada (il
terrorismo sacro di Israele)”. La violenza e la guerra sono disapprovate
nell’ebraismo, che è una delle ragioni per cui gli ebrei tradizionali e
ortodossi prendono ampiamente le distanze dal sionismo, se non lo rifiutano
completamente. Spiega anche perché i giovani uomini e donne ultra ortodossi si
rifiutano di servire nell’esercito israeliano, e di fatto preferiscono andare
in prigione.
La violenza
e la brutalità con cui lo Stato di Israele si è comportato sin dalla sua
costituzione dimostra che è uno Stato che ha un’insaziabile brama di guerra.
Poiché la falsa affermazione di Israele di essere lo Stato del popolo ebraico è
stata ampiamente accettata, si può erroneamente presumere che la violenza e il
razzismo che sono così parte integrante di Israele siano in qualche modo un
riflesso del popolo ebraico e della religione ebraica. Questo, tuttavia, non
potrebbe essere più lontano dalla realtà.
Il Rabbino
Shapiro scrive: “Non abbiamo mai glorificato la guerra o i guerrieri come hanno
fatto le altre nazioni. Le uniche persone da noi glorificate sono i nostri
studiosi della Torah”. E anche se gli ebrei hanno siti che considerano santi,
“gli ebrei non hanno mai commemorato come simbolo nazionale il luogo di una
battaglia storica”, né gli ebrei commemorano battaglie o vittorie come
festività o ricorrenze.
Hanukkah
Una festa
ebraica che è fraintesa e completamente travisata dai sionisti è Hanukkah. I
sionisti affermano che è una celebrazione di una vittoria militare degli ebrei
contro i loro oppressori greci. Tuttavia, dice il Rabbino Shapiro, questa è
un’interpretazione laico-sionista di una festa religiosa.
La festa di
Hanukkah è la celebrazione di un miracolo in cui l’olio per la lampada per
illuminare il tempio di Gerusalemme è durato più a lungo di quanto altrimenti
sarebbe stato naturalmente. In effetti, il Rabbino Shapiro ci dice che anche
Maimonide, che è probabilmente il più grande studioso ebreo che sia mai
vissuto, commentò questo problema e affermò che celebrare Hanukkah come una
vittoria militare sarebbe contrario alla Torah “perché la Torah celebra la pace
sopra ogni altra cosa”.
Per
dimostrare come Hannukah sia stato travisato, il Rabbino Shapiro cita figure
sioniste come il poeta Chaim Nachman Bialik, l’autore Leon Uris e persino lo
stesso Theodor Hertzl. Hanno creato e perpetuato il mito che i Macabei
combattessero per i diritti nazionali e l’autodeterminazione. Questa, secondo
il Rabbino Shapiro, “è un’interpretazione violenta e sionista”. “La guerra
nella storia di Hanukkah non è nemmeno menzionata nel Talmud”, ha sottolineato
il Rabbino Shapiro quando gli ho chiesto di questo.
Il Rabbino
Shapiro cita il Rabbino Shimon Shwab (1908-1995), un rabbino antisionista
tedesco che servì come rabbino capo degli ebrei di Washington Heights (un
quartiere nella parte settentrionale del distretto di Manhattan a New York).
Riguardo ad Hanukkah, ha detto: “I Maccabei non hanno combattuto per gli ebrei,
hanno combattuto per la Torah; darebbero la vita per rimanere ebrei. Per
dimostrare che preferiscono morire piuttosto che non poter adorare”. Il Rabbino
Shwab disse inoltre: “Beis ha mikdash (il Tempio) non vale una vita. Non siamo
andati in guerra per questo, ma perché hanno cercato di renderci non ebrei”.
La Spada e
il Libro
Il concetto
del Libro contro la Spada è centrale per il giudaismo. L’ebraismo è una
religione che esige dai suoi seguaci che osservino il Libro e non la Spada.
Questo risale al Libro della Genesi, dove il Patriarca Yitzhak ha due figli, i
gemelli Ya’akov ed Esav. Ciascuno dei suoi figli rappresenta una di queste due
qualità. Ya’akov, che eredita dal padre e diventa il terzo patriarca,
rappresenta lo studioso fedele alla Torah. Il secondo figlio, Esav, rappresenta
il guerriero. La Torah parla della “voce di Ya’akov e delle mani di Esav”. Più
tardi nella storia ebraica questi termini furono conosciuti come Safra, in
aramaico per la parola “Libro”, e Saifa, in aramaico per la parola “Spada”. I
due sono incompatibili e saranno per sempre in contrasto tra loro.
Per
illustrare ulteriormente questo caso, il Rabbino Shapiro porta una storia dalla
Gemara, uno dei numerosi elementi che compongono il Talmud, che è la raccolta
di opere che costituisce la vita, la legge e l’apprendimento ebraici. In questa
storia, Eleazar Ben Perata era un rabbino che visse in Palestina durante il
secondo secolo d.C., quando il paese era governato dai romani. I romani, che
secondo la storia resero illegale lo studio della Torah, lo accusarono di
attacco armato e di studio della Torah. Quando è stato portato davanti al
giudice ha affermato: “Posso essere colpevole di Safra (studiare il Libro o la
Torah) o Saifa (tenere la Spada) ma non di entrambi”…
Miko Peled è
uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di
“The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story
of the Holy Land Foundation Five”.
Traduzione:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
I cinque
della Holy Land Foundation: Come la geopolitica statunitense-israeliana ha
barbaramente distorto il processo giudiziario statunitense - Miko Peled
Mentre Bush
si affrettava a designare la Holy Land Foundation (Fondazione Terra Santa) come
organizzazione terroristica e dichiarava che chiuderla era in qualche modo un
grande risultato nella lotta al terrorismo, in realtà non aveva prove.
Sembrano
esserci pochi limiti al pregiudizio e alla barbarie quando si tratta del
sistema giudiziario degli Stati Uniti al servizio delle agende politiche e
geopolitiche. Le comunità di colore negli Stati Uniti hanno sperimentato questa
crudeltà per secoli, ma per quelli di noi che vivono al di fuori di quel mondo,
che vivono nella sfera dei privilegiati, scontrarsi con questa crudeltà è
scioccante.
Nel mio
libro “Injustice, The Story of the Holy Land Foundation Five” (Ingiustizia, La
Storia Dei Cinque Della Fondazione Terra Santa), pubblicato nel 2018, racconto
la storia di cinque uomini innocenti che sono stati ingiustamente accusati,
processati e condannati per finanziamento a un’organizzazione terroristica. Se
erano colpevoli di qualcosa, era preoccuparsi più dei loro simili che di se
stessi. I cinque uomini hanno attraversato due processi e alla fine sono stati
condannati a pene detentive dai 15 ai 65 anni da scontare in una prigione
federale. Gli uomini sono Shukri Abu Baker, condannato a 65 anni; Ghassan
Elashi, condannato a 65 anni; Mufid Abdulqader, condannato a 20 anni;
Abdulrahman Odeh, condannato a 15 anni; e Mohammad Elmezain, condannato a 15
anni.
Sono quasi
passati quindici anni e due dei cinque uomini sono in attesa di rilascio.
Abdulrahman Odeh è finalmente a casa a Dallas, pur vivendo con le restrizioni
di un criminale rilasciato. Mohammad Elmezain avrebbe dovuto essere rilasciato
ma, poiché non è un cittadino naturalizzato degli Stati Uniti, piuttosto che
lasciarlo andare dalla sua famiglia, le autorità lo hanno “rilasciato”
(consegnato) all’Ufficio Immigrazione e Dogana degli Stati Uniti, noto anche
come ICE.
La Holy Land
Foundation
Un tempo la
più grande organizzazione di soccorso musulmana negli Stati Uniti, la Holy Land
Foundation (HLF) venne chiusa dopo gli attacchi dell’11 settembre dal
presidente George W. Bush tramite un ordine esecutivo. Dopo gli attacchi
dell’11 settembre, il governo degli Stati Uniti voleva dimostrare che stava
agendo in modo rapido ed efficace contro il terrorismo, quindi il Dipartimento
del Tesoro fu incaricato di individuare e chiudere le operazioni
che finanziavano il terrorismo negli Stati Uniti.
Nel suo
libro “The Price of Loyalty: George W. Bush, the White House, and the Education
of Paul O’Neill” (Il Prezzo Della Lealtà: George W. Bush, la Casa Bianca e
l’Educazione di Paul O’Neill), pubblicato nel 2004, l’autore vincitore del
Premio Pulitzer Ron Suskind descrive l’atmosfera post 11 settembre a Washington
come una “persecuzione dei soliti sospetti”. La Holy Land Foundation, essendo
un ente di beneficenza musulmano incentrato sulla Palestina, era un obiettivo
primario.
Inoltre,
dall’inizio degli anni ’90 l’Anti-Defamation League (Lega Anti-Diffamazione –
ADL), che è un’organizzazione anti-palestinese e sionista, si è impegnata in
una campagna diffamatoria contro la Holy Land Foundation. Insieme a politici
sionisti americani come Chuck Schumer, Anthony Wiener e altri, l’ADL sosteneva
che HLF stesse finanziando il terrorismo.
La campagna
diffamatoria contro HLF stava funzionando anche prima degli attacchi dell’11
settembre 2001. Come gli imputati appresero durante il processo, l’FBI
aveva intercettato alcuni dei loro telefoni dagli anni ’90. Inoltre, la
campagna stava danneggiando i rapporti che HLF aveva con altre organizzazioni;
e in alcuni casi importanti alleanze erano state interrotte a causa delle false
accuse.
Il 4
dicembre 2001 il Presidente degli Stati Uniti dichiarò di aver chiuso
“un’importante rete di finanziamento del terrorismo” e la Holy Land Foundation
fu designata come organizzazione terroristica dal Dipartimento del Tesoro degli
Stati Uniti. Il processo di designazione in tal modo di un’organizzazione o di
un individuo richiede un processo limitato, molto meno di quanto richiesto in
un tribunale…
Traduzione di
Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org
I lavoratori
di Amazon e di Google contro i nuovi contratti con Israele: “Tradiscono i
valori dell’azienda e i lavoratori come noi” - Gabriel Schubiner
All’inizio
della nostra carriera, eravamo entusiasti di contribuire a una tecnologia che
avrebbe potuto creare nuovi modi di interagire gli uni con gli altri, con i
nostri dispositivi e diffondere informazioni in tutto il mondo. Oggi lavoriamo
in due delle più grandi società tecnologiche, Google e Amazon. Ci siamo uniti a
queste aziende perché abbiamo visto l’enorme impatto che hanno sulla vita delle
persone a livello globale e perché credevamo che lo sviluppo di una tecnologia
su tale scala potesse promuovere il bene e unire le persone.
Chiediamo ad
Amazon e Google di porre fine ai loro nuovi contratti con il governo e
l’esercito israeliani.
Non siamo
ingenui riguardo al danno che la tecnologia può generare. Come lavoratori,
siamo responsabili dei prodotti che creiamo. Poiché crediamo che ogni persona
meriti di vivere con libertà e dignità, chiediamo ad Amazon e Google di porre
fine ai loro nuovi contratti con il governo e le forze armate israeliane, che
opprimono violentemente milioni di palestinesi.
Ci siamo
uniti per la prima volta come lavoratori martedì, attraverso i canali
aziendali, per inviare una lettera congiunta chiedendo a Google e Amazon di
rispettare i diritti umani dei palestinesi e annullare il Progetto Nimbus, il
progetto da 1,2 miliardi di dollari che fornirà servizi cloud al governo
israeliano, compresi i militari. I servizi comprendono risorse di archiviazione
e computazione, nonché funzionalità che consentono agli utenti di addestrare
facilmente una potente intelligenza artificiale.
In base a
questi contratti, i nostri servizi cloud aiuteranno a facilitare il controllo e
la persecuzione dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, la
demolizione di case palestinesi nei territori palestinesi occupati e gli
attacchi a Gaza che in passato hanno colpito obiettivi civili come gli
ospedali. Oltre alle forze armate, Project Nimbus fornirà anche i nostri
servizi cloud all’Israel Land Authority, un’agenzia che consente la continua
espansione di Israele degli insediamenti illegali in violazione del diritto
internazionale e della politica degli Stati Uniti.
Questa
storica campagna segue gli sforzi separati dei nostri colleghi dipendenti che
hanno esortato i nostri rispettivi datori di lavoro a sostenere i diritti dei
palestinesi e a porre fine ai loro legami con l’esercito israeliano durante
l’ondata di violenza dello scorso maggio, che ha ucciso almeno 230 palestinesi
nella Gaza assediata, tra cui 65 bambini. Secondo i nostri dati, quasi 1.000
firmatari anonimi di Amazon e più di 600 di Google hanno aderito a questa
chiamata.
Il Progetto
Nimbus
Non è la
prima volta che Amazon e Google collaborano con istituzioni violente e dannose.
In risposta a un contratto con l’Immigration and Customs Enforcement degli
Stati Uniti, che sorveglia e ingabbia sistematicamente i migranti privi di
documenti, i lavoratori di Amazon hanno lanciato “We Won’t Build It”, che ha
invitato Amazon a porre fine ai suoi investimenti nella tecnologia di
riconoscimento facciale che consente abusi verso persone emarginate. Quando
Google ha firmato Project Maven, un contratto per migliorare la tecnologia dei
droni per l’esercito degli Stati Uniti, i lavoratori di Google hanno fatto
pressione sulla società per rescindere il contratto e istituire una politica
che si impegnasse a un uso etico dell’intelligenza artificiale…
Traduzione
di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” –
Invictapalestina.org
Il
significato dell’Apartheid per Israele - Jonathan Ofir
È autunno.
Le foglie cadono e i frutti maturano. Ciò che è cresciuto dall’inizio dell’anno
si stacca e cade a terra.
All’inizio
di quest’anno, sono apparsi due importanti rapporti sull’apartheid israeliano
di importanti organizzazioni per i diritti umani: l’israeliana B’Tselem e
l’Internazionale Human Rights Watch (HRW). B’Tselem a gennaio, con il titolo
“Un Regime di Supremazia Ebraica dal Fiume Giordano al Mar Mediterraneo: Questo
è l’Apartheid”; Quello di HRW ad aprile, intitolato “Varcata Una Soglia: Le
Autorità Israeliane e i Crimini di Apartheid e Persecuzione”.
I media
israeliani sono stati piuttosto silenziosi su questo, e non c’è da
meravigliarsi: la negazione è stata lo strumento principale con cui il sionismo
ha compiuto le sue atrocità colonialiste. Dapprima negando l’esistenza
palestinese (Yisrael Zangvil del 1894 “una terra senza popolo per un popolo
senza terra” e Golda Meir del 1969 “non c’erano cose come i palestinesi non
esistevano”), poi negando il loro ritorno dopo averli epurati.
Questo è
l’approccio sionista preferito: fingere che non esistano. Combattere qualcosa
frontalmente di solito richiede più tempo ed energia che negarne l’esistenza e
seppellirlo sotto la sabbia, come i 230 corpi del massacro di Tantura del 1948
sepolti in una fossa comune sotto il parcheggio del kibbutz Nachsholim’s Dor
Beach. E se si è lo storico israeliano Benny Morris, si può sostenere una
completa pulizia etnica di “tutta la Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”,
e poi fingere di non aver mai detto pulizia etnica.
Poiché
questo aspetto della negazione è così grande e radicato nel sionismo, è
importante non solo affrontarlo con la realtà, ma anche consentire alla verità
di penetrare nello spazio e nel tempo. E se 73 anni non sono bastati,
quest’anno lo ha scolpito in: Israele è uno Stato di apartheid.
Non ho
intenzione di andare oltre gli innumerevoli dettagli che lo rendono così.
Vorrei piuttosto contemplare il significato di questo per Israele, al di là
della sua negazione e del suo disperato contrasto di prove e dati con
propaganda e accuse di “antisemitismo”. Per i negazionisti sionisti, si tratta
di farsi una semplice domanda: e se avessero ragione, e se Israele fosse uno
Stato di apartheid?
Israele non
ha alcuna via di scampo. È così profondamente radicato in questo apartheid, che
un suo smantellamento sembra praticabile quanto lo smantellamento del sogno
sionista della supremazia ebraica in una terra in gran parte epurata dai non
ebrei. Sebbene B’Tselem e HRW non accettino il sionismo come ideologia (poiché
si riferiscono agli sviluppi politici), il sionismo è implicitamente
condannato, poiché le politiche sono venute da qualche parte, non sono
semplicemente avvenute. E che da qualche parte c’è il sionismo. L’avidità
sionista per la terra era così grande, che non poteva fare a meno di
“completare il lavoro” nel 1967 e conquistare il resto della Palestina storica.
Non è stato un incidente. Il desiderio sionista di “liberare l’intero paese”,
come scrisse David Ben-Gurion a suo figlio Amos nel 1937, fu sempre molto
forte. E poi, quando hanno conquistato il resto, hanno iniziato a fingere che
fosse solo temporaneo.
E così è
andato il “processo di pace”, dove Israele avrebbe presumibilmente parlato di
una “soluzione a due Stati”, ma in realtà significava la segregazione razziale
per i palestinesi.
Anche gli
appelli israeliani più rumorosi al “divorzio” e alla “separazione” dai
palestinesi si basano sulla stessa mentalità razzista dell’Apartheid, come se
dimenticassero che apartheid significa “separazione”…
Traduzione
di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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