All’inizio della fine dell’Impero ottomano scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.
Un secolo di “Made in China”
«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina,
dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma
lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente;
sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in
poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le
nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini
instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China”
persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].
Il grande
inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva
capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste
righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di
quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che
vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze
occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a
raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate
civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano
e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono
ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la
storia.
Scavando per
ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano
capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere
in quel mondo così lontano e che raccontai nel
mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le
parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca
vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:
«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione
di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da
un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere
sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di
milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite
quale sarà la fine».
Il protagonista della mia ricerca si
era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti.
L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore
di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la
presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del
Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra
gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone
e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino.
Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:
«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche
con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel
Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.
Per meglio
comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina
comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le
stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni
erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni,
consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.
Console, console
generale, Hong Kong e i pirati
Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce
Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una
spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane
imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma
per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette
le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong
Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto
al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con
l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti
di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina,
Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei
costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro
apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della
cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad
allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete
aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni
e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche
sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto
del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando
del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali
portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di
Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.
Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che
ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche
dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo
stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un
momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito
notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che
spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo
diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità
insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni
diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si
sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione
territoriale europee e del Giappone.
La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due
missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle
armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La
Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata
Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una
piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A
giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong
allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A
settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio
palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager –
un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del
Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per
allargare ulteriormente Hong Hong.
Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente,
radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il
modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi
naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto
dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica.
Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale
l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che
l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato
restituito alla Repubblica popolare cinese.
Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva
girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra
Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto:
circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale
inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie
più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana
dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi.
Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina
intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto
il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono
la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re
d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta.
«Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il
signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo
discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide
dei soldati britannici».
Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia
voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione
vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi
dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era
stato fissato per legge la festa dei lavoratori.
«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale
spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per
lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività —
prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato
— voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe
all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella
direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori
Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di
Roma.
«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente
nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale?
La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia
deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma
altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la
necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non
può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a
una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e
nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo
italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.
Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è
necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci
degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare
della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio
dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di
politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare
ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio
incondizionato».
E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e
sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una
sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché
noi non dovremmo averne la nostra parte?…»
Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel
corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a
parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che
mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali
può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina,
dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede
di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o
piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme
dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può
chiamare nazione cinese».
E andò avanti per ricordare un episodio della storia
coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio
dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che
è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito
regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna
segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina
Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso
il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed
incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di
Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai
delle navi ancorate nella rada.
Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a
Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per
domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette
politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più
ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono
nuocere ai loro nemici».
Volpicelli,
per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un
anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia
in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone).
Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di
Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere
nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in
quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza
e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto
e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.
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